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“H&M, Nike e Primark usano la pandemia per sfruttare ancora di più i lavoratori”

Una lavoratrice in uno stabilimento tessile a Dacca, capitale del Bangladehs UN Women Asia and the © UN Women Asia and the Pacific

Le multinazionali del tessile hanno recuperato le perdite causate dalla pandemia ma in Bangladesh, Cambogia e Indonesia gli operai ricevono salari più bassi rispetto al 2019 e non sono stati pagati durante i mesi di chiusura delle fabbriche. La denuncia in un nuovo report della Clean clothes campaign

La crisi economica scatenata dall’epidemia di Covid-19 continua ad avere un impatto devastante sugli stipendi, le condizioni di lavoro e i diritti dei lavoratori del comparto tessile. È quanto emerge dall’ultimo rapporto (“Breaking point”) curato da Clean clothes campaign -rete internazionale di sindacati e Ong che opera per il miglioramento delle condizioni lavorative nel settore tessile- che ha intervistato 49 lavoratrici e lavoratori delle catene di fornitura dei marchi H&M, Nike e Primark in Bangladesh, Cambogia e Indonesia.

Più della metà degli intervistati segnala di aver subito pesanti tagli salariali durante la pandemia. Quasi il 70% è stato costretto a sopportare periodi in cui ha ricevuto stipendi inferiori rispetto a quelli del periodo pre-pandemico. Già prima della pandemia, tutti questi lavoratori sopravvivevano con salari da fame oggi, per loro, arrivare a fine mese e riuscire a mantenere dignitosamente la propria famiglia è quasi impossibile. In Bangladesh, ad esempio, prima della pandemia un lavoratore del settore tessile guadagnava in media 135 dollari al mese (e fino a 217 con bonus e straordinari, che di fatto sono la norma), oggi gli stipendi si sono ridotti rispettivamente a 128 dollari e 150 dollari.

Negli altri Paesi presi in considerazione il calo degli stipendi è meno marcato, ma molti lavoratori raccontano di essere rimasti senza stipendio per periodi più o meno lunghi. Il “furto degli stipendi” durante i mesi della pandemia in cui le fabbriche sono rimaste chiuse si è verificato all’interno delle catene di approvvigionamento di H&M, Primark e Nike. “Chiaramente non stanno facendo abbastanza per proteggere i loro lavoratori dall’impatto economico del Covid-19 -si legge nel report-. Una crisi causata in larga parte dalle decisioni delle stesse aziende di cancellare o ridurre gli ordini e spingere ulteriormente verso il basso gli stipendi”.

Dalle interviste condotte tra i lavoratori, emerge che 11 operai impiegati nella filiera di Primark stimano di avere un credito complessivo di 2.890 dollari, 18 lavoratori di H&M stimano che la somma loro dovuta sia di 2.368 dollari e 13 lavoratori di Nike stimano di avere un credito di 1.527 dollari. Si tratta di mesi di salari arretrati, secondo i livelli medi salariali percepiti nei diversi Paesi oggetto di questa indagine prima della pandemia, già livelli di povertà.

“Ogni mese devo pagare i debiti che ho contratto, l’acqua e l’elettricità, ma lo stipendio non è sufficiente. Non voglio vedere i target di produzione crescere mentre il numero di lavoratori necessari per raggiungerli diminuiscono. Non abbiamo un reddito sufficiente a pagare le spese necessarie per vivere”, racconta un lavoratore cambogiano che produce abiti per Primark. Non sono solo diminuiti i salari. I lavoratori intervistati denunciano un innalzamento degli obiettivi di produzione, un peggioramento delle condizioni di lavoro e un aumento delle molestie da parte della direzione.

“Siamo stati duramente sfruttati durante la pandemia: il Covid-19 non è stato colpa nostra, ma siamo stati noi a ricevere meno della metà del nostro salario normale. All’inizio abbiamo protestato, ma la direzione della fabbrica ha detto: ‘Se protestate o formate un sindacato, non avrete un centesimo e non solo perderete il lavoro, ma sarete anche sfrattati da questa zona e non avrete più un lavoro in nessun’altra fabbrica’. Così, nessuno di noi ha potuto costituire un sindacato”, racconta una lavoratrice di una fabbrica che produce per H&M in Bangladesh.

