Per millenni i campi sono state “casseforti” della biodiversità. Una catena virtuosa, spezzata dall’agricoltura industriale, che oggi i contadini provano a riannodare
Nel 1927, in Italia, si contavano 291 varietà di frumento, 98 delle quali erano intensamente coltivate. Nel 1971, 250 di queste erano già scomparse. Oggi in Sicilia la metà del grano coltivato è di una sola varietà.
Siamo di fronte a una perdita su larga scala di varietà genetica, la cui conseguenza è un aumento della vulnerabilità agricola al cambiamento climatico e alla comparsa di nuove malattie. Insomma, siamo più esposti a rischi di carestie. Questa situazione ha un responsabile: l’agricoltura industriale, la cui affermazione su scala globale si è fondata sull’illusione che la tecnica avrebbe risolto il problema della fame nel mondo. Ma gli affamati sono aumentati e adesso facciamo i conti con i danni di un modello intensivo, che ha lasciato il segno lungo tutta la filiera agroalimentare, ovvero dal seme al cibo. Un fallimento su tutta la linea che ha portato lo Special Rapporteur per il diritto al cibo delle Nazioni Unite, Oliver De Schutter, ad affermare -basandosi sui risultati di uno studio condotto su venti Paesi africani- che i 9 miliardi di persone che popoleranno il mondo nel 2050 potranno sfamarsi solo grazie alla produzione biologica su piccola scala. Una riconversione ecologica dell’agricoltura che deve avvenire a partire dalle nostre campagne, cominciando a ricreare quella biodiversità delle specie e varietà di piante che l’agricoltura convenzionale, affermatasi a partire dal secondo dopo guerra, ha fatto sparire.
Un esempio per tutti -che ci racconta Giuseppe Li Rosi, commissario straordinario della stazione consorziale sperimentale di granicoltura per la Sicilia- è quello del frumento: “Da un lato -spiega Li Rosi-, alla fine della Seconda guerra mondiale c’era la necessità di svuotare i magazzini pieni di nitrato di ammonio, una sostanza utilizzata per produrre esplosivi ma utilizzabile anche come fertilizzante chimico. Dall’altro, con il ricorso a questo fertilizzante il frumento, che in media raggiungeva un’altezza tra i 170 e i 200 centimetri, sarebbe cresciuto ancora di più, aumentando il problema dell’allettamento (la spiga a causa di pioggia e vento si “sdraia” e quindi va perduta, ndr)”. Venne deciso, allora, di modificare il seme, creando una varietà “nanizzata”.
Il processo attraverso il quale si “nanizzò” il grano è quello della mutagenesi indotta, andando cioè ad agire sul Dna del seme esponendolo al bombardamento di raggi gamma del cobalto radioattivo. “Studi recenti -prosegue Giuseppe Li Rosi- mostrano una correlazione tra questi tipi di grani ad alta resa e l’insorgere di intolleranze e allergie, fino addirittura alla celiachia”.
Giuseppe vive e lavora a Raddusa, in provincia di Catania. È un agricoltore da tre generazioni e da ormai otto anni recupera varietà di grani antichi, li conserva, riproduce, scambia e trasforma i loro prodotti per riportare la biodiversità non solo nei campi ma anche sulle tavole.
Partito con pochi semi recuperati presso la stazione consorziale sperimentale di granicoltura per la Sicilia di Caltagirone di granicoltura, una banca del seme dove ex-situ vengono conservate le varietà di grano, oggi è arrivato a seminare cento ettari con varietà di grani antichi. “All’inizio -spiega Giuseppe- seminavo i miei grani antichi di nascosto, come fosse marijuana, perché temevo mi bloccassero i contributi europei, che imponevano l’utilizzo di varietà registrate dell’industria sementiera”. Infatti, la legislazione sementiera nazionale e internazionale vieta lo scambio informale di semi tra contadini, ovvero quello realizzato da soggetti che -a differenze della aziende sementiere- non sono autorizzati.
L’affermarsi su larga scala dell’utilizzo di grani “ad alta resa”, in grado cioè di produrre di più per ettaro, hanno fatto crescere e diffondere un prodotto più povero di micronutrienti necessari all’alimentazione umana. Mangiamo di più, ma ci nutriamo di meno: per ottenere gli stessi nutrienti di una fetta di pane del 1940 oggi ne dovremmo mangiare cinque. In realtà questo sistema ha fatto solo scomparire varietà ma non aumentato la produzione. “Secondo i dati i dati dell’atlante geografico De Agostini del 1940 -spiega Giuseppe-, in Sicilia si produssero 9 milioni di quintali di frumento, cifra che nel 2009 era salita ad appena 9,5 milioni di quintali”.
