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Cultura e scienza / Intervista

Enzo Traverso. Storia, memoria e Gaza, tra passato e futuro

Enzo Traverso © Victor Serri

Intervista a Enzo Traverso, storico e intellettuale, sull’uso politico della memoria, con particolare attenzione al Novecento e all’Olocausto, a partire da una sua opera seminale ora riproposta da Altreconomia. Il suo nuovo libro riflette anche sulle dinamiche contemporanee del disastro in Medio Oriente, a partire dalla Striscia di Gaza

Enzo Traverso è uno dei principali intellettuali italiani contemporanei. Da quarant’anni vive e lavora all’estero, insegnando storia in varie università, tra cui, prima in Francia, all’École des hautes études en sciences sociales, e ora alla Cornell University di Ithaca, negli Stati Uniti.

Nel corso degli anni si è specializzato nella storia intellettuale e nel pensiero politico contemporaneo. È autore di numerosi libri che esplorano i temi legati alla barbarie del Novecento. Tra le sue opere, tradotte in molte lingue, si possono citare: “Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra” (il Mulino, 2004), “A ferro e a fuoco. La guerra civile europea (1914-1945)” (il Mulino, 2007), “Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento” (Feltrinelli, 2012), “La fine della modernità ebraica” (Feltrinelli, 2013), “Totalitarismo. Storia di un dibattito” (Ombre corte, 2015) e “Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta” (2016). Tra le sue opere più recenti figurano “Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia” (Feltrinelli, 2021), “La tirannide dell’io. Scrivere il passato in prima persona” (Laterza, 2022) e “Gaza davanti alla storia” (Laterza 2024).

“Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica”, che oggi riproponiamo nel catalogo di Altreconomia, è stato uno dei testi fondamentali sull’uso politico della memoria, e per lungo tempo è stato introvabile sugli scaffali delle librerie. Nato da una lezione tenuta all’Università de La Plata, in Argentina, nel 2002, è stato pubblicato per la prima volta in francese nell’autunno del 2005 dalle edizioni La Fabrique, su iniziativa di Éric Hazan, recentemente scomparso. Gianfranco Morosato ne curò la traduzione e lo pubblicò per Ombre corte nel 2006.

Oggi, il volume ritorna con la stessa traduzione, arricchito da un nuovo capitolo e due appendici, con una prefazione inedita di Goffredo Fofi. A partire da questa pubblicazione Traverso ha risposto ad alcune domande.

Come è cambiata la percezione e l’uso del termine “memoria” nelle scienze sociali dagli anni Sessanta fino a oggi?
ET La memoria non solo influenza la sfera pubblica, diventando un tema centrale nei media, ma è anche entrata nel linguaggio quotidiano e persino nella pubblicità. Il concetto ha fatto il suo ingresso nelle scienze sociali circa un secolo fa grazie a Maurice Halbwachs, ma solo negli anni Ottanta ha conquistato una posizione di rilievo. Prima di allora, gli storici consideravano la memoria troppo soggettiva e fragile per essere uno strumento di analisi affidabile, preferendo un approccio “scientifico” basato su fonti oggettive. Tuttavia, in quel periodo, la memoria venne rivalutata, diventando, prima, legittimo campo di studio e irrompendo, poi, nella sfera pubblica. In Italia, un punto di riferimento importante è l’opera di Primo Levi, giacché “I sommersi e i salvati” non è solo una testimonianza autobiografica, ma anche una riflessione profonda, alimentata da decenni di una vasta lettura. In Francia, Pierre Nora avviava il progetto sui “luoghi della memoria”, mentre negli Stati Uniti, lo storico Yosef Hayim Yerushalmi analizzava il rapporto tra storia e memoria nella tradizione ebraica. Contemporaneamente, in Germania, la “controversia degli storici” (Historikerstreit) poneva interrogativi sul passato nazista. Questo ritorno alla memoria negli anni Ottanta segna anche un cambiamento culturale più ampio. La fine delle grandi utopie del futuro ha portato a quello che alcuni studiosi definiscono un “regime di storicità presentista”, in cui l’attenzione si rivolge più al passato, percepito come il secolo delle guerre e dei genocidi, piuttosto che al futuro. L’Olocausto, che prima era rimasto ai margini del dibattito pubblico, emerse prepotentemente in quel periodo. In Italia, ad esempio, l’anniversario delle leggi razziali del 1938 passò quasi inosservato negli anni Settanta, mentre oggi ricorrenze come il Giorno della Memoria sono parte integrante della nostra vita pubblica. Questo cambiamento riflette un mutamento profondo nel modo di concepire la storia del Novecento, che non può più essere raccontata senza considerare l’Olocausto, divenuto un elemento chiave della memoria collettiva e della riflessione culturale moderna.

