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Gli operai e l’altreconomia

Idee eretiche, il controeditoriale dal numero di febbraio 2011 di Ae

Tratto da Altreconomia 124 — Febbraio 2011

Gli operai e l’altreconomia sembrano due realtà distanti, l’una sottomessa e ovunque nel mondo sacrificata agli interessi del capitale, l’altra creativa ma marginale, addirittura accolta come nicchia innocua nel grande meccanismo del capitalismo globale. Eppure il legame tra questi due mondi diversi è reale. Riguarda la resistenza al modello economico vigente e la costruzione di un’alternativa che riporti l’economia al servizio dell’umanità. Il referendum alla Fiat Mirafiori aveva questo significato, al di là dei suoi aspetti immediati. O si cede alla logica del denaro per il denaro, che tortura la vita delle persone e della natura, oppure si rialza la testa, si ripudia la riverenza nei confronti del sistema economico e si agisce per cambiarlo.
Se trovandosi costretti a “scegliere” tra la sottomissione alla volontà dell’impresa e la morte economica, molti operai (quasi la metà dei votanti) hanno avuto il coraggio di esprimere il loro rifiuto verso questa alternativa micidiale, un evento simile evidenzia che l’umanità delle persone non è spenta, che esistono energie, coscienze, azioni che possono generare una società molto diversa. E molti di quanti hanno votato “sì” al referendum possono pensare che le loro legittime ansie non siano l’unico orizzonte possibile per gli anni a venire. Si può sperare qualcosa di meglio e di più giusto. Ma si può farlo soltanto se una buona parte del nostro Paese e dell’Unione Europea si sveglierà dall’incantamento che porta a obbedire, come sotto ipnosi, ai comandi di un sistema che non ha nessuna credibilità e che porta solo frutti velenosi.
Ormai non si può più restare nell’ambiguità: singoli, famiglie, gruppi, associazioni, sindacati, partiti, istituzioni, confessioni religiose devono decidere. O si aderisce con masochistica lealtà a tutti i ricatti, alle vessazioni, ai misfatti del sistema di guerra all’umanità chiamato globalizzazione, oppure ci si dedica a costruire un vero e giusto ordine di convivenza. Oggi molti spingono se stessi sino all’oggettiva umiliazione di tessere le lodi della globalizzazione, dei suoi ricatti, dell’insensata lotta di tutti contro tutti. E così si accaniscono nel disprezzare quelli che -come la Fiom nel caso del referendum a Mirafiori- restano fedeli alla dignità umana e alla democrazia. L’amara parabola di quei sindacati che, piegandosi all’imposizione aziendale travestita da referendum, ne considerano l’esito una “vittoria”, indica quanto sia pericoloso adattarsi a pensare come vogliono i poteri dominanti. Un iperadattamento al peggio che toglie l’anima alle persone, ai sindacati stessi, ai movimenti, alla società. Nella sua descrizione della condizione operaia, sperimentata personalmente, Simone Weil ha denunciato così l’abbrutimento che implica essere costretti a lavorare e persino a vivere soltanto per sopravvivere: “Ogni condizione nella quale all’ultimo giorno di un periodo di un mese, di un anno, di vent’anni di sforzi, ci si trovi nella medesima situazione del primo giorno assomiglia alla schiavitù” (La condizione operaia, Edizioni di Comunità, p. 276). Oggi sappiamo che questa era una lettura ottimista, perché da anni non si riesce a conservare la condizione del primo giorno, ma il trattamento dei lavoratori peggiora sempre più.
Tutti, privilegiati e vittime, imprenditori e operai, lavoratori dell’agricoltura e dei servizi, intellettuali e lavoratori manuali, cassintegrati e disoccupati, giovani e vecchi, uomini e donne, proprio tutti siamo al bivio: o l’economia globale del profitto a ogni costo distrugge la società umana, o la società si umanizza e cambia il modello di economia. Quando qualcuno -che sia un singolo o un gruppo, un partito o una chiesa, un sindacato o un governo- non coglie il senso di questa alternativa decisiva mostra così di mancare di ogni lucidità. Per percepire l’alternativa e la responsabilità che da essa deriva per ciascuno è necessario anzitutto cominciare a sentire la sofferenza di adattarsi a vivere, anzi a sopravvivere così. Cioè immersi e ripiegati entro un sistema ostile alla dignità, alle aspirazioni, ai bisogni umani e ai diritti vitali. È una verità della vita il fatto che chi fa del male o chi si adatta a subire il male e finisce per collaborare con esso, qualunque forma storica il male assuma, è qualcuno che intanto non ha compassione per se stesso e, d’altra parte, non ha più alcuna capacità di sentire il valore e il dolore degli altri. L’autentico ascolto di sé e degli altri porta alla grande scoperta che il male, che credevamo necessario, non lo è affatto.

* Roberto Mancini insegna Filosofia teoretica all’Università di Macerata. I suoi ultimi libri sono Idee eretiche (Altreconomia, 2010), Il servizio dell’interpretazione (Il pozzo di Giacobbe, 2010), Sperare con tutti (Qiqajon 2010) e Desiderare il futuro (Pazzini, 2009)

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