Interni / Intervista
Il legame sempre più stretto tra università e industria militare
In tutto il mondo le società del comparto della difesa stringono accordi di collaborazione con gli atenei, con il rischio di snaturare le finalità della ricerca. Un fenomeno che riguarda anche l’Italia, a partire dal caso Leonardo
“Pensiamo a quando si aggiunge dell’olio a un bicchiere d’acqua: se lo beviamo il sapore cambia nonostante alla vista le due sostanze siano divise l’una dall’altra”. Il professor Michele Lancione non ha dubbi: il gusto dolce della libertà di ricerca è già stato guastato perché sempre più le università, italiane e non, sono interconnesse con la sfera militare. E nel libro “Università e militarizzazione”, pubblicato da Eris edizioni nell’ottobre 2023, Lancione procede analiticamente per ricostruire perché queste relazioni siano problematiche. Lo fa partendo da un’emblematica vicenda che lo ha riguardato in prima persona (il dipartimento per cui lavora al Politecnico di Torino sta producendo mappe per la discussa agenzia Frontex) allargando poi lo sguardo ad altre collaborazioni di atenei italiani e stranieri, dal Regno Unito all’Australia fino agli Stati Uniti. Lo abbiamo intervistato.
Professor Lancione, partiamo dal titolo. Che cosa intende con “militarizzazione”?
ML Lo intendo nel senso più ampio possibile, che quindi supera l’aspetto strettamente materiale del termine come può essere l’occupazione di suolo pubblico per usi militari. Mi riferisco quindi a quel processo, a cui abbiamo assistito in Occidente dall’11 settembre 2001 in avanti, per cui si trasforma in militare ciò che non lo è. Parto da un esempio banale: quante volte nel linguaggio di tutti giorni usiamo una terminologia bellica? Parole come “assalto”, “potenza di fuoco”, “battaglia”. Questo è frutto di un cambio di paradigma che ha favorito la diffusione di una cultura della guerra e che purtroppo continua ad aumentare, anche per quanto successo prima in Ucraina e poi in Palestina.
Lei passa in rassegna diversi casi di accordi problematici tra università e aziende del comparto militare-industriale. Ci fa qualche esempio?
ML Bisogna innanzitutto sfatare il mito per cui solo alcune discipline sono interessate da questo fenomeno, anche le scienze sociali lo sono. Nel libro porto l’esempio dello “Human terrain system” promosso dal ministero della Difesa statunitense per studiare il “terreno umano” nella “Guerra al terrore” portata avanti in Iraq e Afghanistan con l’obiettivo di migliorare i risultati. In quel caso le figure coinvolte non erano ingegneri o informatici ma antropologi, politologi e geografi che furono persino coinvolti sul campo di battaglia. È l’esempio più estremo di dove si è spinta l’ingerenza della sfera militare nella ricerca. La stessa che troviamo, questa volta in Italia, negli accordi con la fondazione Med-Or e il suo principale player, Leonardo Spa. Diversi atenei italiani hanno stretto accordi con l’azienda per favorire, così dicono, una cultura di scambio e di saperi. Spesso si usa la parola “sinergia”: sembra innocua ma non lo è, perché significa fare incontrare mondi che prima non si parlavano, scambiare esperienze, creare relazioni sociali. E non conta se lo scopo del progetto è civile: anche perché queste collaborazioni oggi si inseriscono in un quadro generale preoccupante.
Quale?
ML Nel 2022 è stato lanciato dal ministero della Difesa un Piano nazionale della ricerca militare (Pnrm) che ha come obiettivo “l’incremento del patrimonio di conoscenze della Difesa nei settori dell’alta tecnologia”. Da un lato ci sono università e privati che si uniscono per scopi “civili”, dall’altro un ministero che offre soldi per fare ricerca su ambiti legati al mondo della difesa.
“Università e militarizzazione. Il duplice uso della libertà di ricerca” è il titolo del saggio di Michele Lancione, professore ordinario di Geografia politico-economica al Politecnico di Torino. Il libro è stato pubblicato dalla casa editrice Eris
Ha già citato Leonardo. Approfondisce soprattutto il suo legame con il Politecnico di Torino, l’ateneo in cui lei insegna. Perché?