La mercificazione del passato, che menzioni, ha contribuito all’emergere di una forma di commemorazione che si è tradotta nel turismo della memoria. Quale pensi sia stato il ruolo degli organi di informazione di massa in questo processo?
ET Si è avviato un nuovo processo di reificazione del passato, caratterizzato da nuove modalità di rappresentazione vistose e sofisticate. Temi come le guerre, la violenza, la Grande guerra e la Resistenza vengono affrontati con approcci radicalmente diversi. La Resistenza, un tempo considerata un’eredità condivisa e rivendicata, diventa ora un’eredità controversa, con voci contrastanti che si confrontano. Un tema centrale è l’Olocausto, il quale viene ampiamente appropriato e rielaborato dall’industria culturale. Non sono più solo associazioni o partiti politici a coltivare e trasmettere questa memoria; entriamo in una nuova dimensione, quella dell’industria culturale. Con l’arrivo dell’Olocausto a Hollywood, la memoria diventa globale: film sull’Olocausto iniziano a essere proiettati in tutto il mondo, anche in Paesi come l’Indonesia e le Filippine, un fenomeno impensabile negli anni Cinquanta e Sessanta. Questo cambiamento trasforma radicalmente il nostro rapporto con il passato. Un altro aspetto importante da considerare, che ho approfondito in altre opere, è il legame emotivo con la memoria. Mentre gli storici tendono a distaccarsi dal passato per ricostruirlo oggettivamente, la memoria ne valorizza e rende esplicita la dimensione emotiva. Scrivere sul passato evidenziando i legami affettivi con il presente risulta spesso più efficace di un approccio “freddo”, che rischia di anestetizzare le esperienze storiche. Questo nuovo modo di affrontare la memoria ha ottenuto un successo indiscutibile, attirando l’interesse di molti. Negli anni Ottanta si assiste inoltre a una democratizzazione della memoria: il diritto alla memoria non è più esclusivo di una ristretta élite, ma si estende a tutti. Anche nelle scienze sociali, si inizia a valorizzare la storia della scrittura popolare, riconoscendo l’importanza di recuperare lettere e cartoline scritte da antenati con limitate capacità di scrittura. Questo segna un mutamento significativo nel nostro rapporto con il passato, contribuendo a creare un nuovo panorama culturale.

Mi sembra che ci sia una vera svolta linguistica nella narrazione storica, un passaggio che rappresenta il feticismo della memoria. In questa nuova edizione di “Il passato istruzioni per l’uso” hai voluto includere un saggio su Claude Lanzmann, l’autore del documentario “Shoah”, un personaggio significativo.
ET Il caso di Lanzmann è paradigmatico perché rovescia la tradizionale gerarchia nella narrazione storica. Per decenni, gli storici si sono ritenuti i legittimi custodi della memoria, sostenendo che la fiducia nella loro interpretazione fosse essenziale. Lanzmann, al contrario, afferma che il significato autentico dell’Olocausto viene dalla voce dei testimoni. Mentre gli storici aspirano a scoprire la verità, Lanzmann sostiene che la verità risiede nel vissuto degli attori storici. La sua affermazione provocatoria secondo cui, se avesse trovato un film girato ad Auschwitz dalle SS, lo avrebbe distrutto, evidenzia un atteggiamento radicalmente antistoricistico. Lanzmann suggerisce che cercare di spiegare l’Olocausto attraverso la ragione è futile; il passato, con la sua natura impenetrabile e misteriosa, va contemplato e accolto. La sofferenza che porta con sé non può essere pienamente compresa, creando un fossato incolmabile tra spiegazione e comprensione. Gli storici possono ricostruire fatti e dinamiche, ma ciò non equivale a comprendere il profondo nocciolo emotivo della Storia, che è incarnato dai superstiti e dai testimoni. Questa visione unilaterale, che si concentra esclusivamente sulle atrocità del passato, è limitativa. Per una ricostruzione completa della Storia, è necessario articolarne le diverse dimensioni senza privilegiarne una a scapito delle altre. La cultura contemporanea tende a enfatizzare le emozioni e l’immaginario, rendendo il passato più attraente per il pubblico. Questo è particolarmente evidente nel contesto della “videosfera”, dove l’immagine sostituisce la parola scritta come principale mezzo di elaborazione della memoria. Fino agli anni Ottanta, la memoria veniva trasmessa attraverso la scrittura; da quel momento in poi, cinema e media hanno preso il sopravvento. La crescente appropriazione del passato da parte dell’industria culturale e la sua esposizione mediatica hanno portato anche le istituzioni a promuovere politiche pubbliche legate alla memoria. Negli anni passati, le commemorazioni erano più vive e personali, come quelle dei reduci della Grande guerra o della Resistenza.

Nel dettaglio tu accenni alla memoria operaia e coloniale, l’una rimossa e l’altra oggi di grande attualità. Come queste interagiscono con il cambiamento della società italiana verso una realtà multiculturale?
ET In un contesto di capitalismo neoliberale, la memoria operaia è diventata marginale, non perché non esista, ma perché è stata silenziata e resa invisibile. Pochi preservano il suo lascito, e il sostegno pubblico per queste iniziative è spesso assente. Questa mancanza di dialettica ha portato a un appiattimento della memoria collettiva. Se vogliamo adottare una lettura marxista delle metamorfosi della memoria, è interessante considerare come i percorsi della memoria collettiva siano influenzati dalle dinamiche della lotta di classe. Al contrario negli ultimi anni, la memoria coloniale ha conosciuto una rinascita, riflettendo i cambiamenti nei rapporti di forza a livello globale e le nuove consapevolezze che emergono in un’Italia che si sta trasformando in un Paese multietnico e multiculturale. Resta da chiedersi: è possibile continuare a commemorare l’Olocausto ponendolo al centro del discorso pubblico, mentre si problematizza la Resistenza e si ignorano i crimini del colonialismo? Qual è il rapporto tra queste memorie e la trasformazione dell’Italia in un contesto multiculturale?

