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Che cosa sta succedendo in Kashmir dopo il golpe costituzionale dell’India
Il 14 agosto il Kashmir è entrato nel decimo giorno consecutivo di coprifuoco con internet, tv e linee telefoniche (sia fisse sia mobili) sospese da quando il governo nazionalista hinduista di Narendra Modi, tramite decreto presidenziale, ha revocato gli articoli che garantivano una relativa autonomia allo Stato himalayano a maggioranza musulmana conteso tra India e Pakistan
Il 14 agosto il Kashmir è entrato nel decimo giorno consecutivo di coprifuoco con internet, tv e linee telefoniche (sia fisse sia mobili) sospese da quando il governo nazionalista hinduista di Narendra Modi, tramite decreto presidenziale, ha revocato gli articoli che garantivano una relativa autonomia allo Stato himalayano a maggioranza musulmana conteso tra India e Pakistan. Alcune delle misure di sicurezza volte a controllare le eventuali proteste sono state lievemente allentate domenica 11 per permettere alla popolazione di pregare per Eid-al-Adha -importante festa musulmana che celebra il sacrificio- in un clima che di festoso aveva ben poco.
La stretta sulle telecomunicazioni messa in atto dal governo in maniera preventiva, lungi dall’essere una novità per i civili kashmiri (si tratta del 53esimo blocco solo nell’ultimo anno) è inedito che si protragga così a lungo soprattutto in tempi di pace. Esortando Nuova Delhi ad allentare le restrizioni in Kashmir, Amnesty International ha avvertito che “una repressione completa delle libertà civili può solo aumentare le tensioni, alienare le persone e aumentare il rischio di ulteriori violazioni dei diritti umani”. Il 13 agosto la Corte Suprema, chiamata a pronunciarsi sul blocco imposto ai residenti, si è rifiutata di esprimersi e ha detto di voler attendere il ritorno alla “normalità”. Una normalità che per i kashmiri si è tradotta in 30 anni di presenza militare oppressiva e capillare, percepita dai civili come un’occupazione.
Per via del blocco totale su comunicazioni e media, e del divieto di libero movimento, le notizie che arrivano dalla valle sono poche, trapelano a fatica e si scontrano con la narrativa ufficiale che dipinge un Kashmir tranquillo, pacifico. “L’abolizione dell’articolo 370 è l’inizio di una nuova era. Lo status speciale del Kashmir è stato usato dal Pakistan come arma per incitare le persone della regione contro l’India”, ha detto il premier Modi parlando alla nazione, sostenendo che l’autonomia fosse di ostacolo al pieno sviluppo e all’integrazione del Kashmir al resto d’India. Le poche informazioni che arrivano da Srinagar, principale città della valle, raccontano invece di sassaiole e scontri esplosi contro le forze di sicurezza che assediano la città, con chilometri di filo spinato srotolato per le strade e i cittadini blindati in una stretta senza precedenti. La risposta della polizia alle prime proteste dei civili è stata colpire i manifestanti disarmati con fucili d’assalto, lacrimogeni e fucili a pellet, alzando la tensione in un territorio già marchiato da anni di guerriglia e schiacciato da una brutale repressione militare. Una delegazione di attivisti tra cui Kavita Krishnan e l’economista Jean Drèze, è appena rientrata da una spedizione di solidarietà in Kashmir: la situazione che hanno trovato è molto diversa da quella descritta dai principali media indiani. Dalle interviste raccolte, emergono i primi racconti di detenzioni arbitrarie, anche di adolescenti, in una regione sotto assedio che porta le cicatrici di fosse comuni, morti in custodia e omicidi extragiudiziali.
Gli articoli 370 e 35A della Costituzione indiana hanno garantito al Kashmir una relativa autonomia sul piano legislativo nell’ambito del federalismo indiano. L’articolo 370 è stato condizione fondante per l’accesso del Kashmir all’Unione Indiana ai tempi della Partizione e della nascita di India e Pakistan, mentre il 35A ha garantito che nessun “non-residente” potesse comprare terra o immobili nella valle. Entrambi, sono stati dei freni all’assimilazione del Kashmir all’India, una garanzia contro l’induizzazione della valle. Con la nuova organizzazione, la costituzione indiana sarà applicabile in toto in Kashmir. La legge avanzata dal braccio destro di Modi, il ministro dell’Interno Amit Shah, e approvata dal Presidente, prevede inoltre lo smembramento dello Stato in due entità, Kashmir e Ladakh, che diventano due “union territories”, ossia amministrati direttamente dal governo centrale. Si tratta di un evento senza precedenti nella storia del Kashmir, che ha stravolto il precario equilibrio della regione contesa tra India e Pakistan e avrà pesanti ripercussioni nelle relazioni tra i due rivali nucleari che lo scorso febbraio sono incappati in una pericolosa escalation militare. Un passo audace (sostenuto dalla destra ultra-hinduista che ha fatto dello statuto speciale del Kashmir il centro della retorica nazionalista e settaria del Bharatiya Janata Party) che ha sollevato dubbi sulla sua costituzionalità. Con il decreto presidenziale, Amit Shah ha scavalcato il normale iter previsto per il territorio a statuto speciale e si è avvalso della crisi politica nella quale versa l’assemblea legislativa dell’ex-Stato, commissariata dal dicembre 2017, per mettere in atto un golpe costituzionale a tutti gli effetti. Un duro colpo per la democrazia indiana.
Nei giorni precedenti alla dichiarazione del 5 agosto, si respirava una strana aria in Kashmir, una tensione alla quale i civili sono loro malgrado abituati. La paura ha iniziato a serpeggiare quando i primi di agosto il governo centrale ha invitato turisti e fedeli in pellegrinaggio ad Amarnath -luogo di culto hindu in Kashmir- a lasciare la regione per motivi di sicurezza. Una non meglio identificata minaccia di attacchi terroristici ha spinto Delhi a mandare nella valle quasi 40mila militari, che si aggiungono ai 700mila che già stazionano sul territorio facendo del Kashmir la regione più militarizzata al mondo. La notizia ha scatenato il panico nella popolazione che si è precipitata e fare scorte di cibo e benzina. Nella notte del 4 agosto la connessione a internet è stata interrotta così come le linee telefoniche e la tv, mentre il governo centrale imponeva un coprifuoco indeterminato. I principali leader politici locali -Mehbooba Mufti del Peoples Democratic Party, Omar Abdullah della National Conference, insieme ai leader indipendentisti- sono stati messi agli arresti domiciliari e oltre 500 persone sono state arrestate nei giorni successivi, secondo l’emittente All India Radio, per scongiurare un’escalation di violenza.
La reazione del Pakistan non si è fatta attendere: Islamabad ha espulso l’ambasciatore indiano e richiamato il suo in patria oltre ad aver sospeso il collegamento ferroviario con l’India e fatto sapere che farà di tutto per proteggere i kashmiri, appellandosi alla comunità internazionale. E mentre l’ONU ha affermato che le ultime restrizioni imposte al Kashmir amministrato dall’India sono profondamente preoccupanti e aggraveranno la situazione dei diritti umani, Modi ha ribadito che la questione del Kashmir è un “affare interno indiano”. Con i media locali silenziati, la popolazione schiacciata dai divieti e un’intera classe politica fuori gioco, la questione kashmiri sembra essersi conclusa con un audace colpo di mano di Modi. In un clima di tensione crescente, si teme una escalation di violenza per l’anniversario dell’indipendenza indiana, il 15 agosto, generalmente marcato da scontri.
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