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Il fallimento dei luoghi della memoria. Lettera da Sant’Anna di Stazzema
Mentre le guerre infuriano sempre più vicine e sempre più feroci, c’è una memoria da ricostruire e c’è un nesso tra passato e presente da rendere vivo e vero, non retorico e ipocrita com’è attualmente. I luoghi della memoria, che dovrebbero essere monito costante e spina nel fianco per i sistemi di potere, sono invece costretti a un ruolo minore e consolatorio. Da dove ripartire? L’intervento di Lorenzo Guadagnucci
Da cinque anni a Sant’Anna di Stazzema c’è un gruppo di camminatori che celebra il 12 agosto, ricorrenza della strage nazifascista del 1944 (circa 400 persone trucidate nell’arco di poche ore), con un piccolo, ma significativo momento di raccoglimento e riflessione.
Avviene all’alba, nella frazione della Vaccareccia, davanti ai ruderi delle stalle dove furono uccise circa settanta persone. Il “rito” inizia con il ricordo della sua stessa nascita: un’installazione artistica dedicata ai genocidi compiuti nella storia dell’umanità, opera realizzata da Carlo Molinero in solidarietà coi “fratelli migranti” morti (e morituri) nel Mediterraneo, teatro anch’esso, dunque, di un genocidio.
Segue la lettura di una straordinaria poesia di Derek Walcott, intitolata “Migranti”, e poi toccherebbe a me raccontare quel che avvenne nel ’44 proprio lì alla Vaccareccia, dove perse la vita, con tante altre persone, anche Elena Guadagnucci, madre di mio padre Alberto, che all’epoca aveva dieci anni e si salvò quasi per caso.
Stavolta ho deciso di non raccontare la storia di Elena, di non leggere la parte del mio libro “Era un giorno qualsiasi” (Terre di mezzo editore) dedicata a questo episodio. Ho detto che quest’anno il mio contributo al rito, così importante per il Cammino per la pace e il disarmo, sarebbe stata proprio la scelta di non leggere. Mi sarei sentito in imbarazzo a raccontare un fatto terribile di ottant’anni fa mentre attorno a noi, da mesi, fatti altrettanto gravi, moltiplicati però per cento (400 morti contro 40 mila), avvengono anche a nostro nome, con il nostro sostegno, la nostra complicità.
Parlo ovviamente di Gaza. Non me la sono sentita di evocare un eccidio lontano nel tempo, e suscitare l’inevitabile moto di commozione e indignazione, mentre tutti noi, come collettività, stiamo attraversando lo strazio di milioni di persone, l’orribile vendetta di Israele per l’orribile pogrom compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023, con indifferenza, con noncuranza, come se non ci riguardasse più di tanto. Come se non ci fosse connessione tra la memoria degli eccidi che abbiamo subito e la percezione degli eccidi che avvengono, anche per conto nostro, nel presente.
Siamo abulici, prima ancora che impotenti. Sappiamo ma fingiamo di non sapere; accettiamo che i nostri media non raccontino le storie terrificanti di migliaia e migliaia di famiglie a Gaza: quante Vaccareccia, quante Sant’Anna sono avvenute nella Striscia negli ultimi mesi? Quante vicende strazianti ci sono state celate? Stiamo assistendo a un genocidio in diretta e permettiamo ai nostri governi, alle nostre democrazie -“nate dalla lotta al nazifascismo”, come ci piace declamare- di non intervenire e anzi di sostenere e armare l’esercito di Israele. Siamo complici.
Che cos’è dunque la memoria? L’abbiamo sempre definita una bussola per orientarsi nel presente, una chiave di lettura della storia. E che cos’è, nello specifico, la memoria delle stragi? Abbiamo sempre sostenuto, proprio lì alla Vaccareccia, che il suo senso profondo è il rifiuto di ogni gerarchia all’interno della specie umana: non ci sono vite che contano più di altre.
A Sant’Anna 400 vite furono annientate con frettolosa ferocia perché erano vite poco importanti, perfino insignificanti, nella logica dei carnefici. E invece tutte le vite contano: questo è il principio scaturito dalle due grandi carneficine mondiali del Novecento. Un principio nuovo, mai visto prima nella storia, scolpito nelle Costituzioni democratiche europee e nella Dichiarazione universale dei diritti della persona, un principio che stiamo però calpestando. Lasciamo affondare i barconi nel mare di Sicilia perché colmi di vite che giudichiamo superflue, sacrificabili, vite di scarto. Israele compie stragi quasi quotidiane perché ai suoi occhi le vite dei palestinesi contano poco o nulla e l’Occidente sostanzialmente approva. Che resta allora della memoria, in queste condizioni?
La verità è che stiamo assistendo al fallimento dei luoghi della memoria -Sant’Anna di Stazzema, Monte Sole-Marzabotto, le Fosse Ardeatine, Civitella Val di Chiana e così via-. Questi luoghi di dolore, ma anche di enorme forza morale, avrebbero il ruolo di sentinelle, capaci di segnalare ogni violazione della dignità umana, ovunque avvenuta, per mano di chiunque. Un ammonimento, un grido d’allarme lanciato da questi luoghi, dovrebbero agire come potenti forme di pressione su tutti i governi, su tutti gli eserciti, e soprattutto su quelli che si definiscono democratici e si rifanno ai princìpi della legalità internazionale e alla dottrina dei diritti umani. Dovrebbero essere, questi luoghi della memoria, altrettanti spazi di riflessione e di proposta, luoghi dove si osa rifiutare l’idea stessa della guerra, perché è nella logica bellica, con la costruzione del nemico, che trova il suo inizio, la sua massima manifestazione, la gerarchia delle vite -quelle che contano, da proteggere, e quelle che non contano, annientabili a piacimento-.
