Economia
Il Biscione a caccia di frequenze radio – Ae 52
Numero 52, luglio/agosto 2004La legge Gasparri spalanca il mercato dei network radiofonici ai grandi gruppi, Fininvest in testa. In ballo la torta delle inserzioni pubblicitarie: un giro d'affari da mezzo miliardo di euroIn principio era la radio. Tra il 1978…
Numero 52, luglio/agosto 2004
La legge Gasparri spalanca il mercato dei network radiofonici ai grandi gruppi, Fininvest in testa. In ballo la torta delle inserzioni pubblicitarie: un giro d'affari da mezzo miliardo di euro
In principio era la radio. Tra il 1978 e il '79 i primi “esperimenti edilizi” di Silvio Berlusconi vengono allietati dalla musica di “RadioResidence” diffusa dai tetti del residence Edilnord di Brugherio, l'opera del Cavaliere che ha preceduto la costruzione di Milano 2. Dopo tre decenni, tre reti televisive e tre leggi particolarmente favorevoli (la Mammì del '90, la Maccanico del '97 e la Gasparri del 2004) oggi la galassia Fininvest sembra intenzionata a espandersi proprio nel settore radiofonico, grazie ai nuovi limiti, o meglio all'assenza di limiti prevista dal nuovo assetto del sistema radiotelevisivo.
C'è stato un tempo in cui chi possedeva una concessione per l'emittenza televisiva nazionale non poteva essere al tempo stesso titolare di un'analoga concessione per le trasmissioni radiofoniche, ma oggi le maglie dell'Antitrust sono più larghe, e non prevedono più divieti di proprietà incrociata tra radio e televisioni.
A partire dal 2011, inoltre, la “legge Gasparri” prevede l'abolizione di questi divieti anche per chi possiede televisioni nazionali e vuole acquisire partecipazioni in imprese editrici di giornali quotidiani.
L'inchiostro della firma di Ciampi sulla Gasparri non era ancora asciutto quando dal gruppo Fininvest sono partiti i primi segnali di interesse verso le radio. “Per noi è naturale guardare al mondo della radiofonia”, ha dichiarato Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, dalle pagine del Sole 24 Ore.
Ma quali potranno essere le prede adocchiate dal biscione? Per capirlo basta leggere le cronache dei giornali e confrontarle con l'elenco dei 12 big della radio, i gruppi che controllano le emittenti presenti in tutte le 103 province italiane. Escludendo le radio Rai, quelle “fuori mercato” come Radio Maria o Radio Radicale e quelle saldamente controllate da grandi gruppi editoriali come Rcs o L'Espresso, tutti gli indizi e i rumors degli addetti ai lavori puntano sul ghiotto network radiofonico del gruppo Finelco (il 26% del quale, tra l'altro, appartiene al fondo Convergenza di Aldo Livolsi, il banchiere che ha ricoperto in passato il ruolo di amministratore delegato Fininvest).
Il gruppo Finelco, controllato dai fratelli Edoardo e Alberto Hazan, comprende Radio 105 e Radio Montecarlo, alle quali potrebbe aggiungersi in futuro anche Radio 101 One-O-One, contesa tra Finelco e il gruppo Rcs dopo essere entrata in amministrazione controllata, a causa delle vicende giudiziarie che hanno coinvolto i fratelli Borra, antichi proprietari dell'emittente.
Le tre radio che fanno gola a Mondadori portano con sé una dote non indifferente: sei milioni e quattrocentomila ascoltatori, il terzo bacino di utenza radiofonica dopo quello della Rai (15,3 milioni) e del gruppo Espresso (7,4 milioni). Si tratta di cifre di tutto rispetto, soprattutto se valutate in termini di raccolta pubblicitaria: nel 2003 attorno alla radio si è mosso un business da 479 milioni di euro, che rappresentano il 4,3% del mercato pubblicitario nel suo complesso. La radio, che per tutti gli anni '90 è stata la Cenerentola dei media, snobbata dagli investimenti pubblicitari dei grandi inserzionisti, oggi ha ritrovato una seconda giovinezza, trasformandosi nel terreno di caccia all'audience sul quale le aziende iniziano a sgomitare per accaparrarsi spazi promozionali.!!pagebreak!!
