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Hotspot in Africa: il nuovo colonialismo rafforza le dittature

Gli accordi bilaterali con i Paesi africani promossi dall’Europa rischiano di consolidare regimi non democratici e azioni di “polizia interna”. Ma trasformare una parte dell’Africa in un carcere a cielo aperto, peraltro troppo esteso per poter essere controllato, è una pessima idea. L’analisi di Alessandro Volpi

C’è un’insidiosa fiducia nelle capacità di intervento dei vari Stati africani dietro le nuove ricette italiane per affrontare il problema migratorio. Si parla sempre più spesso infatti di “accordi bilaterali” con i vari governi interessati dalle rotte dei migranti; si chiede loro collaborazione per regolare i flussi, per organizzare centri di accoglienza e di identificazione, per combattere gli scafisti e i trafficanti di esseri umani. Si chiede loro anche di fare tutto questo rispettando le libertà civili e il diritto internazionale. E si chiede persino a tali Stati di adoperarsi per il proprio sviluppo economico in maniera da rendere meno necessario per le loro popolazioni emigrare.

Certo, in cambio di un simile sforzo, a questi Stati si promettono risorse economiche, per quanto non ancora definite, e un non troppo chiaro supporto militare. Ma quali sono le condizioni reali di tali Stati? Sono in grado di assolvere a simili gravosi compiti? Ad una analisi anche solo superficiale parrebbe proprio di no.

La Libia, snodo cruciale per l’arrivo dei migranti in Italia, è un Paese lacerato, diviso in due, in tre, privo di un governo realmente in grado di esercitare le proprie funzioni e costantemente sotto attacco dalle infiltrazioni islamiste; un Paese, dunque, che non può fornire alcuna garanzia e che prova, semmai, ad esercitare una qualche forma di ricatto sul versante degli approvvigionamenti energetici, decisamente importanti per l’economia italiana. Parlare di hotspot e di centri di identificazione in un panorama siffatto significa davvero poco.

Considerazioni analoghe sono possibili sia per i Paesi africani di transito sia per quelli di provenienza dei migranti. L’Eritrea del presidente Afewerki è una dittatura militare in preda da decenni ad una drammatica crisi economica ed ambientale che genera decine di migliaia di profughi. La Nigeria, pur dotata di ampie risorse energetiche, vive da tempo una forte frammentazione politica che ha trasformato la sua natura di Repubblica federale in un territorio angustiato da aspri conflitti religiosi ed etnici. Il Mali continua a scontare i pesanti effetti di una tragica guerra civile terminata solo pochi anni fa e ha bisogno dell’attenzione delle Nazioni Unite per conservare una accettabile stabilità, che si scontra con uno stato dell’economia estremamente difficile. Anche la Guinea e la Costa d’Avorio sono state sconvolte da lunghe guerre civili che hanno avuto un epilogo recente e dipendono ora dalla capacità dei loro presidenti, Alpha Condé in Guinea e Alassane Ouattara in Costa d’Avorio, di mantenere un difficile consenso. Ancora più complesse sono le condizioni del Niger, con un Pil complessivo, calcolato in termini di parità d’acquisto, di 12 miliardi di dollari e un reddito pro capite di meno di 800 dollari, del Ciad, dove il presidente Idriss Déby è al potere da quasi trent’anni, e del Sudan, uno dei Paesi più poveri e più pericolosi del mondo, da tempo afflitto dalla guerra del Darfur.

Una notazione a parte meriterebbero poi gli altri confinanti della Libia, Egitto, Tunisia e Algeria, certamente non disponibili a politiche di collaborazione in tema di migranti. Alla luce di tutto ciò risultano poco credibili non solo le strategie italiane di costruire reti di interdizione, fatte di centri, hotspot e controlli, per evitare che i migranti si imbarchino per il Mediterraneo, ma anche le più o meno argomentate tesi di aiutare i migranti “a casa loro”, viste le reali condizioni dei Paesi di origine e di transito; come permettere la ripresa dell’Africa è un tema dibattuto da decenni e, purtroppo, senza soluzioni che possano essere contenute in un tweet o in un post in Rete.

L’amara impressione è che i tentativi di interloquire con i governi di vari Paesi africani, in questa fase, possano servire soltanto a consolidare regimi che, con le poche risorse europee, mettano in essere vere e proprie azioni di “polizia interna”, meramente repressive e in alcun modo capaci di migliorare la situazione di quei Paesi. Gli hotspot, in tale logica, sono l’espressione di un nuovo colonialismo che rischia di sostituire lo sfruttamento delle risorse naturali con lo sforzo di impedire qualsiasi spostamento di popolazione, trasformando una parte dell’Africa in un carcere a cielo aperto, peraltro troppo esteso per poter essere realmente controllato.

Università di Pisa

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