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Finanza / Opinioni

A che cosa serve l’Eurogruppo? Riflessioni per un’Europa più semplice

Jeroen Dijsselbloem si è attirato molte critiche (e richieste di dimissioni) per alcune affermazioni sui Paesi del Sud Europa, ma la vera domanda riguarda l’utilità e l’efficacia del soggetto che presiede, che pare un doppione di altre istituzioni dell’Unione, in grado solo di generare divisioni tra i Paesi della zone Euro e quelli che non ne fanno parte. L’analisi di Alessandro Volpi

Jeroen Dijsselbloem è il presidente olandese dell'Eurogruppo. In un'intervista a un quotidiano tedesco ha affermato, parlando dei Paesi del Sud Europa, "non puoi spendere tutti i soldi per alcol e donne e poi chiedere aiuto"

Le sgangherate dichiarazioni del presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem sono l’infelice espressione di un’idea di Europa macchiettistica, caratterizzata da un’improbabile distinzione fra popoli “nordici”, seri e rigorosi, e popoli mediterranei, dediti al buon vino e irrimediabilmente svogliati.
Per confutare simili assurdità si potrebbero trovare mille argomenti, e non sarebbe troppo complesso far emergere i limiti dello stesso Dijsselbloem, i cui comportamenti non sono stati sempre al di sopra di ogni sospetto. Ma si tratterebbe, in sostanza, di tempo sprecato: le idiozie sono idiozie.
Forse più utile è soffermarsi invece sulla carica che riveste Dijsselbloem, domandandosi cosa fa il presidente dell’Eurogruppo e soprattutto a cosa serve tale organismo. In estrema sintesi, l’Eurogruppo riunisce in maniera informale i ministri delle Finanze e dell’Economia dell’Eurozona in preparazione degli incontri dell’Ecofin, che mette intorno ad un tavolo invece tutti i ministri delle Finanze e dell’Economia dell’Unione europea.
Avviene così che nell’Eurogruppo si ritrovano i ministri degli Stati che hanno adottato l’euro, mentre nell’Ecofin quelli di tutti gli Stati che fanno parte dell’Unione. Nell’Eurogruppo hanno diritto di voto -anche se in realtà non è ben chiaro cosa debbano votare- gli Stati membri, mentre non votano il presidente, il presidente della Banca centrale europea, il Commissario europeo per gli affari economici e monetari e il presidente del Gruppo di lavoro europeo, che pure partecipano alle sedute.

Una primo domanda circa l’utilità di questo meccanismo nasce dal fatto che se la politica monetaria è affidata alla piena indipendenza della Bce, che nell’Eurogruppo non vota, e le politiche fiscali ed economiche sono di totale competenza nazionale, venendo semmai discusse in seno all’Ecofin: a che cosa serve l’Eurogruppo? Peraltro, la linea da seguire in materia di rispetto dei vincoli monetari appartiene alla Commissione  europea -il cui rappresentante, come accennato, non vota nell’Eurogruppo – e non certo all’Eurogruppo che rischia di essere allora una mera tribuna per approfondire le divisioni europee e per separare l’economia dalla moneta in una logica purtroppo tutta finanziaria dell’Europa.

La questione vera dunque non è rappresentata dalle scempiaggini di Dijsselbloem, quanto dall’evidente inutilità dell’organo che presiede. Il caso dell’Eurogruppo, tuttavia, è solo uno degli esempi possibili della gravosa e astrusa elefantiasi degli apparati europei. È sufficiente pensare alla distinzione fra Consiglio europeo, Consiglio d’Europa e Consiglio dell’Unione europea, tre realtà differenti sul piano istituzionale ma per molti versi sovrapponibili e comunque ben poco identificabili nelle loro specificità da parte dei cittadini europei; una confusione resa ancora più pronunciata dalla non immediatamente chiara distinzione di ruoli fra Parlamento europeo, eletto dei cittadini europei, e Consiglio dell’Unione europea -non eletto e composto di nominati, responsabili molto indirettamente nei confronti dei Parlamenti nazionali- che pure svolge funzioni legislative.

Chi può capire un’Europa così? Che senso hanno simili architetture pensate davvero da euroburocrati, fin troppo succubi di alambiccate alchimie istituzionali?
Una “casa” che dovrebbe essere sentita come comune da popoli e nazioni assai eterogenei risulta invece composta da organi dallo stesso nome e, al contempo, di rango e inquadramento tanto diversi da renderli paradossalmente irriconoscibili e trasformarli in una mal riuscita parodia del Leviatano.

La distanza dalla realtà di quest’Europa è stata testimoniata, di recente, dalla vicenda della nomina di Donald Tusk, ex premier liberal polacco dal 2007 al 2015, riconfermato dal Consiglio europeo nella carica che già aveva di presidente.
Tusk è stato rieletto, ma non all’unanimità. C’erano 27 voti favorevoli e uno contrario, quello della Polonia. Il governo polacco, nelle mani del Pis (Prawo i Sprawiedlywosc), il partito di orientamento marcatamente nazionalconservatore che ha vinto con una maggioranza schiacciante le elezioni dell’ottobre 2015, si è infatti duramente opposto alla riconferma di Tusk, presentando un candidato alternativo vicino al governo, Jacek Saryusz-Wolski. Tutti d’accordo quindi all’infuori del Paese di Tusk, che si è così trovato ad esprimere un presidente “europeo” suo malgrado.
In un clima siffatto, per evitare che venga meno l’indispensabile senso di appartenenza europea e che le importanti celebrazioni dei sessant’anni dei trattati di Roma non risultino un mero esercizio retorico, servono allora una rapida revisione dei trattati stessi, una radicale deflazione normativa e un altrettanto veloce dimagrimento istituzionale; il tema non è quello delle diverse velocità europee ma piuttosto quello della definizione di un’Europa più semplice è più comprensibile, due condizioni necessarie per renderla finalmente democratica.

* Alessandro Volpi, Università di Pisa

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