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H&M e il lavoro minorile in Birmania

Due stabilimenti legati al colosso del tessile avrebbero impiegato lavoratori 14enni, non lontano da Yangon. La denuncia è contenuta in un libro in uscita in Svezia la prossima settimana anticipato dal Guardian. Intanto, la multinazionale che in Italia conta 150 punti vendita e un fatturato di oltre 740 milioni di euro nel 2015, si difende appellandosi alle leggi internazionali sul lavoro

Due fabbriche legate al colosso del “fast fashion” H&M di stanza in Birmania avrebbero fatto ricorso alla manodopera di lavoratori quattordicenni. La denuncia è contenuta nel libro “Modeslavar” (Schiavi della moda), d’imminente pubblicazione in Svezia, il Paese “natale” dell’azienda di abbigliamento.Ad anticipare la notizia è stato il quotidiano britannico “Guardian”, che ha riportato le denunce delle giovanissime lavoratrici (in media quindicenni) della Myanmar Century Liaoyuan Knitted Wear e della Myanmar Garment Wedge, vicine a Yangon, tra le principali città del Paese.
Alle testimonianze messe in fila dai due autori -Moa Kärnstrand e Tobias Andersson Akerblom- H&M ha replicato sostenendo di aver avviato un’azione nei confronti dei due stabilimenti, aggiungendo però che “Il fatto che 14-18enni lavorino non rappresenta di per sé un caso di lavoro minorile, stando alle leggi internazionali sul lavoro. L’Organizzazione internazionale del lavoro sottolinea piuttosto l’importanza di non escludere quella fascia di età dal lavoro in Myanmar”. Detto questo, H&M ha aggiunto di “non tollerare ovviamente il lavoro minorile, in qualsiasi forma”. Il confine è labile, tenendo in considerazione l’infimo livello salariale della Birmania. Lo scorso anno, il governo ha infatti fissato il salario minimo per una giornata di lavoro di otto ore a 3.600 kyat, 2,6 euro.

La notizia giunge a pochi mesi dalla “Conscious Exclusive Collection” presentata a Parigi all’inizio di aprile e, soprattutto, dalla “World Recycle Week”, la settimana mondiale del riciclo organizzata dalla multinazionale con l’obiettivo dichiarato di recuperare 1.000 tonnellate di abiti usati attraverso gli oltre 3.600 punti vendita nel mondo. È un pezzo della strategia comunicativa di cui H&M ha estremamente bisogno per rilanciare la propria immagine. “Chiacchiere”, in realtà, stando al giudizio della rappresentanza italiana della “Clean Clothes Campaign” (“Abiti puliti”). Come raccontato nella recente inchiesta di copertina “Una mano di verde” di Ae, H&M non ha ancora onorato l’“Accordo per la prevenzione degli incendi e la sicurezza degli edifici in Bangladesh” sottoscritto nel 2013, con il quale si era “impegnata a migliorare le condizioni di lavoro nella sua catena di fornitura, un’analisi sulle misure correttive messe in campo dall’azienda in alcune fabbriche, suoi fornitori strategici”. Quell’accordo era figlio del tragico crollo in Bangladesh del Rana Plaza, divenuto trappola mortale per 1.138 operai tessili stipati nei laboratori.

Il “racconto” della sostenibilità parrebbe scontrarsi con le notizie che giungono da Yangon. Ma non sembra indebolire i risultati economici del colosso, anche e soprattutto in Italia, dove conta 150 punti vendita. Nel 2015, infatti, il fatturato della “H&M Hennes&Mauritz Srl” ha superato i 743 milioni di euro, più 14% rispetto a due anni fa. Il socio unico che detiene interamente le quote della Srl, però, non batte bandiera svedese: si tratta dell’olandese “H&M Hennes & Mauritz Holding BV”.

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