Economia / Opinioni
Il mercato del lavoro non funziona. Ma non ditelo a Confindustria
L’Italia ha un basso numero di occupati (circa 27 milioni, incluso il “nero”), un infimo livello delle retribuzioni e una profonda disparità salariale tra donne e uomini. Eppure ci si racconta che il “problema” è la mancanza di lavoratori disposti a faticare. Che cosa fare per migliorare le condizioni reali della popolazione? L’analisi di Alessandro Volpi
Secondo gli ultimi dati dell’Inps, in Italia le persone che lavorano sono 23 milioni. Se anche si aggiungono i 3,5 milioni di lavoratori in nero, si arriva a poco meno di 27 milioni, ben 7 milioni in meno della Francia che ha un numero di abitanti non distante da quello del nostro Paese. Dietro questi numeri si pone uno dei problemi principali del contesto italiano. Non basta che cresca il Pil: se non si amplia il numero dei lavoratori e le loro retribuzioni -due elementi decisamente connessi tra loro- le condizioni reali della popolazione non miglioreranno.
Soprattutto non saranno sostenibili il sistema pensionistico e neppure quello del welfare che, peraltro, dovrà far fronte a una spesa crescente per gli ammortizzatori sociali. Alla luce di ciò, è evidente che l’attuale mercato del lavoro, frammentato, spesso de-contrattualizzato e con livelli retributivi molto bassi non funziona.
A questo dato se ne aggiunge un altro. Nel nostro Paese nonostante 2,3 milioni di disoccupati e un vero e proprio esercito di inoccupati, secondo le stime dell’Istat ci sarebbero 400mila posti di lavoro che non trovano profili professionali adeguati. Un simile tema merita, tuttavia, qualche considerazione in più, al di là del fin troppo ostentato stupore e delle lamentele “confindustriali”. In primo luogo, bisognerebbe legare, in tali statistiche, il posto da coprire alle condizioni salariali e contrattuali, alle sue localizzazioni geografiche e al sistema dei collegamenti infrastrutturali da utilizzare per raggiungerlo; dati che invece, spesso, non vengono riportati ma, al contrario, ritenuti irrilevanti. Esiste però un elemento ancora più decisivo. È ovvio infatti che la difficoltà ad avere profili qualificati dipende in larga parte da un mercato del lavoro dominato dal precariato, da contratti di brevissima durata, spesso non rinnovati, che lasciano i lavoratori in una condizione di costante incertezza. A lungo ha prevalso l’idea secondo cui era meglio qualunque lavoro piuttosto che nessun lavoro, ma questo ha finito per generare una dequalificazione e un demansionamento destinato a provocare poi la mancanza di lavoratori con adeguate competenze. In quest’ambito, la formazione è altrettanto di frequente uno strumento indefinito e indefinibile, non facilitata da un sistema universitario e da realtà associative che non hanno risorse e visione necessarie. Dunque la retorica costruita sulla mancanza di lavoratori disponibili a lavorare andrebbe largamente rivista.
Come già accennato in apertura, in Italia su circa 37 milioni di persone in età da lavoro, gli occupati con continuità sono solo 23 milioni. I cassaintegrati, i titolari di Naspi e di reddito di cittadinanza sono 5 milioni e i Neet, le persone che non lavorano e non studiano sono 2,1 milioni. È evidente che un Paese con una base di occupati così esigua e con un numero di sussidiati così ampio è estremamente fragile in termini sociali; occorre quindi davvero tornare a legare indissolubilmente cittadinanza e lavoro a partire da una sua vera riqualificazione.
L’Istituto nazionale per le analisi delle politiche pubbliche ha preparato un rapporto su “Gender policies” da cui emerge che nei mesi successivi alla pandemia il 49,6% dei contratti delle donne è a tempo parziale contro il 26,6% degli uomini. Lo stesso rapporto sostiene che uno strumento per ridurre tale divario sarebbe quello del salario minimo, date le più basse retribuzioni femminili. Nel caso italiano, secondo l’Istituto, con un salario minimo di 9 euro l’ora, il 16,5% degli uomini impiegati avrebbe un adeguamento contro il 23,3% delle donne. Certo, bisognerebbe aggiungere che è indispensabile una più regolare contrattualizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici. Solo per citare un dato, eclatante, con il “superbonus” si sono iscritte alle Camere di commercio ben 11mila nuove società edili, gran parte delle quali non applica il contratto dell’edilizia, ma contratti ben più convenienti e magari con “costi” più bassi sulla sicurezza. È chiaro che un mutamento normativo, finalizzato a valorizzare il lavoro e non solo a cercare di crearlo ad ogni costo, sarebbe necessario. Forse sarebbe necessario, in primis, un Parlamento, ma così stiamo davvero chiedendo troppo.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.
© riproduzione riservata