E invece in questi anni i luoghi della memoria hanno svolto un ruolo minore; sono stati teatro di celebrazioni per lo più consolatorie, quasi sempre retoriche, dove si parla spesso di pace ma senza mettere in discussione le guerre, se queste sono volute o combattute dalla “nostra” parte. Le parole alla fine restano vuote, prive di senso.
I luoghi della memoria, invece d’essere un assillo, un monito costante, una spina nel fianco per i sistemi di potere che alimentano, giustificano e praticano le guerre o il “lasciar morire” ai confini della Fortezza Europa, sono stati e sono luoghi innocui, buoni magari per consentire a politici, ministri, leader di partito di professarsi antifascisti, buoni per deprecare gli eccidi e le guerre, buoni addirittura per invocare il cessate il fuoco qui, la pace là, ma sempre senza impegno, senza che alle parole debbano seguire atti politici, fatti concreti. Senza che oggi, estate 2024, il pensiero della strage di allora, ci faccia volgere lo sguardo alle stragi che vengono praticate in nostro nome, sotto i nostri occhi.
Finisce che a Sant’Anna, com’è successo il 12 agosto di quest’anno, gli oratori chiamati a parlare dal palco, invece di creare un caso politico attorno agli eccidi di Gaza, come avverrebbe se i luoghi della memoria svolgessero un ruolo politico autentico, si dedichino a stanche e sterili polemiche, tutte volte al passato, stavolta contro il governo, reo di non aver inviato propri rappresentanti alla cerimonia per gli ottant’anni della strage.
Abbiamo lasciato Sant’Anna con il cuore gonfio di afflizione. Abbiamo partecipato a una cerimonia ufficiale più triste e surreale che mai, scandita dai ritmi di una ritualità militare sempre più sconcertante, con orazioni ufficiali povere di contenuti e prive di impegni, fino al culmine di dover ascoltare l’inno di guerra “La leggenda del Piave” poco prima dell’omaggio reso ai “caduti di Sant’Anna” (così li chiamava lo speaker) dall’Aeronautica militare con il passaggio a bassa quota di due caccia da guerra.
Abbiamo replicato come potevamo, cantando “Bella ciao” subito dopo il “Piave”, esibendo cartelli con su scritto “Chi produce e commercia armi offende Sant’Anna”, ma siamo costretti a domandarci se abbia ancora senso partecipare a queste cerimonie. Forse no, forse hanno senso per noi solo le nostre “aggiunte”: il rito di riflessione all’alba e l’incontro sulla costruzione di spazi di pace che organizziamo ogni anno nel pomeriggio davanti alla chiesetta di Sant’Anna (stavolta con don Massimo Biancalani, parroco di Vicofaro a Pistoia, e Raffaele Crocco, direttore dell’Atlante delle guerre e dei conflitti nel mondo, come ospiti).
Ci stiamo anche convincendo che la nostra ricerca, condotta attraverso lo strumento del Cammino, debba ormai rivolgersi altrove. Forse anche noi siamo caduti nella trappola del vittimismo: abbiamo praticato la memoria come ricordo delle stragi subite dalla popolazione italiana durante la Seconda guerra mondiale, ignorando o almeno trascurando quelle che l’esercito italiano ha compiuto negli stessi anni in Jugoslavia, Albania, Grecia, Montenegro, Etiopia; siamo caduti, involontariamente, nella logica del mito degli “italiani brava gente”. Forse è per questo difetto di memoria che come collettività non “vediamo” Gaza?
Mentre le guerre infuriano sempre più vicine e sempre più feroci, c’è una memoria da ricostruire e c’è un nesso tra passato e presente da rendere vivo e vero, non retorico e ipocrita com’è attualmente. La storia, la comprensione onesta del passato, il ricordo delle conquiste raggiunte e poi colpevolmente abbandonate possono aiutarci ad affrontare il presente, a contrastare la guerra globale che si prospetta, voluta (forse) dai sonnambuli che occupano i ruoli di potere decisivi, ma non dai popoli, oggi però distratti e impotenti.
Nel nostro piccolo, stiamo già pensando di camminare l’anno prossimo oltre il confine orientale, sulle tracce di sangue e di orrore lasciate nei Balcani ottant’anni fa dai “nostri” soldati. Forse da lì percepiremo -e faremo percepire- con più chiarezza le guerre di oggi e le responsabilità che abbiamo. Ma intanto occorre agire, perché non c’è più tempo. Occorre fermare al più presto lo strazio di Gaza, occorre urgentemente il cessate il fuoco tra Ucraina e Russia; occorre bloccare la dinamica che ci sta portando verso una Terza guerra mondiale. Dobbiamo trovare la via per far crescere dal basso un’onda così alta e così forte da scuotere i sonnambuli che stanno mettendo un’ipoteca di guerra sul futuro di tutti.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”
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