Economia / Attualità
Google e le tasse: i ricavi prodotti in Italia continuano ad atterrare in Irlanda
Anche nel 2018 la multinazionale ha trasferito a Dublino il fatturato dalla vendita di pubblicità nel nostro Paese -oltre 700 milioni di euro-, evitando imposte più elevate. Lo certifica l’ultimo bilancio di Google Italy Srl, la succursale che due anni fa ha sottoscritto un accordo con le autorità italiane per chiudere “contenziosi fiscali”. La “web tax”, nel frattempo, è scomparsa
Gli affari di Google in Italia portano ancora in Irlanda. Nel 2018 la multinazionale ha infatti continuato a trasferire i ricavi prodotti nel nostro Paese tramite la vendita di pubblicità online -oltre 700 milioni di euro- verso l’Irlanda, evitando livelli di imposizione più elevati per mezzo del regime di fiscalità agevolata di Dublino. Lo certifica l’ultimo bilancio della Google Italy Srl, la consociata con sede a Milano che nel maggio di due anni fa aveva sottoscritto un accordo con le autorità del nostro Paese in tema di “maggiori imposte, interessi e sanzioni dovuti per i precedenti esercizi fiscali” (citando dal bilancio 2017 della filiale). Una “chiusura di contenziosi fiscali con l’Agenzia delle Entrate relativi ad annualità pregresse” -sempre citando Google- che aveva generato per la società un debito verso l’Italia di circa 304 milioni di euro.
Nonostante quell’intesa, lo “schema irlandese” -non oggetto della “chiusura”- è rimasto intatto anche nel 2018. Questo prevede che la società italiana si occupi prevalentemente di servizi di intermediazione, attività di promozione, supporto tecnico per conto della Google Ireland Limited. Le “prestazioni” della Srl non vengono remunerate dagli utenti/inserzionisti italiani ma dalla società di Dublino. I dati del bilancio 2018 della Google Italy lo confermano: dei 106,8 milioni di euro di ricavi realizzati lo scorso anno, 104,5 milioni sono arrivati dall’Irlanda e una “piccola” parte, 2,3 milioni, dagli Stati Uniti (dalla Google International LLC, il socio che ne detiene il 100% delle quote). Nemmeno un euro è giunto dall’Italia.
Al centro dello “schema” c’è Google Ireland Ltd. È questa che si occupa di svolgere il ruolo operativo nel mercato di riferimento (in questo caso l’Europa e quindi l’Italia), curando i siti web del gruppo che offrono pubblicità in Italia e –come ha ricordato l’Ufficio parlamentare di bilancio nel marzo 2017– rappresentando la “controparte legale di tutti gli atti che si perfezionano in via elettronica nei Paesi europei”. L’unità irlandese si occupa quindi della vendita degli spazi pubblicitari ai clienti/inserzionisti italiani, che pure non hanno avuto “alcuna interazione con il personale che opera in Irlanda” (ancora l’Upb). A Dublino Google “paga un’imposta sui profitti che risulta minimizzata”, fissata al 12,5 per cento (Upb).
Il fatturato “reale” della società irlandese di Google nel mercato italiano vale quindi molto di più dei ricavi dichiarati dalla succursale milanese. Aiutano sul punto le elaborazioni dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM), che ogni anno misura i ricavi complessivi del nostro “Sistema integrato delle comunicazioni” (SIC) e che il 22 giugno scorso ha proceduto all’iscrizione al ROC (Registro degli operatori di comunicazione) proprio delle “recalcitranti” Google e Facebook.
Nel 2017, il SIC italiano valeva complessivamente 17,5 miliardi di euro, in leggera flessione (0,9%) rispetto al 2016 (il dato del 2018 non è ancora disponibile ma quote e ricavi non dovrebbero discostarsi troppo dal livello relativo a due anni). Google deteneva una quota del 4,1% del SIC, il che ha permesso di stimare una raccolta pubblicitaria complessiva in Italia che si aggirava intorno ai 715 milioni di euro: ipotizzando che questa sia rimasta identica nel 2018, si tratterebbe di una cifra ben distante dai 106,8 milioni di ricavi dichiarati dalla Google Italy Srl e come detto frutto di una remunerazione “restituita” dalla casella irlandese del Gruppo a titolo di royalties.
Queste pratiche di minimizzazione dell’onere fiscale attraverso rapporti con imprese collegate sono legittime. E non sembra che il quadro possa cambiare a breve considerando il fallimento delle misure volte a introdurre una “web tax”, o meglio una “Google/Facebook tax”. Dopo il flop dell'”Imposta sulle transazioni digitali” introdotta dal governo Gentiloni con la Legge di Bilancio 2018, mai applicata, è stato il turno dell'”Imposta sui servizi digitali”, introdotta con la Legge di Bilancio 2019 dal governo Conte e anche in questo caso mai attivata per l’assenza del decreto attuativo. Edoardo Frattola dell’Osservatorio conti pubblici italiani presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore ha parlato a fine giugno della “web tax scomparsa”. Lo stallo garantisce enormi benefici per i padroni del mercato della pubblicità online. “Padroni” in senso tecnico, data la fortissima concentrazione industriale: Relazione annuale 2018 dell’AGCOM alla mano, Google e Facebook “detengono complessivamente circa il 55% dei ricavi netti da pubblicità online” (dato 2016). Quota che cresce osservando i “ricavi lordi” (ossia al lordo della quota retrocessa ai proprietari dei mezzi, ndr): Facebook e Google “raggiungono i 2/3 del valore complessivo stimato del mercato”.
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