Per migliaia di anni il ruolo di custodi della biodiversità è stato svolto proprio dai contadini. Con l’agricoltura moderna e l’affermazione dell’industria sementiera lo stesso contadino è stato privato di un elemento essenziale per la sua autonomia. Chi dipende dai semi, infatti, dipende anche da altri input produttivi come fertilizzanti e pesticidi, con il risultato di inquinare e impoverire i suoi terreni e non avere più il potere di decidere come utilizzare la propria terra, ovvero cosa e come coltivare. “Riconquistare i propri diritti come contadini -afferma Giuseppe Li Rosi-, significa non essere più costretti a condurre un’azienda agricola come se fosse un distaccamento all’aperto dell’industria o l’attività di trasformazione di combustibile fossile in cibo. Il contadino -prosegue Li Rosi- ha il diritto a ricostituire il suo rapporto con la natura. Un rapporto che gli permetteva di essere assolutamente indipendente nella sua produzione. Oggi questo non è più possibile, perché l’Università gli ha insegnato che per rendere fertile la sua terra deve comprare il concime chimico e acquistare il diserbante per controllare le malerbe e far sì che il frumento produca di più. Quando il terreno non risponde più, perché è stato plastificato da tre decenni di chimica -conclude Li Rosi- ecco che si induce il contadino a raddoppiare le concimazioni”.
L’esperienza di Giuseppe -che è la stessa di molti altri contadini sparsi per l’Europa e per il mondo, custodi della biodiversità sui campi- non si limita alla produzione di grano. Con i grani antichi, infatti, produce pane a lievitazione naturale senza lievito di birra, emendanti, ammorbidenti o conservanti. Inoltre, ha cominciato a far realizzare una pasta integrale che contiene molti più nutrienti della pasta fatta con le semole raffinate che oggi vengono utilizzate nell’attività pastificatoria.
“Ho voluto spingermi oltre -spiega Giuseppe-, e mi è venuto naturale trasformare i miei prodotti e consegnarli alle tavole dei consumatori. Prima di tutto in pane, ma poi anche in farina, dando così la possibilità ad altri panettieri o pastai di utilizzare le farine provenienti da grani autoctoni”. I terreni di Giuseppe Li Rosi ospitano anche un un campo di germoplasma curato dalla stazione consorziale sperimentale dove sono custoditi i grani antichi siciliani. “Quest’anno -spiega Giuseppe- i semi sono stati tutti quanti tolti dai frigoriferi e rinnovati, in modo da favorire un tipo di conservazione dinamica, ovvero sul campo, dove il seme è più grado di adattarsi ai mutamenti climatici”.
In Sicilia, negli anni Venti del secolo scorso esisteva una varietà di grano quasi per ogni campo coltivato. Tante di queste sono andate perdute definitivamente, ma altre, grazie al lavoro di Giuseppe e di altri contadini, si sono salvate e recuperate. Attualmente la stazione consorziale ne conserva 45 in 250 “accessioni”. “Un grano che mi ha subito colpito e affascinato -racconta Giuseppe- si chiama timilia, anche se a seconda della zona della Sicilia cambia il nome. Si tratta di un grano che può essere seminato anche a febbraio inoltrato, perché in tre mesi ti dà il prodotto. Veniva utilizzato, infatti, solo in caso di emergenza, quando un’annata piovosa non permetteva al contadino di effettuare la semina nel tempo giusto. Era una sorta di assicurazione, l’ultima possibilità per non perdere la produzione. Ma i tipi di grano sono tantissimi -prosegue Li Rosi-: la maiorca, la cuccitta, la biancuzza, la sanmartinara e così via, per altri 45/50 nomi che ti riportano nel passato e che noi abbiamo fatto rivivere”.
agricoltura industriale è sinonimo di modernizzazione e meccanizzazione. E perdita di varietà nei campi
UNA SELEZIONE INNATURALE
La perdita di varietà coltivate è la conseguenza della “modernizzazione” dei processi produttivi agricoli. Con l’affermarsi di questo modello, per la prima volta da quando l’uomo aveva cominciato a coltivare l’attività agricola si è separata da quella sementiera. La selezione dei semi più adatti alla coltivazione è cominciata ad avvenire non più sulla base di una tradizione millenaria di adattamento ed evoluzione, portata avanti dai contadini sulla loro terra, ma a partire da criteri scientifici di maggiore resa, attraverso la creazione di ibridi e -successivamente- dei semi geneticamente modificati. Prodotti creati per risultare adatti alle specificità del modello agricolo industriale, ovvero resistenti alla meccanizzazione dei raccolti, allo stoccaggio e al trasporto su lunghe distanze. La divisione tra produttori e selezionatori dei semi ha determinato la formazione di un settore industriale sementiero le cui dieci principali compagnie nel 2006 controllavano il 57% del mercato mondiale con fatturati da capogiro. Le prime due imprese della classifica, Monsanto e DuPont, nel 2007 avevano rispettivamente effettuato vendite per 4.964 e 3.300 miliardi di dollari, controllando il 23 ed il 15% del mercato internazionale dei semi. Con il processo di concentrazione lungo le filiere agricole (fornitori di semi e altri input produttivi, trasformatori e distributori) si è incoraggiata la formazione di economie di scala nella produzione di poche importanti varietà. Il modo più rapido per favorire questa uniformazione era fornire ai contadini tutto il necessario per produrre, semi ed altri input, e avere un mercato che domandava esclusivamente quel tipo di produzione.