A confermare questa tendenza ci sono i dati dell'Upa (Utenti pubblicità associati), l'organismo sostenuto dalle aziende che investono la maggior quantità di denaro nel marketing, e che si affidano all'Upa per capire come spendere al meglio i loro soldi. Il rapporto annuale “Il futuro della pubblicità”, presentato dall'Upa lo scorso 28 aprile, svela che la pubblicità via radio è quella che nel 2003 ha registrato il più alto tasso di crescita, quasi il 9%, contro una media del mercato pari a poco più dell'1%.
Nello stesso periodo la pubblicità sui quotidiani è regredita di un punto percentuale, e quella televisiva si è attestata su un aumento pari al 4,5%. Per gli anni che vanno dal 2004 al 2006 gli esperti dell'Upa prevedono un'ulteriore crescita della pubblicità radiofonica, meno eclatante del boom registrato nel 2003 ma comunque superiore alla media del mercato e agli altri mezzi di comunicazione.
Ma cosa c'è di male se una impresa editoriale acquisisce legalmente un pacchetto di radio nazionali? Per capire a cosa va incontro il panorama culturale radiofonico basta osservare la qualità sempre peggiore dei programmi televisivi, strettamente correlata alle esigenze di marketing delle aziende che si rivolgono a Sipra e Publitalia, le concessionarie che si spartiscono il 90% della raccolta pubblicitaria televisiva.
Secondo Sergio Valzania, direttore di Radio Due e Radio Tre: “Il futuro della radio è in mano ai grandi gruppi di raccolta pubblicitaria, che potranno proporre a chi vorrà trasmettere spot sulla radio delle offerte integrate con la televisione e la carta stampata. L'ingresso in questo mercato di una concessionaria come la Manzoni [la concessionaria del gruppo Espresso, ndr] ha già condizionato l'attività degli operatori del settore, costretti a modificare la loro impostazione editoriale, anche in modo radicale, per venire incontro alle esigenze della pubblicità. Ad esempio -prosegue Valzania- le radio orientate verso il pubblico giovanile, tra i 18 e i 20 anni, sotto la pressione dei pubblicitari hanno spostato il loro target sulla fascia d'età 25-44, e in questo modo molte emittenti nate come radio alternative sono diventate più generaliste perché spinte ad andare verso il target richiesto dai pubblicitari”.
Felice Lioy, direttore generale dell'Upa, la pensa diversamente, e non crede in un mercato pubblicitario capace di determinare anche i contenuti dei programmi: “Non è il caso di demonizzare gli investimenti pubblicitari nel settore radiofonico, perché tutti gli operatori del settore, anche i più piccoli, avranno dei benefici da questi investimenti. Le aziende che investono in pubblicità si guardano bene dal mettere il naso nelle redazioni per condizionare i palinsesti. Ciascuno deve fare il suo mestiere: le aziende devono ottenere dei profitti tramite la pubblicità e le radio devono fare informazione con coraggio così come già avviene all'interno di molte trasmissioni.
Un programma coraggioso è interessante anche per le aziende che lo utilizzano come veicolo dei loro messaggi pubblicitari verso un pubblico incuriosito e coinvolto”.
Ciononostante, il mercato sembra premiare le radio più ascoltate e non le più coraggiose, mettendo a rischio la “biodiversità culturale” esplosa negli anni '70 con il fenomeno delle radio libere, e che oggi si esprime anche attraverso il servizio pubblico radiofonico.!!pagebreak!!