ML Perché Leonardo a Torino, piano piano, è diventato quello che era la Fiat in passato. Un partner industriale di riferimento a cui ci si lega sempre di più. Attenzione: non c’è nulla di illegittimo e men che meno di illegale in questo. È un interesse se vogliamo genuino di un’università che ha bisogno della validazione di un’azienda per dimostrare i risultati concreti che il suo sapere produce. Così come è legittimo l’interesse dell’azienda che guadagna su due aspetti: giustifica la sua immagine, perché collabora con uno degli atenei più prestigiosi del mondo e soprattutto ha la possibilità di accedere a un sapere fondamentale per la sua attività. Questa dinamica è banale, ma il problema è proprio questo e mi spingo a dire che ricorda la banalità del male di Hannah Arendt. Perché questo legame rischia di far perdere all’università la sua natura: Leonardo lavora per fare profitto e non deve porsi questioni etiche su ciò che produce (fare armi è il suo business) ma per l’Ateneo non è così. E la domanda che ci dimentichiamo di porci è questa. Come si farà, da un punto di vista istituzionale, a prendere posizione su certe tematiche -penso alle guerre e agli armamenti- se il tuo partner, con cui magari hai costruito interi ambiti di ricerca e insegnamento, come nel caso di Leonardo che gestisce un master al Politecnico di Torino, alimenta quello stesso sistema? E più ti leghi finanziariamente a questi soggetti, più sei incastrato.
È quello che è successo con il “caso Frontex”?
ML Secondo me sì. Non si è avuto il coraggio di uscire da quell’accordo perché a cascata se ne sarebbero dovuti mettere in discussione tanti altri. Ma c’è di più. Il contratto per la produzione di cartografia aggiornata con l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera è tutt’ora in vigore nonostante il Senato accademico abbia deciso di salvarlo, per due volte, solo con la specifica previsione dell’inserimento di una clausola di salvaguardia dei diritti umani che impegnava entrambe le parti. Al di là dell’impossibilità di controllare che cosa faccia Frontex con le mappe, nel febbraio 2022 Altreconomia aveva scoperto che la stessa clausola non era mai stata nemmeno visionata dall’Agenzia, perché non è stata inserita nel contratto quadro, ma solo nell’accordo tra i tre soggetti italiani della cordata che si sono aggiudicati il bando. Ed è paradossale: sei talmente travolto dal flusso che ti disinteressi completamente delle conseguenze delle tue azioni: si decide di inserire una clausola, Frontex non sa neanche cosa sia, ma va bene così.
Queste dinamiche che racconta succedono solo a Torino?
ML No, in tantissimi atenei italiani.
Gli accordi però, spesso, almeno sulla carta, riguardano scopi civili. Questo non è abbastanza?
ML Non solo non è abbastanza ma è una scusa intellettualmente disonesta. Mi spiego: quando ci si rifugia dietro l’etichetta del doppio utilizzo si blocca all’origine qualsiasi tipo di discussione. In fondo il Gps che abbiamo sui nostri smartphone deriva da studi militari, che male c’è? Oggi lo usiamo tutti. Ma attenzione. Riprendo l’esempio dell’acqua e dell’olio: le entità -università e azienda- restano separate ma la relazione che si crea è intensissima. E aggiungo: forse, se Leonardo non collaborasse con novanta atenei e centri di ricerca nel mondo, non sarebbe il primo produttore europeo di armamenti legati all’aerospazio. Per quel sapere che l’università gli fornisce (ad esempio sui pannelli fotovoltaici per i robot inviati su Marte) offre un vantaggio all’azienda anche sull’altro fronte. È quello scambio di saperi di cui parlavamo prima. E soprattutto di denaro.
Quanto incide l’aspetto economico?
ML Tanto. Perché quell’ambito rischia di diventare una delle principali forme di finanziamento di interi dipartimenti. E questo è pericoloso perché se l’azienda chiude i rubinetti, rischi di non stare più in piedi.
Le università e i centri di ricerca in tutto il mondo con cui Leonardo Spa ha attivato accordi di collaborazione sono 90
L’università, quindi, si sta snaturando?
ML Si è persa la capacità di pensare alle università come un luogo in cui è necessario prendere posizione pubbliche su tematiche importanti. E su questo all’estero sono più avanti di noi. I rettori non intervengono mai sull’attualità. E chi lo fa, penso a Tomaso Montanari dell’Università per stranieri di Siena, viene ridicolizzato. Ma è il suo lavoro.
È un problema solo dei rettori?
ML Ovviamente no, ma incide perché poi a cascata tutti sono più impauriti. E ricordiamo che in Italia la carriera accademica è difficile e lunga: spesso sei costretto a tenere un profilo basso. Per un ricercatore che ha bisogno dei soldi per pagarsi l’affitto è complesso dire di no. E poi penso che ci sia anche un forte elemento organizzativo: con un’espressione forte una volta ho detto che i miei colleghi sono dei passacarte. Intendo dire questo: se la Giunta di un ateneo si limita a firmare fogli, tantissimi nelle poche ore dell’assemblea, magari senza avere prima letto dettagliatamente i documenti, perché materialmente non ne ha avuto tempo, non può esserci un controllo adeguato. E neanche una discussione.
A chi è rivolto il libro?
ML Può parlare a molte e molti ma l’ho scritto pensando ai miei studenti. Spero sia uno strumento utile per porsi delle domande e organizzarsi per approfondire questo tema. Soprattutto in un momento in cui la guerra è sempre più vicina a tutti noi.
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