Chi invece ha continuato a macinare profitti nonostante la crisi sono state proprio le multinazionali della moda. Come ricostruisce il report, nel novembre 2020 il proprietario di Primark, Associated British Foods ha riportato profitti pari a 914 milioni di sterline (circa 1,3 miliardi di dollari), il gruppo H&M ha annunciato un utile operativo pari a 373 milioni di dollari mentre l’utile netto di Nike al 28 febbraio 2021 è stato di 3,4 miliardi di dollari per i 12 mesi precedenti.

Quello del tessile “è un settore particolarmente fragile, in cui lo sfruttamento è endemico. Poiché i marchi a capo delle filiere globali non si assumono autonomamente le proprie responsabilità, risulta sempre più evidente quanto sia urgente che ci siano degli obblighi legislativi che glielo impongano”, commenta Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti.

I dati raccolti nel rapporto dimostrano come i marchi non siano riusciti a tutelare i lavoratori delle loro filiere per tutta la durata della crisi. All’inizio della pandemia, brand e distributori si sono rifiutati di pagare le merci, compresi i capi di abbigliamento già in produzione o addirittura completati, per un valore stimato di 40 miliardi di dollari. Cancellazioni di massa, pagamenti ritardati e sconti imposti ai fornitori hanno scosso l’industria, con un impatto devastante sui lavoratori: a livello globale sono ormai creditori per miliardi di dollari in salari non pagati, bonus e indennità di licenziamento. E anche quando molti grandi marchi hanno accettato di pagare per intero gli ordini che erano già in produzione (come evidenziato sul Worker Rights Consortium brand tracker), non si sono però assicurati che i lavoratori e le lavoratrici fossero pagati per quanto dovuto.

Dall’inizio della pandemia la Clean clothes campaign chiede ai marchi di assumersi le proprie responsabilità nei confronti delle filiere. Da marzo 2021, una coalizione di oltre 200 sindacati e organizzazioni per i diritti dei lavoratori, attraverso la campagna #PayYourWorkers, fa pressione sui marchi perché negozino direttamente con i sindacati del settore un accordo esecutivo che garantisca salari, liquidazione e diritti fondamentali del lavoro per colmare il divario salariale dell’era pandemica, garantire che i lavoratori licenziati ricevano la liquidazione per intero, sostenere protezioni sociali più forti per tutti i lavoratori e garantire il rispetto dei diritti fondamentali del lavoro.


Riceviamo dall’ufficio stampa di Primark una risposta al nostro articolo che pubblichiamo di seguito.

“Prendiamo molto seriamente la nostra responsabilità nei confronti delle persone che realizzano i nostri prodotti. Siamo consapevoli dell’impatto negativo della pandemia da Covid-19 sull’industria globale dell’abbigliamento. Per questo motivo, durante tutto questo periodo di grande difficoltà, abbiamo continuato a lavorare a stretto contatto con i nostri fornitori con l’obiettivo di assicurarci che il nostro codice di condotta – che stabilisce uno standard obbligatorio riconosciuto a livello internazionale per ogni fabbrica che realizza prodotti per i nostri fornitori, venisse sempre rispettato. Accogliamo sempre favorevolmente eventuali segnalazioni relative a presunte inosservanze del nostro codice di condotta, di cui a farsi carico è il team Primark composto da oltre 120 esperti con sede nei nostri principali mercati di approvvigionamento. Le accuse sollevate nel rapporto destano la nostra più sincera preoccupazione, motivo per il quale apprezziamo qualsiasi informazione aggiuntiva che possa aiutarci nelle indagini sui quattro stabilimenti Primark menzionati. Da sempre, infatti, garantire che i nostri fornitori rispettino gli elevati standard etici di Primark è una parte fondamentale del nostro impegno continuo per migliorare e proteggere le condizioni lavorative delle persone che realizzano i nostri prodotti”.

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