“In Italia -ricorda Sergio Valzania- negli anni d'oro della radiofonia erano presenti sul territorio nazionale quattro mila radio, adesso ce ne sono circa 1.700. A partire dagli anni '90 si è innescato un processo di concentrazione delle emittenti, che influisce anche sui dati di ascolto e sulla conseguente vendita di spazi pubblicitari. Se la radio pubblica viene stretta in un angolo da spinte esterne del mercato, questo sarà un danno per tutto il Paese, un danno culturale che si ripercuoterà nella testa degli italiani. L'Unione Europea finora si è rifiutata di regolamentare il sistema radiotelevisivo, e questo dimostra che il conflitto di interessi non è un problema solo italiano: ogni Paese ha i suoi armadi pieni di scheletri. C'è il rischio che il servizio pubblico venga ucciso attraverso un degrado progressivo, senza che nessuno lo abbia deciso, e questa è la cosa peggiore che possa capitare”. Di fatto Radio Rai ha già subito una “eutanasia parziale” lo scorso 15 maggio, quando le frequenze AM di Radio Due e Radio Tre sono state oscurate con un “piano di razionalizzazione” che ha spento più di cinquanta impianti di trasmissione in onde medie nel nostro Paese, che coprivano i piccoli centri dove il segnale FM arriva a fatica.
Nella battaglia contro la trasformazione delle radio in grandi canali di raccolta pubblicitaria la Rai si ritrova sulla stessa “lunghezza d'onda” dei network radiofonici ad azionariato diffuso, più vicini alla dimensione culturale, sociale e politica che a quella commerciale.
“L'arrivo in questo settore dei grandi gruppi editoriali, con una forte capacità di raccolta pubblicitaria, aumenta i rischi di oligopolio -spiega Danilo de Biasio, caporedattore di Radio Popolare-. Se Publitalia [la concessionaria di pubblicità televisiva legata al gruppo Mediaset, ndr] entrerà con forza nel settore radiofonico, in modo diretto o indiretto, anche per le radio potrebbe svilupparsi uno scenario di concentrazione simile a quello che oggi caratterizza il panorama televisivo. Le televisioni locali non sono scomparse, ma sono di fatto marginalizzate, e una cosa del genere potrebbe accadere anche alle piccole emittenti radiofoniche”.
Quali possono essere le forme di “consumo critico” nel settore dei media che possono salvare le radio dall'inaridimento culturale? Un buon antidoto alla commercializzazione delle emittenti è il coinvolgimento diretto del pubblico, che garantisce alle emittenti una maggiore libertà editoriale. Il caso di Radio Popolare ha fatto scuola: attraverso una società per azioni, gli ascoltatori controllano il 35-40% dell'emittente, e il resto fa capo ad una cooperativa creata dagli stessi lavoratori della radio. “Questo meccanismo di azionariato diffuso -spiega Danilo de Biasio- ci dà la possibilità di effettuare anche scelte controcorrente, rifiutando la pubblicità di alcune aziende che non riteniamo sufficientemente etiche, oppure operazioni in perdita come la lunga diretta realizzata in occasione delle elezioni europee. Tutto questo è impossibile per un editore tradizionale, che ha come unico obiettivo quello di massimizzare i profitti per rendere conto al consiglio di amministrazione”.
Nata come spazio di libertà contro il monopolio di Stato nelle comunicazioni, oggi la radio è al tempo stesso un un servizio pubblico a disposizione dei cittadini, un campo di battaglia per la conquista dell'audience pubblicitaria, un'arena della finanza dove i grandi gruppi editoriali si contendono quote di mercato.
Per scoprire quale di queste dimensioni sarà prevalente sulle altre, bisogna attendere un futuro ancora tutto da scrivere.!!pagebreak!!
