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I progetti solidali che danno nuova vita alla lana italiana

La lana prodotta in Italia non trova spazio nell’attuale mercato tessile nazionale perché poco pregiata: le sue fibre, spesse e grossolane, non sono adatte ai macchinari industriali

Solo una piccola parte delle 9mila tonnellate prodotte ogni anno finisce sul mercato, il resto diventa rifiuto speciale. Dalle Marche al Piemonte, allevatori e tessitori hanno creato inedite alleanze per valorizzare risorse e territori

Tratto da Altreconomia 241 — Ottobre 2021

Recuperano la lana dai pastori e la trasformano in gomitoli e vestiti per la vendita. In Italia sono numerosi i progetti avviati per tutelare il vello proveniente dalla tosa delle pecore, altrimenti destinato all’abbandono. L’utilizzo della lana appena tosata e sporca, infatti, è cambiato e la materia naturale non finisce più nei vestiti, sostituita dalle fibre sintetiche. È considerata un rifiuto speciale e, fatta eccezione per una parte che arriva sui mercati esteri, è destinata alla discarica. Nel peggiore dei casi, viene sotterrata e bruciata dagli allevatori che non sempre riescono a sostenere i costi dello smaltimento. Per valorizzare un materiale prezioso rendendolo un’opportunità, sono nate filiere in cui chi alleva lavora insieme a chi tesse.

“Negli anni abbiamo registrato un’attenzione crescente verso il tema, una fioritura. Ci si è chiesti da dove provengono i vestiti che indossiamo, come sono lavorati e che impatto hanno sull’ambiente”, spiega ad Altreconomia Annalisa De Luca, tra le fondatrici dell’associazione Le feltraie, una delle prime realtà in Italia ad avere recuperato la materia prima acquistandola dai pastori toscani. Dopo la sua chiusura De Luca ha continuato con l’autoproduzione, appassionandosi alla filatura e tessitura. “I progetti sono variegati e vanno dall’hobby a forme più sistematiche. Chi recuperava la lana ha iniziato a coinvolgere le sarte e si è arrivati a organizzare corsi e laboratori”. Il sito Le lanaiole li presenta uno dopo l’altro, dal Piemonte alle Marche. “Anche se il tema è di nicchia, si è creata una base di persone appassionate che partecipa in modo attivo. Per questo, con il Coordinamento tessitori ed Eva Basile –designer, esperta di tessitura a mano e direttrice artistica del festival Feltrosa, manifestazione annuale che unisce i feltrai italiani-, nel 2020 e nel 2021 abbiamo organizzato una scuola estiva”. Uno degli argomenti affrontati è stato come realizzare un tessuto o un oggetto di feltro partendo dalla fibra grezza attraverso la filatura e la tintura.

Secondo l’Istat in Italia ogni anno si producono circa 9mila tonnellate di lana sucida, proveniente dalla tosa non utilizzata di sette milioni di pecore, che non trova spazio nell’attuale mercato tessile nazionale. Se fosse utilizzata, come indicato in uno studio del Consiglio nazionale delle ricerche pubblicato nel 2016, si ricaverebbero oltre 5mila tonnellate di fibra e 15 milioni di metri quadrati di tessuto. La lana nostrana, sottolinea l’Istituto superiore per la protezione ambientale (Ispra) in una ricerca del 2018, non è di qualità elevata. Inoltre le sue fibre sono spesse e grossolane, inadatte ai macchinari usati nell’industria tessile.

 

Secondo la normativa europea la lana diventa un rifiuto speciale se non è immessa in una filiera produttiva in quanto sottoprodotto di origine animale. Per salvarla dalla discarica, a Montefortino (FM) nelle Marche, la filatrice Giulia Alberti e l’allevatrice Silvia Bonomi sono andate direttamente dai pastori e hanno creato una filiera che va dalla raccolta alla vendita del prodotto finito. Avviato nell’aprile 2021, il progetto “Sibillana” coinvolge 14 pastori oltre a chi si occupa di pulirla e farne matasse. “Ci rivolgiamo solo a chi ha piccoli numeri. I nostri pastori non possiedono più di 40 capi di bestiame”, spiega Alberti. Con loro si stipula un accordo iniziale: la lana è pagata fino a un massimo di cinque euro al chilogrammo, in base alla sua qualità, e il prezzo di vendita copre sempre le spese di tosatura. “Vogliamo portare avanti un lavoro di sensibilizzazione: spingere i pastori a porre attenzione alla qualità della lana che sarà poi pagata a un prezzo più alto”. In Abruzzo Valeria Gallese è stata una delle prime a farlo.

Nel 2015 ha ideato il progetto “AquiLana”. Raccoglie la lana dai pastori del Parco nazionale del Gran Sasso: la materia prima è poi spedita al Nord e filata nel Biella The Wool Company, consorzio avviato con lo scopo di creare una rete nazionale per la gestione della lana in Italia cui aderiscono 600 allevatori. Una volta lavata, la lana torna in Abruzzo dove è tinta usando materiali naturali, venduta ad aziende tessili e in una bottega a Santo Stefano di Sessanio. Quando AquiLana era nelle sue fasi iniziali, la lana tessuta era stata pari a 50 chilogrammi. Nel 2021 sono stati 6.500.

In provincia di Parma il recupero della lana è servito per rafforzare la comunità. “Lana di montagna alta Val Taro” riunisce raccoglitrici costituitesi come associazione: acquistano la lana dai pastori locali, poi pulita in uno stabilimento in Toscana che la rende un filato. Tornata in valle, tinta con erbe naturali e sottoprodotti dell’orto, è utilizzata per gomitoli e indumenti venduti nei mercatini. “Ci scambiamo suggerimenti e consigli. I nostri numeri sono piccoli ma le persone apprezzano la bellezza del progetto in sé -dice Elena Gabbi, pastora che fa parte del progetto-.Lavoriamo anche insieme all’associazione Io non ho paura del lupo, che si occupa di alimentare un dibattito sull’animale e su come affrontarlo tutelandolo. Abbiamo creato un progetto che rinsalda i legami”.

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