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Giudici e politica: quando dietro la “neutralità” si nasconde il conservatorismo
Che cosa dimostra il dibattito sulla nomina della giudice Barrett alla Corte Suprema negli Stati Uniti. La rubrica “In punta di diritto” del sostituto procuratore generale di Genova, Enrico Zucca
La vicenda della nomina della giudice Amy Coney Barrett alla Corte Suprema degli Stati Uniti richiama il rapporto tra giudici e politica, un rapporto declinabile sotto molteplici implicazioni. Netto è il carattere maggioritario nel sistema americano, i giudici di quella Corte sono nominati dal presidente e il mandato è a vita. Si possono spostare equilibri che durano ben oltre la carica presidenziale e le maggioranze politiche del momento. La Corte Suprema ha anche le funzioni che qui sono della Corte Costituzionale che a sua volta è un giudice in gran parte di nomina o derivazione politica. È comprensibile percepire l’incidenza politica dell’azione di quelle Corti: sono i giudici delle leggi, cioè del parlamento, l’organo che esprime la volontà popolare. Quando dichiarano incostituzionale una norma la tolgono dall’ordinamento.
Nei sistemi di tradizione anglosassone anche la nomina dei giudici ordinari è direttamente politica e questo invece è un elemento dissonante rispetto alla nostra tradizione continentale. Però anche i giudici ordinari, nei singoli casi, applicano le norme riferendosi alla costituzione, per come la interpretano.
Ma questo cosa vuol dire, che la funzione dei giudici nominati dalla politica e di quelli reclutati burocraticamente è diversa, cioè è politica in un caso e non nell’altro? E poi non è la funzione del giudice per definizione imparziale? Qual è la differenza fra un giudice repubblicano o un democratico per rifarsi al sistema americano?
È noto che i repubblicani sostengono i giudici che si definiscono “originalisti” o “testualisti”. Queste definizioni indicano un approccio per cui si deve applicare la legge per com’è stata concepita dai suoi autori, così come è codificata testualmente, senza alcun margine di apprezzamento. Dopo secoli di storia del pensiero politico-giuridico è la perdurante concezione del ruolo del giudice come “bocca della legge”, secondo la definizione risalente a Montesquieu, che esaltava il parlamento nuovo sovrano, la cui volontà espressa dalla legge i giudici dovevano meccanicamente applicare. Ma le leggi, se mai lo sono state, hanno cessato di essere poche e chiare e nessuno ormai nega che l’interpretazione del giudice sia creativa quando la norma non è interamente definita nel testo letterale. Basti pensare quanto di indefinito c’è nei concetti di ragionevolezza, di proporzionalità, di adeguatezza, parametri che spesso il giudice ha come unico riferimento.
La storia della nostra Costituzione è emblematica. Per lungo tempo si sono trascurati precetti e diritti costituzionali ben chiari e definiti dicendo che le norme che li stabilivano erano programmatiche, cioè dirette al legislatore e non immediatamente applicabili. E quando i giudici hanno cominciato ad applicare i principi costituzionali, interpretando tutte le leggi alla luce di quei principi si è parlato di uso alternativo del diritto, mentre era l’avvio dell’uso ordinario della Costituzione. Quest’uso scatena ancora reazioni, come quando si traggono da quei principi nuovi diritti: è così che si è usato l’articolo 10 della Costituzione, chiarissimo, per fondare la cosidetta protezione umanitaria per i migranti. La neutralità giudiziale che s’invoca con l’originalismo e il testualismo, contrapposti all’interventismo e alla politicità dell’interpretazione dei giudici quando applicano i principi adattandoli alle esigenze della società in continuo mutamento, è una finzione politica: la grande mistificazione dietro cui si nasconde il conservatorismo.
La Corte Suprema degli Stati Uniti, con la maggioranza dei giudici che si proclamano neutrali, potrebbe essere ora più interventista nel negare diritti così come lo è stata per affermarli. Non basta dire che ci si rifà al testo e alla concezione dei costituenti, ché altrimenti la segregazione razziale ci sarebbe ancora, con tanto di fondamento legale.
Enrico Zucca è sostituto procuratore generale di Genova. È stato pubblico ministero del processo per le torture alla scuola Diaz durante il G8 dell’estate 2001
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