Nascono grazie alla Mammì le “emittenti comunitarie”
Le nuove radio libere: pochi spot e tanti servizi
Anche nel settore della radio Davide lotta contro Golia, e i giganti dei network commerciali si trovano a dover fare i conti con piccole radio che offrono nuove possibilità di ascolto a un pubblico più esigente e selettivo. Il fenomeno delle cosiddette “radio comunitarie” è caratterizzato da uno stretto legame con il territorio in cui operano e da uno stile editoriale improntato al servizio pubblico. In Italia è stata la legge Mammì, la 223 del 1990, a definire le caratteristiche delle radio comunitarie, che possono ottenere finanziamenti e benefici fiscali impegnandosi a realizzare programmi autoprodotti per almeno il 30% dell'orario di trasmissione giornaliero e limitando gli annunci pubblicitari ad un massimo di tre minuti all'ora. Queste radio sono federate all'interno del network Amarc (Association Mondiale des Radiodiffuseurs Communautaires), nato nel 1983 a Montreal, che ha una visione molto più ampia di quella sancita dalla Mammì, e definisce le radio comunitarie come radio “rurali, cooperative, partecipate, libere, alternative, popolari, educative”. Tra i partner internazionali di Amarc c'è Amisnet, l'emanazione online di Amis (Agenzia Multimediale di Informazione Sociale), una agenzia radiofonica di informazione che fornisce a molte radio italiane ed europee produzioni tematiche già pronte per la messa in onda. I programmi diffusi da Amisnet comprendono anche “Radio Carta”, un magazine radiofonico realizzato dalla redazione dell'omonimo settimanale. “La nostra idea è quella di realizzare un mezzo di comunicazione sociale che vada al di là della rivista -racconta Pierluigi Sullo, direttore di Carta- e per questo la nostra attività comprende anche la pubblicazione di libri, incontri dal vivo, l'informazione su Internet e attraverso le radio”.
Da questa idea è nato questo programma settimanale di 20 minuti, offerto alle radio come servizio gratuito, che attualmente viene trasmesso e rilanciato da una ventina di emittenti. “Ormai siamo già al secondo anno di programmazione -prosegue Sullo- e fino ad ora questo programma è stato una voce di passivo nel nostro bilancio, ma di recente stiamo riuscendo ad autofinanziarci grazie al sostegno di alcune etichette indipendenti che producono la musica utilizzata nel programma”. A Taranto l'emittente che diffonde i programmi di “Radio Carta” è Primavera Radio, del circuito Popolare Network. “La radio vissuta bene e fatta con passione è un grande respiro per chi ci lavora”, racconta Ornella Bellucci, che lavora nell'emittente tarantina. “La vita in un territorio come quello di Taranto può essere difficile per una piccola emittente, ma in questi anni siamo riusciti a creare un buon legame con la gente lavorando in mezzo alle strade, entrando nei centri di permanenza temporanea del Sud per intervistare gli immigrati o raccogliendo la voce degli operai davanti allo stabilimento Ilva. Oggi quando ci sono degli incidenti in fabbrica gli operai ci telefonano in radio ancora prima di avvisare i sindacati”. Ornella racconta le sue esperienze nell'informazione sociale con una grande luce negli occhi, che si spegne appena il discorso si sposta sulla carta stampata: “Oggi solo la radio può garantirmi la libertà di azione che cerco”.!!pagebreak!!
E il futuro non sa che farsene delle antenne
Sei mila emittenti sparse in tutto il mondo, che attirano ogni giorno un numero di ascoltatori pari al doppio di quelli delle radio italiane: è questa la dimensione del fenomeno delle web-radio, le radio nate su Internet che raggiungono ogni angolo del mondo senza elettrosmog, tralicci o antenne, viaggiando nei cavi della “rete delle reti”.
Le web radio hanno inaugurato anche un nuovo modello di business: l'unica pubblicità inserita durante le trasmissioni è quella del sito web collegato all'emittente, sul quale vengono venduti dischi e materiale promozionale.
Su Internet si sono sviluppati anche progetti “mirati” come quello di Radio Gap (Global Audio Project), che nei giorni del G8 genovese ha trasmesso la cronaca degli eventi in rete e sull'etere grazie allo sforzo congiunto di sette radio “di movimento”: Onda d'urto di Brescia, Black Out di Torino, le tre bolognesi, radio K Centrale, Città 103 e Fujiko, Onda rossa di Roma e radio Ciroma di Cosenza.
Peppino Ortoleva, storico dei mezzi di comunicazione
Regole per tuteare la “biodiversità”
A più di un secolo dall'invenzione della radio, la storia di questo medium ha ancora molto da insegnarci. Tra i maggiori esperti italiani del settore c'è Peppino Ortoleva, docente di Storia dei mezzi di comunicazione all'Università di Torino.
Professor Ortoleva, come inizia la stagione delle radio libere?