Con la tecnica dell’ibridazione, ovvero l’incrocio di diverse varietà, i produttori di semi sono riusciti ad ottenere un prodotto con determinate e fissate caratteristiche, non riproducibili se non riutilizzando l’ibrido originario. In parallelo all’affermazione di questo modello agricolo industriale, grazie alle legislazioni nazionali e internazionali sui semi si è consolidato (e protetto) un sistema di scambio di semi basato sul mercato e condotto dall’industria specializzata e non più dai contadini.
A partire dagli anni 50, vari strumenti legislativi si sono affermati per impedire la pratica informale di conservazione, scambio e vendita dei semi da parte dei contadini. Il sistema Upov (International union for the protection of new varieties of plant), a cui aderirono alla fine degli anni 50 diversi Paesi europei, rappresentava un modello più “leggero” del brevetto attuale, che garantiva al possessore della varietà un monopolio nella sua commercializzazione, ma un controllo limitato rispetto ad altri usi. Questo modello ha conosciuto una svolta restrittiva con la riforma del 1991, che limitava la libertà di conservazione e riutilizzo dei semi da parte dei contadini. In quegli stessi anni, si negoziava il nuovo accordo multilaterale sulla protezione della proprietà intellettuale, il Trips (Trade-related aspects of intellectual property rights) dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). Con il sistema dei brevetti i contadini hanno perso definitivamente la proprietà sui semi, avendo il diritto di utilizzo solo per un’annata agraria.
In questo modo il seme ha perso definitivamente la sua natura duale, ovvero quella di essere al tempo stesso strumento riproduttivo e prodotto, per passare ad essere prodotto per l’agricoltore e strumento di produzione nelle mani dell’industria sementiera. Le alternative esistono, nella proposta e nella pratica.
I sistemi sementieri informali continuano a vivere e al loro interno gli agricoltori, come in origine, non sono semplici consumatori di semi. Questo sistema si basa sull’autoproduzione, sullo scambio e sull’acquisto, che va da un misero 5% della Svizzera a un 50% della Germania, e fanno principalmente riferimento alle varietà definite come locali o tradizionali. Queste percentuali sono ancora più elevate per le realtà del Sud del mondo come in Africa, dove raggiunge il 90%. Insomma i sistemi di registrazione per la vendita, di certificazione delle varietà e dei criteri di distinzione, uniformità e stabilità non rappresentano un modello esclusivo per i piccoli contadini. È di fondamentale importanza che la biodiversità torni ad essere coltivata nei campi e non solo conservata nella banche dei semi e che i contadini continuino a svolgere la funzione chiave di “selezionatori delle migliori varietà” partendo dalle specificità locali e non dai bisogni dell’industria alimentare.
La stessa sopravvivenza degli agricoltori passa dalla scelta di sganciarsi dal modello industriale, ritornando a produrre per il territorio e recuperando le specificità agricole e alimentari del proprio lavoro.
Per fare ciò è però necessaria una popolazione di consumatori consapevoli dell’importanza del recupero di una biodiversità che non è solo ambientale, ma anche alimentare.
È un recupero di sapori che non immaginiamo nemmeno esistano più.
la tutela è solo un principio
Parallelamente alla “guerra dei semi”, che le imprese sementiere hanno scatenato per ottenere il controllo esclusivo delle risorse biologiche, a livello multilaterale sono state intraprese una serie di iniziative per arginare la perdita di biodiversità. Con la nascita delle moderne banche dei semi, ovvero istituti che conservano le varietà, si è posta una questione politica: “A chi appartengono questi semi e come si garantisce un loro libero scambio?”. Queste domande provenivano soprattutto dai Paesi del Sud che, a differenza di quelli del Nord, considerano anche le sementi migliorate e protette come patrimonio dell’umanità. Con la Convenzione della diversità biologica nel 1992, e successivamente con il Trattato internazionale sulle risorse genetiche per l’alimentazione e l’agricoltura (Tirgaa) del 2001, sono state gettate le basi per governance multilaterali per la tutela della biodiversità mondiale. In particolare, il Tirgaa ha una natura vincolante per i firmatari e due obbiettivi principali, ovvero la conservazione e l’uso sostenibile delle risorse genetiche e la giusta ed equa ripartizione dei benefici derivanti dal loro uso.
Questo Trattato parte dal riconoscimento che l’innovazione varietale è stata e continua ad essere frutto di un lavoro collettivo e incrementale, in cui è difficile individuare un solo soggetto come responsabile. Per questo motivo, per la prima volta, un Trattato internazionale in materia di tutela della biodiversità riconosce il ruolo degli agricoltori nella conservazione e miglioramento delle risorse genetiche. Inoltre, all’articolo 9 vengono sanciti i diritti degli agricoltori, la cui applicazione viene però demandata e vincolata alle politiche nazionali.
Si tratta di un vizio di fondo del Trattato, che -pur riconoscendo il ruolo e i diritti degli agricoltori-, non li fissa in un quadro normativo internazionale vincolante. L’applicazione dei principi del Tirgaa è demandata a livello nazionale, dove però vengono poste in essere legislazioni che vanno nella direzione contraria, come quelle per la tutela dei diritti di proprietà intellettuale o del sistema di commercializzazione e scambio dei semi.