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I papi passano, la Chiesa resta e cammina
"Fermiamo gli attacchi a Papa Francesco" è il titolo dell’appello promosso da Don Paolo Farinella, dopo i ripetuti messaggi nei confronti del "Papa strano". "L’arrivo del Papa ‘venuto dalla fine del mondo’ […] provoca reazioni scomposte dentro la Curia vaticana che, falcidiata da scandali e corruzioni, considera il Papa come corpo ‘estraneo’ al suo sistema consolidato". Pubblichiamo un estratto dalla prefazione di Don Paolo al libro "La Chiesa di tutti", di Gigante e Kocci per Altreconomia edizioni
Fino al 28 febbraio 2013 (dimissioni ufficiali di papa Ratzinger) non era nemmeno immaginabile che saremo arrivati ad avere una “doppia” rappresentanza al vertice della Chiesa. Da una parte papa Francesco, sempre più solitario e isolato all’interno del Vaticano, dove è considerato “un bel tipetto” ed è guardato con sospetto e dall’altra nelle stesse stanze “un sistema”, mai morto e rassegnato che si nutre di bande e di corrotti che non possono né vogliono rinunciare a privilegi e ricchezze perché per loro la Chiesa è lo strumento personale per garantirsi il potere, anche contro il papa.
Chi scrive è stato ripreso, invitato a tacere, consigliato di rientrare nei ranghi per gli stessi contenuti che oggi papa Francesco afferma. Inutilmente però dall’elezione di Bergoglio ho atteso una telefonata o un segno da Angelo Bagnasco, presidente della Cei! Mi sarei aspettato che ammettesse la mia ortodossia e facesse le sue scuse per aver messo in dubbio la mia dirittura morale. Se ora ciò che io dicevo e scrivevo lo dice il papa in persona, non sarebbe lecito aspettarsi da un cardinale nella sua posizione, almeno le dimissioni come atto di decenza coerente e coscienza del suo fallimento non solo pastorale, ma anche politico e spirituale?
Un fatto è certo: indietro non si torna più. La Storia va avanti e non si attarda su ieri; i papi possono ritardarla – ma solo entro i confini della loro pertinenza – con il risultato che mentre gli uomini e le donne, “il popolo di Dio fedele”, vanno avanti, la gerarchia resta indietro. Recuperare il tempo perduto non sempre è facile, come dimostra la lotta ossessiva di papa Sarto, Pio X, contro il cosiddetto modernismo, termine offensivo per definire la volontà di chi voleva un approccio più vero e meno ideologico alle Scritture e alla Storia della Chiesa come allo studio della Teologia. Quello contro cui il papa scagliò i suoi anatemi, condannando e perseguitando, oggi è comunemente accettato e diffuso anche nelle università pontificie: è materia di banale ordinarietà.
Il Concilio Vaticano II, alla luce della storia successiva alla sua celebrazione (1962-1965), fu solo l’inizio, non il punto di arrivo di un processo di rinnovamento. Il ritardo, anzi la sospensione e il tentativo di farlo abortire, operati in modo subdolo e meschino da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, hanno trasformato l’evento più significativo della Chiesa cattolica degli ultimi quattro secoli in un’“opera incompiuta”, non più adeguata a rispondere alle esigenze di oggi perché è mutato il quadro antropologico internazionale, così come le condizioni storiche e, fatto ancora più grave, le prospettive economiche della maggioranza degli abitanti del pianeta.
È in questo contesto che la Chiesa deve prendere posizione e deve dire da che parte stare. Non basta più affermare il principio teorico della “Chiesa dei poveri”, è necessario dire anche “perché” la Chiesa deve essere povera e “perché” nonostante i progressi della scienza e della tecnica e uno sviluppo che ha coinvolto l’umanità intera, i poveri sono sempre più poveri, mentre i ricchi sono sempre più ricchi. Questo riposizionamento della Chiesa nel cuore del mondo, sulla logica del principio – questo sì, mai negoziabile – di essere “nel mondo, ma non del mondo” (cf Gv 12, 8; 17, passim) costringe a buttare all’aria – buona! – tutti gli orpelli e le suppellettili accumulate nei secoli e che sono serviti solo a nascondere il volto umano e materno della Chiesa, ad appesantire il suo passo e a smarrire il suo obiettivo primario che è l’ecclesialità della testimonianza.
Il tempo in cui viviamo ha molte analogie con quello in cui ha vissuto Gesù: passaggio da un millennio all’altro, decadenza dell’impero politico, crisi della religione, sommovimento di popolo e migrazioni consistenti. Gesù opera in un tempo in cui l’appartenenza religiosa esteriore era garanzia della propria identità. Il tempo di Gesù fu un tempo turbolento e di grandi trasformazioni, passaggio di due secoli e di due millenni, tempo di confusioni e di trapassi epocali, in cui la religiosità era vissuta in maniera materiale e magica. Era sufficiente andare al tempio, compiere i propri doveri prescritti, senza adesione del cuore, esattamente come nella Messa preconciliare, quando bastava “assistere alle funzioni dal momento dello svelamento del calice” e pagare il pegno della propria sudditanza passiva. Che tragedia! Si “andava a Messa per non commettere peccato”, perché bisognava adempiere il precetto materiale! Un atto d’amore trasformato in obbligo morale! Che importa se non si capiva nulla di latino e si storpiavano le parole, ciò che contava era il “sentimentalismo” della magia delle parole incomprensibili per avere la sensazione del “mistero divino”8. Imperava incontrastata la magia. Non era necessario “partecipare la liturgia” nel senso più profondo di “condividere” ciò che il Pane e il Vino significano: una trasfusione di vita, una relazione d’amore, un innamoramento travolgente insieme ad un impegno di alleanza e di missionarietà, una decisione che lega l’etica della scelta come coerente conseguenza di ciò che si “è ascoltato, visto, mangiato e toccato, cioè il Verbo della Vita” (1Gv 1,1).