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Interni

I costi sociali della corruzione

Gherardo Colombo, Marco Arnone e Umberto Ambrosoli si confrontano in redazione su criminalità e corruzione, responsabilità, cultura e regole

Tratto da Altreconomia 125 — Marzo 2011

Qui l’audio integrale della tavola rotonda

Il 31 gennaio 2011 sono venuti a trovarci in redazione Gherardo Colombo, Marco Arnone e Umberto Ambrosoli. Tre personalità di rilievo per un evento straordinario, una tavola rotonda che abbiamo trasmesso in diretta “streaming” sul nostro sito, attraverso il quale ci hanno seguito per un’ora e mezza oltre 200 persone. Con loro, Pierpaolo Romani, il coordinatore nazionale di Avviso Pubblico, l’associazione degli enti locali contro le mafie (www.avvisopubblico.it) che con noi ha lanciato l’iniziativa. Abbiamo chiesto loro: perché in Italia sono così diffuse illegalità e corruzione? Soprattutto, quanti cittadini sono coscienti che la criminalità ha un costo, e che questo ricade sulla collettività? Ecco allora alcuni dati. Il valore dell’economia illegale si stima attorno ai 420 miliardi di euro l’anno. Il 40% viene prodotto dal sistema mafioso: 170 miliardi di euro l’anno, che è un dato che ritroviamo anche nella relazione 2009 della Direzione distrettuale antimafia. Si tratta della somma dei Pil di Estonia, Romania, Slovenia e Croazia. La corruzione “vale” 60 miliardi di euro l’anno, e poi c’è l’evasione fiscale: nel 2009 sono stati sottratti all’imponibile 50 miliardi di euro di redditi, il 46% in più rispetto al 2009. Abbiamo anche chiesto ai nostri interlocutori qual è il ruolo dei professionisti e, infine, perché gli italiani soffrono così tanto le regole.

Marco Arnone. Mi sono occupato a lungo di corruzione in ambito microeconomico e macroeconomico, e poi anche in ambito sociale e istituzionale. E posso dire che quelli che riguardano questi settori sono i costi meno conosciuti. Parliamo di sviluppo umano, spesa sanitaria, del ruolo delle donne, della giustizia, di immigrazione.
Parto proprio da qui, dal legame tra sicurezza e corruzione. E quindi vorrei parlare di immigrazione. Oggi il discorso sull’immigrazione è ridotto alla sola sicurezza, ma è uno sguardo lontanissimo dalla realtà. Vorrei ricordare che i fondatori delle aziende più famose della Silicon Valley, in California, sono spesso degli immigrati. Per rinnovare il loro permesso di soggiorno hanno aperto delle aziende che oggi hanno dei fatturati che superano i prodotti interni di molti Stati. La California è la terza o quarta regione più ricca del mondo. Dall’incontro e dallo scambio fra cittadini di diverse nazioni si è generata quindi ricchezza per sé e per gli altri. Ecco: chi emigra cerca una vita migliore. E i dati ci dicono che va nei posti dove c’è minore corruzione. Nei Paesi scandinavi, in Australia, in Canada. Ecco allora il legame: quanto perde un Paese con dinamiche fortemente corruttive? Quanto, poiché non è attraente verso i migranti, anche non provenienti da Paesi poveri? Spesso dimentichiamo che il livello medio di istruzione dell’immigrato che giunge in Italia è più alto di quello della media degli italiani stessi. Sono più poveri, non più stupidi.
Allora ecco un altro spunto. La mafia non è un fenomeno localizzato in poche regioni italiane. A Milano la ‘ndrangheta si è potuta innestare meglio perché le è stato facile penetrare tessuti corrotti. La nostra attenzione oggi è puntata sull’Expo del 2015, sul quale esistono già delle indagini in corso. Il meccanismo cui rischiamo di assistere è lo stesso che anche oggi ci fa pagare per un Ponte, quello sullo Stretto di Messina, che probabilmente non vedremo mai.