L'esplosione della cultura rock fa nascere l'esigenza di radio più mobili e movimentate, e la radio giovanile nasce come fenomeno musicale prima ancora di diventare un fenomeno politico legato alla contestazione. I primi segnali di cedimento dei monopoli statali arrivano a metà degli anni '60, con trasmissioni realizzate su grandi chiatte collocate al di fuori delle acque territoriali inglesi, le cosiddette radio “off-shore” che hanno portato in Europa le nuove tendenze musicali statunitensi. Nel resto d'Europa si verifica un fenomeno analogo con Radio Montecarlo e la radio nazionale del Lussemburgo. In particolare quest'ultima ha svolto un importante ruolo politico, trasmettendo la cronaca degli scontri del maggio francese. Dopo l'”invasione” di onde radio da Monaco e dal Lussemburgo, agli inizi degli anni '70 il monopolio radiofonico e televisivo viene messo in discussione anche dall'interno. In Italia nel 1974 la Corte Costituzionale emana una sentenza storica, riconoscendo la legittimità della Tv via cavo “Telebiella”, e questo precedente spinge molte persone a percorrere la strada delle trasmissioni radiofoniche via etere.
Tra queste radio c'è anche quella del nonviolento Danilo Dolci, che la utilizza come strumento di denuncia politica.
Come si è arrivati alla piena legittimazione delle radio libere?
Nel 1976 una seconda sentenza della Corte Costituzionale legittima l'emittenza radiofonica e televisiva in ambito locale, e questo porta all'esplosione di un vasto arcipelago di radio libere. Tra queste ci sono Radio Aut di Cinisi, creata da Peppino Impastato, Radio Città Futura di Roma, Radio Popolare di Milano, Radio Alice di Bologna, altre emittenti legate a gruppi religiosi cattolici o protestanti e radio dedicate a minoranze linguistiche che trasmettevano in Sardegna, in alcune zone del Piemonte o in Valle d'Aosta. Tutti questi gruppi trovano nella radio uno strumento di comunicazione straordinario. Dopo questo periodo iniziale di crescita rapidissima molte radio sono scomparse, altre si sono strutturate. Nel momento in cui inizia a nascere un mercato pubblicitario attorno al settore radiofonico inizia a porsi il problema di come trasformare queste radio in imprese. Molti sono riusciti a realizzare questo passaggio, altri non hanno avuto le capacità imprenditoriali necessarie.
Qual è lo scenario attuale del settore radiofonico?
Per molti anni la radio è stata considerata come una grande possibilità di investimento alternativo. Ciononostante nessuno ha mai puntato seriamente su questo settore. È stato il gruppo L'Espresso a rompere il ghiaccio, scegliendo con lungimiranza il terreno della radio per evitare uno scontro impari nel mercato televisivo. Ho la sensazione che anche Mondadori si appresti a un passo del genere, grazie alla legge Gasparri. Mediaset è un gigante con i piedi di argilla, e come tutte le grandi aziende non può vivere senza crescere. Prima della Gasparri le possibilità di sviluppo dell'azienda erano molto ridotte, e la funzione finale di questa legge è stata più economica che politica: l'obiettivo era quello di aprire nuovi spazi di mercato, e la radio è ovviamente il primo bersaglio, in quanto è il secondo medium più seguito dagli italiani.
L'espansione del mercato pubblicitario radiofonico innescherà una corsa al ribasso nella qualità dei programmi, come si è verificato in televisione?
Mi sembra pericoloso dare la radio per persa. Il rischio di oligopolio nel settore delle radio esiste, ma a questo rischio bisogna rispondere con normative che tutelino la “biodiversità culturale” delle emittenti comunitarie e regolino il mix di programmi da mandare. Purtroppo non possiamo aspettarci una politica di lungo periodo nel settore dei media, ma possiamo chiedere una regolamentazione che vincoli l'assegnazione di concessioni radiofoniche alla erogazione di programmi qualitativamente validi e servizi pubblici legati all'informazione. Oggi invece abbiamo un dilagare del modello radiofonico più redditizio, formato da tanta musica e qualche chiacchiera, e si pensa che il servizio pubblico debba rimanere l'unico spazio di cultura da regolamentare.