In queste settimane hai scritto un pamphlet per Laterza, intitolato “Gaza di fronte alla storia”, in cui affronti le ambiguità dell’Occidente, sia a livello intellettuale sia istituzionale, di fronte alle violenze del 7 ottobre e all’invasione della Striscia di Gaza. Oggi si discute del doppio standard che emerge nel giustificare le azioni genocidarie dell’esercito israeliano. Come spieghi questo atteggiamento?
ET Ci sono ragioni che spiegano il trattamento così diverso riservato alla violenza israeliana rispetto a quella palestinese. Negli ultimi giorni, qui negli Stati Uniti, ho percepito un certo sospiro di sollievo dopo il ritiro di Biden e l’arrivo di Kamala Harris. Molti si sono detti che almeno la campagna elettorale democratica non sarà un funerale, ma un momento di speranza per impedire il ritorno di Trump al potere. Tuttavia, mi ha colpito la mancanza di una sola voce palestinese nella convention democratica di fine agosto, nonostante la presenza di membri del Congresso di origine palestinese. Inoltre, in una recente intervista alla Cnn, Kamala Harris ha detto chiaramente che il sostegno a Israele “non è negoziabile” e ha fatto capire che continuerà a stanziare decine di miliardi in finanziamenti e armamenti per Israele, mentre il mondo osserva ciò che sta accadendo. Stiamo assistendo a un genocidio, eppure si continua a negare questa realtà. Molte narrazioni che circolano sulle atrocità palestinesi sono state smentite da grandi organi di informazione, e questo ci spinge a riflettere non solo sulla memoria, ma anche su come il presente venga distorto per servire interessi di parte. Continuare a presentare Israele come lo Stato delle vittime, mentre sta attuando un genocidio giustificato da una retorica razzista, è inaccettabile. I membri del governo israeliano dichiarano pubblicamente che i palestinesi sono “animali” e che devono “ricolonizzare Gaza”. Persistere nella narrazione di Israele come figlio dell’Olocausto, affermando che il sostegno a Israele è “non negoziabile”, costituisce una complicità aperta dell’Occidente in questo genocidio. La tempesta attuale apre una finestra su un paesaggio molto più orribile di quanto si possa immaginare. Questo uso della memoria dell’Olocausto ci invita a riflettere su come questa memoria sia stata costruita e sui valori e le idee che essa diffonde.

Nonostante ciò tu non manchi di individuare le prospettive per una coesistenza pacifica tra israeliani e palestinesi: come può la storia dei genocidi influenzare la nostra comprensione del conflitto attuale?
ET Siamo di fronte a un bivio storico, e l’uscita da questa situazione è incerta. Da un lato, ci sono ottimisti che affermano che le profonde tendenze sotterranee alla fine decideranno il corso della storia. I diritti dei palestinesi dovranno essere riconosciuti, proprio come l’apartheid in Sudafrica ha avuto una fine. I regimi coloniali, che sembravano indistruttibili e si pensavano come il culmine della civiltà, sono crollati. Anche questo genocidio non potrà fermare i palestinesi nel loro percorso verso la liberazione. La storia è costellata di genocidi che hanno cercato di cancellare popolazioni intere. Vivendo negli Stati Uniti, non posso non pensare alle riserve indiane, simbolo di un passato di oppressione. I palestinesi fanno parte di una realtà araba vasta e complessa, ma ci troviamo in un contesto in cui non sembra esserci una via d’uscita chiara. È importante ascoltare le voci minoritarie, sia palestinesi sia israeliane, che auspicano una coesistenza pacifica e un riconoscimento reciproco come cittadini legittimi in una terra condivisa. Quando parlo con i miei studenti, faccio notare che, un secolo fa, c’erano opinioni secondo cui gli Stati Uniti dovessero preservarsi come nazione Wasp. Oggi, però, nessuno mette in discussione la cittadinanza di americani di origini diverse. Perché questo dovrebbe essere diverso in Palestina e Israele? Le soluzioni che possono sembrare utopiche, in realtà, sono le più logiche se si riesce a guardare con obiettività. Il dilemma attuale sulla cittadinanza riguarda anche l’Italia, simile a quello degli Stati Uniti alla vigilia della Grande guerra, solleva interrogativi sul futuro. Se non cambiamo le nostre politiche sulla cittadinanza, che Italia ci aspetta tra un secolo? Un Paese in cui gli italiani potrebbero diventare una minoranza, con turisti che visitano solo i luoghi iconici, ma che non rispecchia più la sua identità? Pensare al futuro è quindi non solo necessario, ma urgente.

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