Interni / Intervista
Gli spazi del possibile: la rigenerazione parte dalle persone
Sono idee e contenuti a rendere possibile ed efficace ogni intervento di recupero di edifici pubblici o privati dismessi. Lo dimostra un’analisi delle realtà che hanno partecipato al bando “culturability” di Fondazione Unipolis. Intervista a Roberta Franceschinelli, curatrice di un libro uscito per Franco Angeli
“Troppo a lungo siamo stati portati a concentrare la nostra attenzione sulle infrastrutture, sul recupero degli immobili, mettendo in piedi progetti di riqualificazione basati sulla parte hardware, con tutti i limiti del caso. Perché se realizzi un contenitore bellissimo ma questo è avulso dal contesto in cui è inserito, è difficile che questo funzioni”. Roberta Franceschinelli si occupa di progetti di innovazione culturale e sociale. Da project manager della Fondazione Unipolis coordina, tra le altre cose, il programma culturability, che dal 2009 promuove e sostiene iniziative culturali capaci di generare innovazione.
I “nuovi centri culturali” possono essere “residenze d’artista nei borghi di montagna, bagni diurni dove si lava chi non ha acqua in casa e dove si fanno reading di poesia, fabbriche e caserme riconvertite in auditorium, spazi espositivi e ristoranti sociali, ma anche centri sociali occupati che sono club, spazi per la danza e laboratori di stampa o vecchi circoli dove a fianco di chi gioca a briscola si riuniscono gli appassionati di robotica”. Lo scrivevamo intervistando su Altreconomia Bertram Niessen, direttore scientifico di cheFare, l’associazione che ha provato a mapparli.
Ulteriore strumento di riflessione sull’evoluzione di questo mondo è il libro che Franceschinelli ha curato per Franco Angeli, “Spazi del possibile” (2021), un’analisi dettagliata dei nuovi luoghi della cultura, dei soggetti che li abitano e delle reali opportunità offerte dalla rigenerazione, parola chiave e a volta abusata, come nell’ultimo contestato “bando borghi” promosso dal ministero della Cultura (la “Linea A”, come una sorta di biglietto della lotteria da 420 milioni di euro per appena 21 borghi, è finalizzata proprio alla “rigenerazione culturale, sociale ed economica dei borghi a rischio abbandono e abbandonati”).
L’esperienza di culturability, dice Franceschinelli, “ha contribuito a far emergere un insieme pre-esistente di pratiche, perché c’erano già dei centri culturali che agivano in modo coerente rispetto al bando di culturability, e anche a spingere e ad ‘abilitare’ altre realtà. Pur trattandosi di un bando piccolo, infatti, la visibilità che ha ottenuto ha contribuito a far dibattere della materia, contribuendo anche alla nascita di una direzione del ministro della Cultura dedicato a questi ambiti, la creatività contemporanea”. Ci troviamo di fronte a un modo nuovo di intendere la rigenerazione: “Basta capovolgere il processo, pensare prima alle persone che ‘abiteranno’ uno spazio. So che questo è un modo per sovvertire gli standard della progettazione o del disegno delle politiche, ma è tempo di sperimentare logiche di recupero diverse.
Perché “le mura”, gli immobili, non possono più essere l’aspetto centrale di un processo di rigenerazione?
RF L’esperienza di culturability, le realtà che hanno partecipato ai bandi e che abbiamo analizzato per la stesura del libro, ci dicono che è tempo di sperimentare logiche di recupero diverse, che partano dai contenuti e dalle persone. Questo può anche avere dei limiti, perché il fatto che ci si concentri solo sul contenuto può portare a contenitori meno belli, ma tutto dipende dalla definizione degli obiettivi. Credo sia tempo di passare a una logica dei processi di rigenerazione che spinga sulle persone e sulle loro aspirazioni. Queste persone sono progettisti culturali, che operano per e con il territorio. Emerge una nuova figura: persone che hanno tra i trenta e i quarant’anni e hanno dovuto immaginarsi un modo altro di interpretare il ruolo di progettista o operatore culturale. Questo di fronte a una necessità (le istituzioni culturali tradizionali bloccate) ma anche a un desiderio: noto un elemento valoriale, di attivismo, che non riguarda solo il modo in cui si fa cultura ma anche l’approccio al proprio lavoro, che è finalizzato a generare un cambiamento sociale.
Il cambiamento di approccio di cui scrivi riguarda anche l’innesco dei processi di recupero di uno spazio.
