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Crisi climatica / Attualità

Il greenwashing “militare” della Nato e le richieste di trasparenza della società civile

Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg © Nato

L’Alleanza atlantica ha lanciato una strategia per ridurre le proprie emissioni e azzerarle entro il 2050 ma la metodologia adottata per il monitoraggio non è mai stata resa pubblica. Il Conflict and environment observatory ha lanciato una campagna per chiedere dati accessibili e obiettivi misurabili di decarbonizzazione

“Il cambiamento climatico sta rendendo il nostro mondo più pericoloso”. A pronunciare queste parole, durante una tavola rotonda su “Clima, pace e stabilità” in occasione della Cop26 di Glasgow (31 ottobre-12 novembre 2021), non fu un climatologo o un attivista per i diritti umani ma il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. “Il cambiamento climatico -disse- è importante per la nostra sicurezza e stiamo affrontando queste sfide”. Un promesso impegno che ha poi portato all’elaborazione della strategia Nato 2030, che indica il climate change tra le minacce globali al pari del terrorismo e degli attacchi informatici. Pochi mesi dopo, durante il vertice che si è svolto a Madrid nel giugno 2022, Stoltenberg ha annunciato i piani dell’Alleanza atlantica per ridurre le emissioni di gas serra e raggiungerne l’azzeramento entro il 2050. In quell’occasione il segretario del “Patto atlantico” ha annunciato l’utilizzo di una metodologia ad hoc messa a punto dalla Nato stessa che “stabilisce che cosa contare e come” e che “sarà messa a disposizione di tutti gli alleati per aiutarli a ridurre le proprie emissioni in ambito militare”.

Non è andata proprio così. “Questo impegno ad azzerare le emissioni di CO2 ha ricevuto molti apprezzamenti: la Nato sta cercando di posizionarsi come leader globale nella lotta al cambiamento climatico, ha annunciato la sua strategia al 2030 e sta lavorando per aprire un Climate change center of excellence in Canada. Ma questi interventi non sono nemmeno lontanamente sufficienti ad affrontare questa sfida”, spiega ad Altreconomia Ellie Kinney, campaigner presso la charity inglese Conflict and environment observatory (Ceobs) che lo scorso 27 ottobre ha partecipato al seminario “Disarmo climatico. L’impatto ambientale di armi e guerre e i percorsi collettivi possibili verso un futuro di sicurezza climatica” una due giorni promossa da Rete italiana pace e disarmo (anima della manifestazione nazionale “Cessate il fuoco subito. Negoziato per la pace” che si è svolta a Roma sabato 5 novembre).

Una delle principali criticità dell’impegno per il clima annunciato dalla Nato riguarda proprio la metodologia di tracciamento e rendicontazione delle emissioni di CO2, annunciata alla conferenza di Madrid, che non è mai stata resa pubblica. “Il fatto che tutto avvenga a porte chiuse e che esperti indipendenti non possano analizzarla e studiarla rappresenta un precedente pericoloso -continua Kinney-. La comunicazione in merito è stata volutamente ambigua, sappiamo solo che l’impegno per raggiungere l’obiettivo Net zero si applica esclusivamente alla Nato intesa come istituzione, ad esempio alle emissioni dei suoi edifici e a quelle legate alle sue attività quotidiane, ma non agli apparati militari dei Paesi che aderiscono al ‘Patto atlantico’ e che sono i primi responsabili della produzione di gas climalteranti. Inoltre non sappiamo fino a che punto si spinge l’impegno della Nato, né come intende raggiungere l’azzeramento”.

In vista della Cop27 di Sharm el Sheikh, il Conflict and environment observatory ha lanciato la campagna “Nato emissions: count them, cut them” per chiedere all’Alleanza di rendere pubblica la metodologia di monitoraggio e che gli Stati membri si impegnino a conteggiare le emissioni in modo “accurato, comparabile e trasparente”. Oltre al conteggio si chiede di fissare “obiettivi di riduzione che siano in linea con l’Accordo di Parigi” finalizzati a contenere l’aumento medio delle temperature globali al di sotto di 1,5 gradi centigradi entro fine secolo.

