Economia / Opinioni
Il governo del popolo-nazione che vende in silenzio ai grandi fondi
La metà delle coperture della “manovra”, che difficilmente supererà i 30 miliardi di euro, proviene da deficit e quindi da nuovo debito. Da collocare pagando un alto rischio. Il Governo Meloni ha previsto una “soluzione” nella Nadef: privatizzazioni per oltre 20 miliardi. “È thatcherismo fuori tempo massimo”, osserva Alessandro Volpi
Scrivere la Legge di Bilancio nelle attuali condizioni è tutt’altro che semplice. Le risorse sono decisamente poche e buona parte delle coperture delle spese inserite in manovra arriveranno dall’incremento del deficit. La Nadef, la nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, ha previsto per il 2024 un deficit al 4,3% del Prodotto interno lordo; ciò significa una disponibilità per il governo da utilizzare nella Legge di Bilancio pari a 14 miliardi di euro.
In altre parole, circa la metà delle coperture della “manovra”, che assai difficilmente supererà i 30 miliardi di euro, proviene dal deficit e quindi da nuovo debito. Una simile “disponibilità” è stata resa possibile dal fatto che Eurostat ha finalmente chiarito come calcolare in termini di spesa pubblica il costo del Superbonus, che, secondo l’istituto europeo, deve essere contabilizzato per intero nel 2023. Dunque, i conti italiani si appesantiranno per quest’anno, per il quale vale però ancora la deroga al Patto di stabilità, ma non sconteranno gli effetti del Superbonus nei conti del 2024, quando il Patto dovrebbe essere ripristinato.
In tal modo, si liberano i 14 miliardi di euro indispensabili per una manovra altrimenti ancora più impossibile anche alla luce di stime di crescita che per il 2024 sono assai deludenti e che il governo, forse eccedendo in ottimismo, colloca all’1,2% del Pil. Su questi numeri pesano tuttavia due ulteriori dati molto pesanti. Il primo è costituito dal fatto che, come ricordato maggior deficit vuol dire maggior debito e, per il Tesoro italiano, il costo del debito sta rapidamente salendo e sta riportando le lancette dell’orologio al novembre 2011.
L’Italia, infatti, deve collocare il prossimo anno titoli del proprio debito per 130-140 miliardi di euro in più rispetto alle naturali scadenze. Tale maggior debito dipende dal fatto che la Banca centrale europea ha smesso di comprare il debito italiano e non fornisce neppure a Banca d’Italia le risorse per farlo. Il nostro Paese dipende quindi dal “mercato”, composto da compratori italiani e internazionali. Per attrarli deve pagare una montagna di interessi che crescerà ulteriormente, seccando una fetta importante del bilancio pubblico. Una prova evidente di ciò è costituita dal rendimento dei Bot semestrali che ha raggiunto il 4% ed è soltanto meno di un punto inferiore al rendimento del Btp decennale che paga il 5%. Questo significa che chi presta a breve -a sei mesi- e chi presta a lungo termine -a dieci anni- percepisce quasi lo stesso rischio.
Si tratta di un pessimo segnale perché indica che “il mercato” si attende rischi seri per l’Italia a breve e pretende una remunerazione alta, paragonabile a quella di chi vincola il proprio risparmio a dieci anni. In sintesi, si riaffacciano gli incubi del novembre 2011, questa volta senza spread perché anche la Germania non sta benissimo. E soprattutto, ritorna l’incubo del rigore, a tutto vantaggio dei redditi alti, secondo un’esperienza che abbiamo già conosciuto. Il secondo dato è rappresentato dall’inflazione che si mantiene sopra il 5% e sembra destinata ad essere nuovamente trascinata in alto per effetto della ripresa della crescita del prezzo del gas e dei carburanti. Se l’aumento dei prezzi dovesse continuare e consolidarsi è evidente che i benefici contabili derivanti dalla capacità dell’inflazione di gonfiare il Pil nominale sarebbero più che annullati dalla perdita del potere d’acquisto delle famiglie italiane e dall’aumento dei costi per le imprese. In tal caso una Legge di Bilancio da 30 miliardi di euro sarebbe del tutto insufficiente e sarebbe necessario trovare altre risorse che, senza aumenti fiscali o senza un ulteriore, costoso, indebitamento, sarebbero pressoché introvabili.
Ma l’esecutivo Meloni sembra avere in serbo una “soluzione” in merito. Sempre nella Nadef sono state inserite privatizzazioni per oltre 20 miliardi di euro. Ciò significa che l’intenzione non è solo quella di cedere Mps, ma di mettere in vendita altre partecipazioni e beni pubblici per cifre rilevantissime. Quindi è probabile che la privatizzazione riguardi società e beni assai pregiati. Altro che destra sociale, siamo davvero al thatcherismo fuori tempo massimo. Ma questa volta le privatizzazioni si faranno senza dirlo troppo perché la narrazione popolare del Governo Meloni non le gradirebbe: non era il governo del popolo-nazione? Come fa il governo del popolo-nazione a vendere ai grandi fondi? Dunque, meglio farlo in silenzio.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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