Economia / Opinioni
Flat tax, condoni e grandi opere. Chi vuole trasformare l’Italia in un paradiso fiscale per ricchi
Adottare la “tassa piatta” al 15% abbinata al taglio dell’Iva significa più che dimezzare i 500 miliardi di euro di entrate tributarie annue. In pratica si smantellerebbe lo Stato sociale. “E non si può certo pensare che questo colossale minor gettito sia compensato dal ravvedimento degli evasori”, spiega Alessandro Volpi
Provo ad essere molto semplice, rischiando la banalizzazione del tema. La flat tax è una misura ad evidente vantaggio dei redditi medio alti e non è sostenibile se non con l’illusoria tesi che sia in grado di generare un aumento del reddito tale da garantire nuove entrate fiscali. In Italia, le fasce medio basse della popolazione in termini di reddito già pagano un’aliquota Irpef inferiore al 23%; si stima che quasi il 50% dei contribuenti italiani abbia un’aliquota più bassa, se si considerano deduzione e detrazioni.
Ridurre tutte le aliquote Irpef al 23%, anche per i plurimilionari, significa fare loro un enorme favore, che diventa insostenibile per tutti gli altri nel momento in cui verrà meno, con tale misura, circa un terzo del gettito con cui lo Stato finanzia la scuola, la sanità pubblica e gran parte del welfare. Naturalmente per le fasce di reddito più alte ciò è ben poco avvertibile visto che possono permettersi sanità e istruzione private. Se poi si abbattesse l’aliquota secca dell’Ires, oggi al 24%, quella sulle rendite finanziarie, oggi al 26%, e una parte dell’Iva, la base fiscale dello Stato di fatto si asciugherebbe e si approderebbe ad un’idea di Stato “minimo” tipico del pensiero liberista degli anni Settanta che produrrebbe una vera macelleria sociale.
Dovrebbe essere chiaro, inoltre, che la tassa piatta è in palese contrasto con il principio della progressività prevista dalla nostra Costituzione e in un contesto di inflazione sarebbe ancor più devastante perché costringerebbe i cittadini a pagarsi i servizi necessari a prezzi decisamente più alti e con un risparmio eroso dalla stessa inflazione. Qualora si arrivasse ad una flat tax addirittura al 15 per cento per tutti, il disastro sociale sarebbe pressoché totale. Le entrate tributarie italiane sono ogni anno pari a circa 500 miliardi di euro, in gran parte provenienti da Irpef e Iva. Con tali entrate, come accennato, finanziamo gran parte della spesa pubblica; sanità, scuola, servizi, assistenza, stipendi dipendenti pubblici.
Adottare la flat tax al 15 per cento, abbinata al taglio dell’Iva, significa ridurre quei 500 miliardi a poco meno di 250. In pratica si smantellerebbe lo Stato sociale e si trasformerebbe l’Italia nel Paese di Bengodi per i super ricchi. Certo non si può pensare che questo colossale minor gettito sia compensato dal ravvedimento degli evasori che nei paradisi fiscali pagano assai meno del 15 per cento oppure da una crescita del gettito per la nascita di nuovi soggetti economici. Applicare una generale flat tax al 15% significa affossare il Paese a vantaggio dei ricchi.
In realtà si potrebbe obiettare che il programma unitario del Centrodestra non prevede la flat tax né a 23 né al 15% ma contiene “solo” una confusa “imposta piatta” per i redditi incrementati nei tre anni precedenti e rinvia al prossimo futuro sia la tesi di Forza Italia sia quella della Lega. Contempla tuttavia una serie di riduzioni fiscali, a partire dalla soglia dei 100mila euro di fatturato per gli autonomi, e da una sequenza di condoni fiscali più o meno mascherati che certamente ridurranno in maniera significativa il gettito. Non c’è alcuna quantificazione perché la promessa del taglio fiscale è assai estesa e, certamente, mettere qualche numero avrebbe significato individuare un minor gettito molto pesante. A fronte di questo, però, si indica sul versante della spesa pubblica una fortissima lievitazione, sia in campo sanitario sia in campo sociale, a cui si abbina l’esplicito richiamo al rilancio delle “grandi opere”. Gli incentivi promessi fanno immaginare una esplosione della spesa complessiva di ordine esponenziale. L’impressione della grande narrazione elettoralistica è davvero palmare; si riducono le entrate, peraltro senza significativi accenni alla progressività e all’equità, e si estendono le spese praticamente in ogni ambito, con una vera e propria lievitazione sul piano della sicurezza.
Nel programma fiscale delle destre italiane compare poi anche la proposta di “far emergere” i circa 100 miliardi di euro in contanti che si stima siano conservati nelle cassette di sicurezza. L’ipotesi è quella di far pagare le imposte solo sul 50% del contante regolarizzato, con un evidente, colossale sconto, peraltro con la pesantissima incognita di non riuscire a escludere da tale beneficio i proventi del riciclaggio e dell’autoriciclaggio.
Non c’è niente da fare, l’idea che pagare le tasse sia un elemento costitutivo della democrazia è difficile da digerire e allora bisogna trasformare il nostro ordinamento in quello di un paradiso fiscale per super ricchi, magari di incerta provenienza. Intanto le imprese del settore energetico che hanno goduto degli extraprofitti hanno versato, nell’acconto di giugno, solo il 20% del dovuto, pari a 800-900 milioni di euro contro i 4,2 miliardi previsti. Si tratta di un dato non banale perché, al di là del pessimo atteggiamento dei soggetti interessati, una simile carenza ha effetti sulla copertura del cosiddetto “decreto aiuti bis”, che proprio da quella fonte avrebbe dovuto, in parte, provenire.
C’è infine un altro numero che stride. Per garantire le forniture delle scorte, il Governo Draghi ha messo a disposizione di Snam oltre quattro miliardi di euro per comprare “a qualsiasi prezzo”, finanziati anche con la fiscalità generale. Questo significa che lo Stato spende per pagare i prezzi determinati dalla speculazione mentre quelli che fanno extraprofitti non pagano l’imposta dovuta e sperano nelle elezioni.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.
© riproduzione riservata