La scarsa trasparenza della Nato in materia di emissioni rientra nel quadro del più ampio military emission gap: “Gli Stati sono ancora esonerati dal comunicare in modo esaustivo le proprie emissioni di gas climalteranti derivanti dal settore militare: ci troviamo davanti a un vero e proprio buco nero”, sottolinea Kinney, che spiega come la “genesi” di questo ritardo risalga alla ratifica del Protocollo di Kyoto (1997) quando, a seguito delle pressioni degli Stati Uniti, il comparto bellico venne escluso dall’obbligo di comunicazione dei dati.

Nel 2015 l’Accordo di Parigi ha reso volontaria la rendicontazione delle emissioni militari ma a complicare il quadro si è aggiunta la distinzione prevista dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) che ha stabilito obblighi diversi per i vari Stati in base al loro livello di sviluppo economico. Quelli più avanzati sono stati inseriti nel cosiddetto “Allegato I” (che comprende, tra gli altri, Stati Uniti, Canada, Russia, Australia e tutti i principali Paesi europei), sono obbligati a comunicare le proprie emissioni “militari” e ad adottare misure per ridurle; mentre gli altri hanno minori obblighi di rendicontazione. Dal quadro complessivo mancano così importanti apparati militari come quelli di Cina, India, Arabia Saudita e Israele. Il monitoraggio avviene sulla base delle linee guida dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), tuttavia avere un quadro preciso è estremamente complesso dal momento che molti Paesi non disaggregano le emissioni militari oppure le riportano assieme a quelle provenienti da attività civili (come protezione civile o ricerca e soccorso), mentre alcuni Stati non forniscono queste informazioni per presunti motivi di sicurezza nazionale.

Per fare ordine in questa complessa serie di obblighi, esenzioni e scarsa trasparenza, il Conflict and environment observatory ha lanciato lo scorso anno il sito militaryemission.org con l’obiettivo di  rendere più accessibili a ricercatori, giornalisti, politici e attivisti i dati relativi alle emissioni militari relativi all’anno 2019. Dati che verranno aggiornati in occasione della Conferenza delle parti in Egitto. “Alcune forze armate stanno iniziando a fissare obiettivi Net zero, come stanno facendo l’esercito degli Stati Uniti e la Royal air force del Regno Unito, ma senza dati accessibili e comparabili, e senza strumenti per monitorare i loro progressi, questi obiettivi rischiano di essere poco più che greenwashing militare”, conclude Kinney.

Chi ha provato a ricostruire il “peso” delle emissioni militari -anche attraverso una serie di esempi concreti- è un gruppo di ricercatori afferenti a diverse università del Regno Unito che il 3 novembre di quest’anno ha pubblicato sulla rivista Nature lo studio “Decarbonize the military – mandate emissions reporting”. Per percorrere una distanza di cento miglia (160 chilometri), ad esempio, un F35 emette circa 2,3 tonnellate metriche equivalenti di anidride carbonica (CO2eq) pari a quelle prodotte da un’automobile a benzina nel corso di un anno. L’intera flotta di jet degli Stati Uniti produce in un anno tanta CO2 quanto quella emessa da sei milioni di auto.

Secondo una stima contenuta nello studio, nel 2018 le forze armate statunitensi hanno emesso complessivamente 55,4 milioni di CO2eq: una quantità superiore rispetto a quelle di Paesi come Svizzera, Ghana e Nuova Zelanda. “Le emissioni militari devono essere inserite nell’agenda globale. Devono essere riconosciute ufficialmente e riportate accuratamente negli inventari nazionali, le operazioni militari devono essere decarbonizzate -scrivono gli autori dell’articolo-. Per questo non è sufficiente ‘rendere più ecologiche’ le infrastrutture o le attrezzature militari. È necessario uno sforzo concertato per ridurre la spesa militare per programmi e attrezzature ad alta intensità di carbonio”. La Cop27 di Sharm el Sheikh e quella successiva in programma negli Emirati Arabi Uniti (Cop28) vengono indicate quali occasioni “per formalizzare questo cambiamento”.

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