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Governi di minoranza: Angela Merkel e non solo

Photo: Arno Mikkor (EU2017EE)

Dalla Germania alla Spagna, passando per Svezia e Gran Bretagna, sono sempre più numerosi i Paesi retti da esecutivi che non hanno ottenuto una vera maggioranza parlamentare. Una difficoltà concreta per la cancelliera tedesca, con cui presto potrebbe fare i conti anche l’Italia. L’analisi di Alessandro Volpi

Le difficoltà in cui si dibatte la cancelliera tedesca Angela Merkel, nello sforzo di dar vita a un nuovo governo, confermano una tendenza sempre più diffusa in Europa. In vari Paesi infatti hanno preso corpo governi di minoranza, privi di fatto di una vera maggioranza parlamentare e nati grazie al sostegno o all’astensione benevola di forze di opposizione. Si tratta di una condizione presente in Spagna (che è rimasta a lungo in una situazione di stallo prima di addivenire a tale soluzione) in Svezia, in Portogallo, nella Gran Bretagna del dopo Brexit e in Danimarca, solo per citare gli esempi più noti.

La possibilità di realizzare esecutivi di minoranza in vari ordinamenti costituzionali è prevista espressamente in quanto non viene contemplato il voto di fiducia all’atto dell’insediamento del governo e, anche nel recente passato, sono state diverse le esperienze in tal senso, talvolta contraddistinte da buoni risultati in termini economici. Come è successo, ad esempio, in Svezia all’inizio degli anni Novanta, nei Paesi Bassi e in Polonia, realtà in cui la debolezza del governo si è accompagnata ad un andamento economico molto soddisfacente.

Il quadro attuale sembra presentare però alcune differenze importanti rispetto al passato. I “nuovi” governi di minoranza sono l’esito di un panorama politico che si è assai frammentato e che, dunque, molto difficilmente gli artifici delle leggi elettorali riescono, o riusciranno, a ricomporre. Il superamento non solo dei bipolarismi ma anche dei tripolarismi e persino di formule ancora più articolate rende complesso costruire gabinetti di maggioranza. In questo senso è evidente che la crisi dei grandi partiti porta con sé l’esigenza di generare comunque soluzioni di governo per evitare il continuo ricorso alle urne, favorendo ipotesi quantomeno fantasiose di coalizioni a tempo e a scopo. I governi di minoranza sono facilitati poi dalla scomparsa delle grandi fratture ideologiche che li rende possibili anche in Paesi, come la Spagna, dove erano impensabili fino a qualche anno fa. La moltiplicazione dei partiti e il venir meno delle tradizionali famiglie di appartenenza politica rendono così meno ostici accostamenti “eretici” nel sostegno, più o meno diretto, agli esecutivi.

Ci sono due ulteriori elementi da tenere in considerazione in tale prospettiva. Il primo è costituito dal moltiplicarsi di partiti a forte trazione territoriale, spesso con una decisa vocazione autonomistica che, oltre a scomporre il quadro nazionale, possono prestarsi a sostegni esterni a governi non ostili alle loro aspirazioni identitarie. Il secondo è riconducibile alla sempre più breve durata delle legislature che tendono ad esaurirsi spesso prima della loro scadenza naturale e, dunque, rappresentano una sorta di incentivo ad aggregazioni o a sostegni forzati, giustificati appunto dalla loro breve durata; una differenza questa rispetto al passato quando i governi di minoranza tendevano ad avere, soprattutto nei Paesi nordici, una durata analoga a quella dei gabinetti di maggioranza.

L’insieme di tali aspetti , come accennato in apertura, sta modificando in modo tutt’altro che epidermico la grammatica della politica che tende a perdere di consistenza per approdare a formule leggere, caratterizzate da una transizione perenne e decisamente anomala in quanto priva di un chiaro punto di partenza e di un chiaro punto di arrivo. Se ad una simile, importante mutazione si aggiunge la marcata e rapida impennata dell’astensionismo, è chiaro che sta avanzando a grandi passi una profonda delegittimazione delle istituzioni rappresentative, destinate a divenire minoritarie e congiunturali.

Questo rischio appare assai concreto anche nel caso italiano dove, fino ad oggi i governi di coalizione minoritaria, pur presenti, sono stati solo il 9% del totale degli esecutivi dal 1945 ad oggi. E dove l’esperienza forse più significativa di governo di minoranza fu quella, monocolore, di Giulio Andreotti durata dall’estate del 1976 al febbraio del 1978 grazie alla “non sfiducia” del Partito Comunista, che aveva preso forma per contrastare le posizioni del Partito Socialista di Bettino Craxi, nell’ambito di uno scenario di bipartitismo proporzionalista. Dopo la prima e la seconda Repubblica potrebbe iniziarne una terza decisamente originale in cui la forza e la credibilità delle istituzioni rischiano di risultare pericolosamente infiacchite. Un mare ignoto e inquieto che si attraversa soltanto con navi di piccolo cabotaggio.

Università di Pisa

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