Altre Economie
I frutti del mare
Cozze avariate che intossicano decine di persone nel Nord Italia portano fino a Trieste e all’inquinamento delle acque del suo golfo. Una situazione irrisolta
La perla dell’Adriatico non brilla più. Lo scorso settembre una partita di cozze avariate ha provocato duecentonovanta casi di intossicazione: partivano proprio da Trieste. Decine di ricoveri in tutto il Nord Italia in una catena di connessioni che parte dall’inquinamento delle acque del golfo triestino e arriva a Torino, dove è partita prima l’indagine sanitaria e poi quella della Procura. È qui infatti che il Pubblico ministero Raffaele Guariniello ha aperto un’inchiesta e ha scoperto che un provvedimento dell’Asl giuliana, del 16 settembre 2010, aveva decretato la sospensione della raccolta, della conservazione e del commercio dei molluschi per problemi di salubrità. L’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente giuliana aveva infati accertato, in alcuni esemplari, la presenza di una biotossina algale.
Dopo un mese di indagini, Guariniello scopre che i mitili “inquinati” provengono da una cooperativa di Duino (a Ovest del golfo) che avrebbe prelevato nonostante lo stop ordinato dall’Asl. Per riuscire a bypassare il divieto, secondo l’accusa, la cooperativa avrebbe modificato le date stampate sulle confezioni. Un’indagine parallela è ancora in corso per accertare la tossicità chimica (ben più grave) di tutti gli allevamenti di cozze locali. Rimane però la causa comune: l’inquinamento del golfo e l’eutrofizzazione, ovvero l’arricchimento delle acque di azoto e fosforo a causa dell’uomo. Ma questo è solo l’inizio della storia. Partendo dall’intossicazione delle cozze, abbiamo raccolto a Trieste documenti che provano il legame tra speculazione edilizia, discariche ed acque contaminate. Ecco come si compromette il mare e i suoi prodotti al Porto di San Rocco a Muggia, a Est della città, a pochi chilometri al confine sloveno.
È il 1997 quando un allevatore di mitili della zona prende carta e penna per esprimere la sua opposizione al progetto di un centro turistico nel Comune di Muggia che metterebbe a repentaglio la sua attività: duecento metri lineari di allevamento e un investimento da 400 milioni di lire. I dubbi sono condivisi dalle associazioni locali che denunciano l’enorme impatto ambientale dell’affare immobiliare: 650 posti barca, 450 appartamenti, hotel, ristorante, piscina, negozi e 700 posti auto con agevolazioni fiscali e finanziamenti della Ue per convertire l’ex cantiere navale in disuso, un sito pesantemente inquinato. Il progetto di conversione ottiene l’approvazione dalla Capitaneria di Porto e del ministero dei Trasporti che mette nero su bianco “il diniego al rinnovo della concessione in caso di inconciliabilità tra le due attività”. La concessione per le cozze viene comunque rinnovata ma è più importante l’intervento immobiliare che preservare uno degli ultimi tratti integri della costa triestina. Questa è infatti una zona a vincolo paesaggistico per la vegetazione spontanea e l’ecosistema marino.
I lavori partono e nel 2001 il “paese artificiale” viene aperto con il finanziamento di grandi nomi come Gilberto Benetton e Leonardo Del Vecchio, per un investimento complessivo che sfiora i 120 milioni di euro. Passano pochi mesi e dopo numerose segnalazioni si scopre che a soli tre chilometri, per riempire il terrapieno dove sorgerà uno stabilimento balneare, si è usato materiale di scavo, un rifiuto speciale che andrebbe smaltito nelle discariche autorizzate, proveniente proprio da Porto San Rocco. “Il nostro sospetto di un collegamento tra i due cantieri -spiega Roberto Giurastante dell’associazione Greenaction Transnational- si è rivelato fondato: i rifiuti sono stati scaricati in mare e nel riempimento di un chilometro di scogliera, almeno 120mila metri cubi di materiale”.
Ma è solo una stima della terra e rifiuti contaminati da idrocarburi, piombo e mercurio. “Queste sostanze – piega Claudio Mendicino, medico del lavoro dell’Asl- sono in grado di entrare in circolo attraverso le colture e la falda acquifera e sono estremamente tossiche perché colpiscono il sistema nervoso centrale e l’apparato urinario”. Grazie alle denunce degli ambientalisti arriva la magistratura che sequestra l’area. Le indagini si concentrano sui materiali presenti e sulle autorizzazioni concesse a Muggia. Il motivo è tutto economico: il costo della bonifica sarebbe stato così alto che avrebbe mandato a monte l’affare. Così è meglio interrare e sopra costruire case e una “collinetta” dove sistemare un parco giochi per bambini. Qui infatti un involucro di polietilene protegge ancora oggi 18mila metri cubi di strato superficiale (e contaminato) che grazie alla concessione edilizia è diventata area verde. Nonostante la richiesta di sequestro per “pericolo di diffusione dell’inquinamento” si arriva alla prescrizione del reato. L’associazione di Giurastante non si arrende e nel 2005 chiede l’intervento della Commissione europea per le discariche finanziate in parte con fondi comunitari. Solo l’anno successivo la Regione (che ha la responsabilità dei soldi Ue) inizia la revoca di una parte dei fondi già erogati: oltre 750mila euro su 7,8 milioni concessi per l’intero progetto di riqualificazione dell’ex cantiere navale. Ancora non è chiarito se tutti i contributi sono stati spesi legittimamente. E dopo 13 anni rimane il problema della bonifica integrale, stimata in circa 22 milioni di euro, il ripristino della scogliera coperta di materiale e il livellamento del terreno, a carico del Comune di Muggia. Soluzioni troppo onerose per la piccola amministrazione, che ora cerca una strada alternativa mantenendo la discarica. Perché la bonifica spetterebbe agli inquinatori ma il procedimento penale non è ancora concluso e gli imputati (membri del cda della società Porto San Rocco, i responsabili delle aziende che hanno effettuato i lavori e i trasporti) hanno presentato ricorso in Cassazione. Solo se ne verrà confermata la responsabilità, le spese di ripristino ambientale saranno tutte a loro carico. Intanto continuano le polemiche sulla discarica. Il Wwf denuncia che il terrapieno non è stato dotato di “un’adeguata protezione sul lato mare, con la conseguenza che le sostanze inquinanti si riversano in mare per effetto dell’erosione”. E a poche decine di metri ci sono ancora gli allevamenti di cozze. Come ha stabilito il perito nel processo “le sostanze che abbiamo trovato in quantità abnorme nei sedimenti saranno finite sicuramente nei mitili e nei piatti”.