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Ambiente / Approfondimento

Gli inceneritori ingessano la raccolta differenziata dei rifiuti in Italia. Ecco perché

I 37 impianti attivi hanno bruciato nel 2021 5,4 milioni di tonnellate di rifiuti, il 18% di quelli prodotti. I dati dell’ultimo Rapporto Ispra confermano l’effetto “freno” dei forni -concentrati al Nord- alla differenziata e all’economia circolare. Un problema anche sul fronte dei cambiamenti climatici. Gli impianti più grandi fanno riferimento ad A2A

L'inceneritore "Silla 2" di A2A a Milano © Luca Matarazzo / Fotogramma

La raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani in Italia ha raggiunto nel 2021 per la prima volta il 64%, appena un punto percentuale sotto l’obiettivo inizialmente stabilito per il dicembre 2012 dal Testo unico ambientale (il decreto legislativo 152 del 2006).
La curva di crescita della differenziata disegnata nel Rapporto Ispra, presentato a dicembre 2022, evidenzia però un limite: se tra il 2011 e il 2019 la percentuale è aumentata del 3% all’anno, nell’ultimo biennio il tasso di crescita è stato pari all’1,36%. Questo significa, in pratica, che la velocità ha rallentato, in un contesto in cui la produzione di rifiuti è rimasta sostanzialmente costante, sempre a cavallo tra le 29 e i 30 milioni di tonnellate tra il 2012 e il 2021.

Il limite è dato da un “ingessamento del sistema”, legato alla presenza di impianti per l’incenerimento dei rifiuti. In Italia sono 37, 11 in meno rispetto al 2013, ma da allora il volume totale dei rifiuti che non vengono avviati a raccolta differenziata e finiscono nei forni è rimasto costante, passando da 5,39 milioni di tonnellate a 5,4 milioni. Anche la curva percentuale è costante, e nello stesso arco di tempo oscilla pochissimo tra il 17,9% e il 18,5%.

Questa situazione anomala è frutto di una possibile distorsione introdotta dalla gerarchia europea dei rifiuti, che è la pietra angolare delle politiche e della legislazione sui rifiuti dell’Unione europea: lo smaltimento dei rifiuti non differenziati in discarica è al quinto e ultimo posto, un gradino sotto il “recupero di energia” che si realizza all’interno degli inceneritori.

Così in Italia e in Europa si deve far di tutto per minimizzare il volume dei rifiuti che finiscono in discarica, che nell’anno 2021 nel nostro Paese ammontano a 5,6 milioni di tonnellate, pari al 19% del quantitativo dei rifiuti urbani prodotti a livello nazionale, in calo del 52% dal 2012. Nell’epoca dell’economia circolare, però, il problema è ogni tipo di rifiuto residuo, perché questo comporta una dispersione di materiale e di risorse, che i rifiuti finiscano in una discarica o in un inceneritore. La presenza dei forni, ognuno dei quali è dotato di una determinata capacità di combustione, comporta quello che in inglese è conosciuto come “lock-in effect”, un blocco o una barriera oltre la quale è difficile andare, che finiscono con il frenare il potenziale dell’economia circolare. Anche perché adesso l’obiettivo dell’Ue è stato spostato al 65% di riciclo netto (oggi siamo a circa il 50, con un 65 di differenziata) e dovremo quindi arrivare a una media dell’80% a livello nazionale.

Un esempio di questo blocco lo si può osservare guardando ai dati relativi al Comune di Milano, sul cui territorio insiste un impianto che nel 2021 ha bruciato 539.116 tonnellate di rifiuti, “Silla 2”, di proprietà di A2A. La raccolta differenziata che ha fatto un salto di oltre 20 punti percentuali tra il 2012 e il 2018, in corrispondenza all’implementazione della raccolta differenziata della frazione organica, nell’ultimo biennio ha continuato a crescere ma con percentuali irrisorie, dal 61,26% del 2019 al 62,52% del 2021.

Milano è un esempio significativo perché in Italia gli inceneritori sono concentrati nel Nord del Paese, che brucia il 71,5% dei rifiuti inceneriti a livello nazionale, contro il 9,7% al Centro e il 18,8% al Sud. Al Sud, peraltro, “il solo impianto di Acerra (NA) tratta il 68,6% del totale dei rifiuti inceneriti” nell’area geografica. Acerra, che nel 2021 ha bruciato 732.196 tonnellate di rifiuti, secondo impianto in Italia per volumi trattati dopo Brescia, è di proprietà di A2A, utility fortemente radicata al Nord, dove possiede oltre all’impianto di Milano -quarto in questa speciale classifica- anche Brescia, che con 734.295 tonnellate è appunto il primo in classifica.

Nel Rapporto rifiuti urbani l’Ispra spiega che “dei 5,4 milioni di tonnellate di rifiuti avviati a incenerimento poco più della metà (oltre 2,7 milioni di tonnellate) è rappresentata da rifiuti derivanti dal trattamento dei rifiuti urbani (rifiuti combustibili, frazione secca e, in minor misura, bioessiccato) mentre la restante quota è costituita da rifiuti urbani tal quali (identificati con i codici del capitolo EER 20). Con riferimento a questi ultimi, si osserva che il 96% (quasi 2,6 milioni di tonnellate) è costituito da rifiuti urbani non differenziati (codice EER 200301) che sono inceneriti prevalentemente in Lombardia (quasi 984mila tonnellate), in Emilia-Romagna (oltre 644mila tonnellate) e in Piemonte (419mila tonnellate)”.