RF Non tutte le azioni partono dai policy maker o dai proprietari (pubblici o privati) degli immobili. I progetti che sono raccontati e studiati nel libro, e più in generale tutte le realtà che definisco “spazi del possibile”, non necessariamente intercettate dal bando di Fondazione Unipolis, sono il frutto di un movimento di cittadini. Di gruppi di persone, che si riuniscono in organizzazioni, che possono essere anche cooperative o assumere forma d’impresa, diverse dal modello classico del terzo settore italiano. Stanno dentro processi che non possono essere considerati né top down (dall’alto) né bottom up (dal basso), e credo che il modello puro non esista, ma quello che sì notiamo è la partenza spontanea, che non aspetta una politica dedicata, un bando dedicato. È la spinta delle persone ad avviare un percorso. In questi casi, i soggetti coinvolti non diventano solo i gestori di uno spazio, magari ottenuto attraverso un bando, ma gli inventori di quello spazio: ciò che vanno a fare è innovativo, emergente.
Una delle sfide più grandi per questi spazi riguarda i “Codici Ateco”, quelli che definiscono le attività economiche ammesse. Perché?
RF La necessità di inquadrare ogni realtà all’interno di una o più attività economiche ammesse non appartiene a questi spazi, perché gli ‘spazi del possibile’ sono tutti e necessariamente ibridi, non sono mai realtà monofunzionali. Non esistono il museo, il teatro, la biblioteca, ma queste attività culturali si vanno mescolando e contaminando con altre, che possono essere agricole o manifatturiere o legate alla ricettività, attività che difficilmente possono oggi coesistere nel mondo dei Codici Ateco, che in alcuni casi sono incompatibili. Se questa caratteristiche di polifunzionalità rende contemporanei e interessanti i nostri spazi, che piacciono a fruitori che possono bere una birra e guardare uno spettacolo o usare il wifi per lavorare in coworking, allora c’è bisogno di modificare la cornice di riferimento. Dal punto di vista pratico, il mancato riconoscimento della specificità di questi spazi comporta la difficoltà di accedere a politiche o a finanziamenti dedicati. Diventa quindi importante, a partire dal riconoscimento, che il pubblico o una Fondazione disegnino strumenti di erogazione diversi.
Che tipo di evoluzione auspichi?
RF Ci troviamo di fronte a spazi che fanno impresa e allo stesso tempo sono agenti del territorio, perché con le loro attività generano esternalità positive. Da ciò discende una richiesta di essere riconosciuti e di avere ambiti di sostegno e politiche dedicati. Questo è naturale nel momento in cui viene riconosciuto il valore delle attività culturali, il valore artistico in senso stretto. Va presa coscienza del valore generato anche in termini di benessere e di utilità pubblica, una novità che caratterizza gli spazi rigenerati. Qui si apre una dialettica interessante, che invita a superare il tema della natura del soggetto, che oggi porta a sostenere quelli che si rifanno al terzo settore ma non soggetti orientati a logiche imprenditive. Questa è una visione novecentesca che mal si adatta agli “spazi del possibile”.
Spazi che hanno fatto rete per far emergere la loro unicità. Tu sei la presidente dell’associazione Lo Stato dei Luoghi. Di che cosa si occupa?
RF Della rete fanno parte cento realtà -tra organizzazioni e persone- che agiscono sull’attivazione di luoghi, gestione di spazi culturali e sociali, esperienze di rigenerazione a base culturale disseminate in modo capillare in tutto il Paese. Gli spazi che hanno in gestione sono 49, in città (grandi, medie e piccole) ma anche nei centri minori delle aree interne. Lo Stato dei Luoghi (LSdL) nasce dalla spinta di alcune tra queste realtà che volevano creare un ulteriore spazio in cui crescere insieme, con due due obiettivi, uno rivolto all’interno e uno all’esterno. Il primo è la cura e la connessione tra le realtà che ne fanno parte: la rete è uno spazio di confronto (sull’organizzazione, sull’offerta culturale, sulle problematiche legate alla gestione di uno spazio, sulla partecipazioni a bandi) impossibile da trovare per tanti sui territori in cui operano. Lo Stato dei Luoghi, a partire da questo, potrebbe diventare anche lo spazio in cui creare progetti artistici comuni a più centri culturali, lavorando insieme. Per quanto riguarda invece l’azione verso l’esterno, la rete nasce come soggetto di advocacy, aperto al dialogo con le istituzioni lavora per ottenere un riconoscimento diegli ‘spazi del possibile’, dei nuovi centri culturali. Il dialogo è aperto con il ministero della Cultura, con le Regioni e anche con i soggetti erogatori.
A fine dicembre Lo Stato dei Luoghi ha promosso una petizione per chiedere l’approvazione della proposta di legge depositata a luglio 2021 da Matteo Orfini, “Disposizioni per la promozione e il sostegno delle produzioni, della diffusione, della fruizione e dell’accesso alla creatività, alla cultura, alle arti performative e allo spettacolo e riconoscimento di luoghi e idi spazi della cultura, della creatività e delle arti performative”. L’articolo 6 riconoscere i “centri culturali ibridi di prossimità”.
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