Umberto Ambrosoli. Se i dati dell’economia criminale vera e propria, o anche solo del sommerso o all’elusione fiscale, sono quelli che abbiamo detto, allora è evidente che è impossibile non passare dai professionisti se si vuole ripulire quel denaro, farlo rientrare nell’economia “spendibile”, far sì che quel denaro possa essere utilizzato palesemente.
Però dobbiamo ribadire che i professionisti hanno la possibilità di fungere da presidio contro il sistema criminale: possono esserne al servizio come anche costituire uno sbarramento.
Allora, dobbiamo lavorare affinché gli organismi delle professioni si adoperino perché la professione divenga il presidio contro il riciclaggio o le varie declinazioni dell’economia illegale. C’è ancora molto da fare, e questo è un bene, perché altrimenti vorrebbe dire che più di così non si può fare, e questo sarebbe insufficiente.
Guardiamo però anche alle difficoltà con cui le professioni affrontano il tema: i tentativi di riforma si arenano in relazione al potere sanzionatorio. Molti ordini non vogliono perdere il potere di sanzione dei proprio aderenti, poiché è il momento in cui si sviluppa la loro possibilità di conquistare posizioni di potere.
Ci sono ovviamente esempi positivi, che si muovono anche prima dell’autorità giudiziaria. Riescono senza ricorrere a nessun genere di sotterfugio o senza inventare niente a portare a compimento la loro funzione. Vuol dire che si può fare e che bisogna studiare quelle esperienze.
Se un ordine non si fa percepire dalla società come punto di riferimento di contrasto, nella prospettiva di responsabilità propria dei professionisti, allora anche a livello degli utenti non ci sarà pretesa di quel tipo di approccio. Questo ci porta su un altro aspetto. Al professionista le persone si rivolgono per trovare la via più facile per la risoluzione del loro problema, a prescindere dal fatto che questo sia compatibile o meno col nostro ordinamento. Il professionista dovrebbe tener conto dell’esigenza del cliente ma anche di quella dell’ordinamento! Il professionista deve prendere in considerazione la possibilità di mettere in armonia l’esigenza che gli è stata rivolta da un individuo con l’esigenza di tutti gli altri.
E solo attraverso la tutela dei diritti di tutti affermare il diritto specifico della persona che si è rivolta a lui. È percepito così il professionista all’esterno? No. È ricercato così dall’esterno? No.

Gherardo Colombo. Più ci penso e più sono convinto che questa cultura arrivi da immaturità, dalla incapacità di discernere e distinguere quello che ci interessa veramente da quello che rappresenta una comodità del momento. Proprio sul tema delle tasse, quando parlo nelle scuole, se mi capita svolgo con i ragazzi un dialogo per far risaltare la relazione tra il pagamento delle imposte e la possibilità di esercitare i propri diritti, di perseguire i propri interessi. Chiedo: con che soldi si paga la luce a scuola? Mi rispondono: con quelli delle tasse. Chiedo ancora: va bene che chi non paga le tasse possa usare la luce che pagano gli altri? Mi rispondono di no. Ripropongo la stessa domanda per l’uso dell’illuminazione stradale, dei marciapiede, delle strade; per la possibilità di farsi curare in ospedale, di chiamare la polizia, di andare a scuola e via dicendo. La conclusione, che tutti condividono, è che chi non paga le tasse, se volesse non appropriarsi di qualcosa che non ha contribuito a fare, dovrebbe evitare di valersi di tutto ciò che è stato pagato, costruito o ottenuto grazie alle tasse altrui.
Frequentemente -non si può generalizzare- i cittadini italiani non vedono il loro interesse ad avere tutti questi servizi. Quindi, appena possono, non pagano le tasse.
È difficile anche che vedano quanto costa la corruzione, fintanto che pensano che sia una cosa che non li riguarda (se non quando se ne approfittano: come quando qualcuno paga una bustarella per  chiudere un balcone e trasformarlo in veranda). In effetti la corruzione crea, a tutti, danni enormi. Anche dal punto di vista economico e patrimoniale. Per farlo capire si potrebbe, ad esempio, sottolineare il fatto che le tangenti sono pagate solo apparentemente dalle imprese, ma sostanzialmente da coloro che pagano le tasse.
Le imprese anticipano la tangente, ma poi si rivalgono sul contribuente, generalmente attraverso tre sistemi: variazione in corso d’opera, revisione prezzi, fornitura di una prestazione inferiore a quella pattuita.
L’immaturità gioca moltissimo sul modo di pensare e, a mio parere, interagisce con una marcata e consolidata mancanza di rispetto nei confronti degli altri ed anche di sé stessi. Mi sembra che in questo Paese tante persone (non voglio generalizzare, ci sono tantissime persone che non la pensano in questo modo) mercificano anche sé stesse, e mercificarsi vuol dire non avere rispetto per sé.
Si trasformano in un bene, come quando esisteva la schiavitù, ma volontariamente e non per imposizione. Rinunciano a qualsiasi dignità e rispetto di sé stessi, anche quando non sono obbligati da altri a farlo.

