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Diritti / Opinioni

Benvenuti nell’era del “Noi dobbiamo costruire un muro, gente!”

Un fotogramma tratto dal film "Il grande dittatore" (1940), di e con Charlie Chaplin

Clima, disuguaglianza, Trump: viviamo l’epoca degli Stati di sorveglianza e degli algoritmi discriminatori. Eppure il linguaggio pubblico può essere ancora un agente del cambiamento

Tratto da Altreconomia 190 — Febbraio 2017

Quali parole sono migliori per raccontare il mondo in cui viviamo? Quali parole dovremmo usare per comprendere e migliorare il mondo in cui viviamo? Come spiegare davvero quel che comporta il fatto che il 2016 sia stato l’anno più caldo da quando si misurano le temperature globali? Come descrivere il maggior livello di disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza mai registrato nella storia dell’umanità? L’India, una nazione di un miliardo e duecentocinquanta milioni di abitanti, la cui società è regolata in larga parte ancora sul sistema delle caste,  supera la Gran Bretagna -in procinto di uscire dall’Europa- e diventa la quinta potenza mondiale.

L’Unione europea adotta una direttiva sul contrasto al terrorismo mentre in 14 Stati membri le leggi già approvate fanno dire ad Amnesty International che stiamo passando dagli “Stati di diritto” agli “Stati di sorveglianza”: mentre si rafforza il potere dell’esecutivo, viene indebolita la supervisione giudiziaria, limitata la libertà di espressione ed esposto potenzialmente chiunque a forme di sorveglianza governativa senza controllo, con impatto su stranieri e minoranze etniche o religioso particolarmente forte.

“In un’attualizzazione degli ‘psicoreati’ descritti in ‘1984’ da George Orwell, è possibile incriminare persone per azioni che hanno relazioni estremamente tenui con effettivi comportamenti criminali” scrive Amnesty. La nozione di “diritto umano” esiste proprio per proteggere le persone dagli abusi e dalle mancanze dei governi. Che cosa cambia nella società quando un sempre maggior numero di persone chiede la riduzione dei diritti altrui, per tutelare i propri? Di che cosa parleranno i sedicenti leader del mondo al G7 di Taormina, a maggio, il primo della presidenza Trump? Ma soprattutto, come parleranno?

Quando era ancora un candidato, nel settembre 2015, il presidente statunitense disse, durante un comizio a Dallas: “Ho fatto un bel discorso. Pensavo fosse magnifico. Era tutto a posto. Una settimana dopo mi hanno attaccato. Sto parlando dell’immigrazione clandestina. Dobbiamo fermare l’immigrazione illegale. Dobbiamo. Noi dobbiamo costruire un muro, gente! Noi dobbiamo tirar su un muro. È sufficiente andare in Israele e chiedere come funziona il loro. I muri funzionano”.
In quella che siamo convinti essere l’era dell’informazione digitale il linguaggio pubblico conta, e conta ancora molto. Sappiamo che quel che passa dai media è frutto del lavoro di chi, chiuso nelle fabbrichette della digital economy, setaccia il lavoro altrui scrivendo elenchi e dando caccia ai clic, con il fiato sul collo per rimanere un passo oltre le lame affilate dell’impietoso algoritmo di Facebook. E da algoritimi dipendono in misura crescente elementi fondamentali che riguardano le nostre vite -quali notizie lèggere, quale lavoro vedersi offrire e quale stipendio accettare, quanto pagare di assicurazione-: solo che si tratta di modelli matematici opachi, senza regole e incontestabili, capaci di rafforzare la discriminazione e la disuguaglianza. Una minaccia per la democrazia, come ha dimostrato la scienziata Cathy O’Neil nel suo “Weapons of Math distraction” (2016).

Il linguaggio che usiamo quando parliamo di politica o esponiamo le nostre ragioni in tribunale, o cerchiamo di convincere qualcuno in un contesto pubblico, resta per questo meritevole di grande attenzione. Anche perché contribuisce a spiegare quella che Human Rights Watch definisce nel suo World Report 2017 la “pericolosa ascesa del populismo”: la costruzione del consenso attraverso la diffusione di soluzioni a buon mercato -inefficaci- a problemi reali e genuini.
In un saggio del 1946, George Orwell sostenne che il linguaggio pubblico moderno aveva l’effetto di anestetizzare il cervello del lettore, rendendo difficile o impossibile un pensiero critico e coerente. “Ormai è chiaro che il declino del linguaggio deve avere in fin dei conti cause politiche ed economiche”. Ma il problema è anche la soluzione, perché la lingua può essere un agente del cambiamento, non solo un prodotto di questo.

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