Sembrerebbe la conferma delle obiezioni di tutti coloro che ancora faticano ad accettare la raccolta differenziata (“A che cosa serve la differenziata, se poi i rifiuti finiscono tutti insieme nell’inceneritore?”) ma in realtà sono solo la conferma che occorre ormai uno sforzo ulteriore, quello verso la raccolta porta a porta, generalizzando laddove è possibile anche la tariffazione puntuale, che permette di far pagare a ogni famiglia in funzione del “peso” effettivo della quota indifferenziata. È in questo modo, ad esempio, che in provincia di Treviso (876mila abitanti) la percentuale di raccolta differenziata è arrivata all’88,59%.

In provincia di Torino, invece, la raccolta differenziata è la peggiore in Regione, ferma intorno al 61%, mentre il capoluogo langue intorno al 53%. Intanto in Consiglio comunale si discute di modelli di raccolta differenziata, dopo che il sindaco Stefano Lo Russo si è indignato per la sporcizia della città, con la maggioranza che ha richiamato il problema di presunti cittadini maleducati e l’opposizione che ha ricordato che “con il porta a porta stavamo andando nella giusta direzione”. Il problema sono le cosiddette eco-isole, dove per molti è complicato conferire i rifiuti, che così si accumulano fuori dai cassonetti. Intanto l’inceneritore del Gerbido, di proprietà di Trm, una controllata di Iren, società quotata in Borsa come la già citata A2A, è il terzo in Italia per volumi di rifiuti trattati nel 2021, oltre 560mila tonnellate.

La presenza dei cassonetti induce il fenomeno del littering, l’abbandono dei rifiuti in strada, oltre ad aumentare la quantità di rifiuti prodotti e la percentuale di impurità riscontrate tra i rifiuti differenziati. Anche in Emilia-Romagna prevale questo modello, che favorisce le scelte impiantistiche di Hera, aumentando il volume di materiali che vanno comunque a incenerimento.

Oltre alla questione legata al freno a mano tirato che impongono a ogni strategia verso l’economia circolare, gli inceneritori rappresentano un problema di carattere ambientale sul fronte dei cambiamenti climatici. Proprio in Emilia-Romagna, la Rete Rifiuti Zero regionale aderente a Zero Waste Italy, ha prodotto un’analisi relativa al “contributo degli inceneritori alla produzione di gas climalterante con effetto serra”. “Dalle dichiarazioni ambientali dei gestori degli otto inceneritori per rifiuti urbani presenti nel 2018 in Emilia-Romagna, di cui quattro con sola produzione di energia elettrica e quattro con produzione di energia elettrica e termica, si ottiene un dato medio di CO2 totale emessa di 1.135,6 grammi per kWh lordo prodotto. Se prendiamo questo dato come riferimento le emissioni di CO2 degli inceneritori risultano nettamente superiori anche alle emissioni del carbone (884 grammi/kWh lordo)”.

In pratica, l’energia elettrica prodotta dagli inceneritori comporta emissioni superiori a quelli del più impattante tra i combustibili fossili. Lo sanno anche il Parlamento e la Commissione europea, che stanno decidendo l’inserimento di questi impianti all’interno dell’Emission trading scheme (Ets), legato a tutti i settori energivori e ad alta intensità di emissioni. Per il Parlamento europeo la riforma sarebbe dovuta entrare in vigore nel 2026. Probabilmente sarà pienamente operativa solo nel 2028.

Secondo dati della Confederation of European Waste-to-Energy Plants (Cewep), cioè della confederazione che riunisce le imprese che gestiscono i 390 impianti di incenerimento dei rifiuti, nel 2018 l’insieme di queste ha emesso quasi 79 milioni di tonnellate di CO2, in media 1,11 per ogni tonnellata di rifiuti bruciati.

È in base a queste valutazioni (contenute anche all’interno di una valutazione indipendente, commissionata dal governo) che la Scozia sta decidendo una moratoria alla costruzione di nuovi inceneritori e di fissare un tetto (da ridurre anno per anno) sulla quantità massima da inviare in discarica o inceneritore. In Italia, invece, si continua a parlare di nuovi inceneritori, come a Roma o a Frosinone, dove Acea ha di recente ricevuto da Regione Lazio il permesso per costruire la quarta linea dell’inceneritore che brucia già 307.391 tonnellate di rifiuti all’anno (nel 2021), quinto nella speciale classifica che nel rapporto Ispra. La tabella non dà conto della capacità installata ma serve a descrivere i rifiuti prodotti dagli impianti di incenerimento che hanno trattato rifiuti urbani, in percentuale rispetto al totale incenerito. Il volume complessivo di ceneri, fanghi, rifiuti liquidi e materiale ferrosi è pari a 1.394.782 tonnellate di rifiuti, quasi un quarto di quelli bruciati.

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