Marco Arnone. Se c’è qualcuno che ha percezione di un’operazione sospetta queste sono le istituzioni finanziarie. Non qualcun altro. L’approccio usato con le ultime riforme sul tema, nelle quali si abbandonano i parametri fissi, e si va verso il concetto di valutazione fatta sulla base dei rischi da parte dei soggetti finanziari, lascia troppo spazio di interpretazione a quei soggetti che hanno poco interesse a segnalare operazioni effettivamente sospette. Che interessi ha una banca il cui cliente ha forti depositi presso la stessa, a far vedere chiaramente che quel cliente ha fatto operazioni sospette? Il direttore di filiale ci rimette la carriera. È recente la storia di un’impresa siciliana con 1.500 dipendenti. Il titolare otteneva fondi neri, da riciclare o investire emettendo 1.500 assegni intestati ai proprio dipendenti, che venivano portati in blocco in una filiale, da una sola persona, e cambianti in contanti.
Non è mai arrivata una segnalazione di attività sospetta dalla banca.
Qui c’è un insieme di passaggi che fanno capire che i controlli interni sono inutili, anzi, c’è connivenza.
Sono profondamente dubbioso sull’affidare al sistema finanziario il controllo sulla correttezza formale e sostanziale sulle operazioni finanziarie. Sarebbe affidare il meccanismo a qualcuno che non ha interesse a che il controllo sia efficiente.
La stessa crescita esponenziale di segnalazioni sospette mi porta a credere che ci sia un sovraccarico di informazione che non rivela la realtà, come quando si blocca un sistema informatico bombardandolo di input. Non è possibile che ci siano numeri sul riciclaggio e sull’economia sommersa così giganteschi, senza che il sistema finanziario, da cui necessariamente passano, non sia in grado di capirne il contenuto. È impossibile.
Quando parliamo di corruzione e di riciclaggio parliamo di insiemi parzialmente sovrapposti. L’aggregato è incredibile, e poi questi soldi vengono rimessi nell’economia “pulita”. Che ne emerge? Rimane davvero pulita, questa economia? Qual è l’area di operatività di chi usa i capitali riciclati? L’azienda che evade le tasse e che ha fondi neri fa enormi danni, tra i quali rendere impossibile il competere alle aziende oneste.

Umberto Ambrosoli. Il meccanismo che produce il risultato illegale è un meccanismo che coinvolge tantissimi soggetti, e sfere di responsabilità diverse. Ma basta che una di queste sfere si metta a operare in termini diversi rispetto all’aspettativa verso l’illegalità per mandare in tilt tutto. Basta pochissimo!
Vediamo le banche: certamente hanno un campione enorme di flussi finanziari sospetti. E certamente sono dei soggetti che si trovano in grandissimo conflitto di interessi tra il dichiarare il loro sospetto e non farlo (nessuna certezza di illegalità: devono dire che una certa operazione non mi lascia tranquillo e delegare a un’altra autorità). Ma se la banca capisce che da responsabile verso il cliente diventa per volontà normativa responsabile del cliente, cioè complice di quelle operazioni, il passo avanti è enorme. Solo che il nostro ordinamento è bislacco, per cui un giorno ti dice una cosa, il giorno dopo in una norma che parla di tutt’altro sembra darti un input del tutto diverso. Un esempio: è ben difficile combinare la normativa dell’antiriciclaggio con la sostanza -prima ancora che la struttura- di centomila scudi fiscali che vengono fatti. Perché lo scudo ti dice: porta a termini una operazione di riciclaggio. Sono stati portati fuori dei capitali, be’ l’importante è che rientrino.
La priorità di ciascuno di noi è la priorità che lo Stato sta dando di sé: l’importante è fare cassa! Non importa da dove arrivano i soldi.
Allora le norme non bastano, le norme non vanno bene. Ma non perché sono complesse, ma perché da sole offrono una serie di input che confliggono. Anche le norme buone (come la nostra normativa antiriciclaggio). Ma se ai soggetti che sono coinvolti nella fase applicativa della norma, viene in mente di guardare un po’ più in là del semplice input normativo, allora li si manda in tilt. Eppure spesso le norme aiutano a capire i confini e il contenuto delle responsabilità. Torniamo ai professionisti. La normativa sull’antiriciclaggio, nell’imporre una condotta altrimenti sanzionata, rende più difficile per il professionista capire se è al servizio esclusivo del suo cliente o se è al servizio di una dimensione più ampia qual è lo Stato, l’ordinamento. L’alibi di dire “io sono responsabile verso il mio cliente” viene un po’ meno. Eppure  -lo vedo nella mia sfera professionale, dove è pieno di persone per bene, ma ce ne sono anche altre…- l’impulso a non guardare con cautela il limite tra la persecuzione dell’interesse del proprio assistito e la persecuzione di un interesse antitetico rispetto a quello dell’ordinamento nel quale quello dell’assistito va collocato, talvolta non viene neanche percepito!
Presi e concentrati sulla dimensione direttamente portata alla nostra attenzione, si rischia di non collocare quell’interesse in una sfera più ampia. Allora ben vengano norme di quel genere. Ben vengano perché ti tolgono dall’imbarazzo, ti impongono una riflessione che nel momento del dubbio può aiutarti a risolverlo.

Gherardo Colombo. Si è accennato all’impunità, vorrei riprendere questo argomento. Sono convinto che prima venga la cultura, poi le regole. Quando queste confliggono con la cultura, le regole perdono.
Il problema è che la cultura di tanti è fatta dal pensare ai fatti propri, cercare di sopraffare, di mettersi su un gradino più alto degli altri, usando talora qualsiasi mezzo, indipendentemente dal fatto che si tratti di un mezzo legale o illegale. Magari senza arrivare a limiti estremi, la cultura di oggi dice che tutto è consentito, anche se le leggi dicono il contrario. Se la cultura sta prima delle regole, la soluzione del problema della corruzione passa attraverso il cambiamento della cultura. Primo, perché sarebbe impossibile cambiare le regole per contrastare più efficacemente la corruzione, secondo perché anche quando le regole venissero cambiate, non sarebbero osservate. Perché? Perché la convinzione va da un’altra parte. Se la cultura sta prima delle regole, anche la punità (invento ora un neologismo che sia il contrario di impunità) non serve poi molto perché prevale la cultura, e le regole che prevedono il sanzionamento dell’inosservanza delle regole restano spesso inapplicate, perché le persone che dovrebbero farle applicare si dimenticano, non si accorgono, guardano da un’altra parte…
Io in effetti credo che attraverso le sanzioni non si produca capacità di discernere, ma si produca paura, e la paura fa crescere le persone.
Se però la cultura sta prima di tutto, andare nelle scuole serve moltissimo, purché non ci si aspetti che cambi tutto dall’oggi al domani: il cambiamento del modo di pensare è un processo lento, che richiede tanto impegno. È necessario che venga stimolata la riflessione. Sono molto contento di andare nelle scuole e sono contento che vi vadano Marco e Umberto.
La specie di illogicità che viviamo oggi dipende dal fatto che il denaro è così importante? Forse non si tratta sempre di illogicità, ma anche di una logica diversa, dipendente dall’incapacità di distinguere i propri interessi effettivi dalla comodità del momento. Infatti, quanto a perseguire le comodità del momento si è anche logici e consequenziali, peccato che ci si sbagli nella scelta dell’obiettivo.
Oggi forse non si fa più politica, nel senso proprio, quello di interessarsi della polis. Oggi sembra che tante persone tendano soprattutto a schierarsi, magari soltanto sulla base di sensazioni emotive. Siccome chi fa politica è scelto spesso da chi si schiera in questo modo, anche chi fa politica risponde dello stesso modo di pensare. Ma schierarsi non comporta il pensare, anzi, a volte lo esclude. Se non si pensa la cultura non può cambiare.
È lì il nodo. Parte tutto da lì, diventa quasi -ma sottolineo questo quasi- inutile parlare di regole, quando la cultura, il modo di pensare, l’atteggiamento, vanno da un’altra parte.

 

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