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Il senso di Eni per la Basilicata
Reportage dalla Val d’Agri, simbolo della “Texas d’Italia”, dove la multinazionale degli idrocarburi estrae 80mila barili al giorno di petrolio. Tra valutazioni d’impatto sanitario contestate, processi e l’avvio del nuovo impianto “Tempa Rossa” della francese Total
Dal paese di Viggiano, arroccato a mille metri d’altezza su uno dei rilievi dell’Appennino Lucano, si ha una vista perfetta della Val d’Agri, dell’invaso artificiale del Pertusillo e dell’enorme Centro Olio dell’Eni. Il simbolo del “Texas d’Italia”, come è stata ribattezzata la Basilicata per le sue ingentissime riserve di petrolio. Dopo le prime esplorazioni negli anni 30 e una fase di sfruttamento del gas-metano in Val Basento poco dopo la guerra, in Lucania il vero e proprio boom petrolifero si è registrato negli anni 80. Più precisamente nel 1987, quando in Val d’Agri l’Eni ha scoperto il più grande giacimento in terra ferma d’Europa, con una produzione giornaliera attestatasi sugli 80mila barili al giorno, a fronte però di una concessione che prevede la possibilità di arrivare fino a 104mila barili.
Una volta scesi in valle, costeggiamo il muro perimetrale del Centro Olio, “abbellito” dai graffiti costati 2 milioni di euro dell’artista messicano Raymundo Sesma. Ma a saltare all’occhio sono anche i piezometri e altri macchinari piazzati nei pressi del punto dove nel 2017 si verificò lo sversamento di 400 tonnellate di greggio -a detta dell’Eni- che hanno costretto l’impianto a sospendere l’attività per quattro mesi. Fra luglio del 2017 e lo scorso aprile, durante le nostre frequenti visite nella zona, la strumentazione dispiegata nel punto della perdite è rimasta sempre la stessa e i campi prospicienti, ci ha detto uno dei proprietari, continuano a essere largamente inutilizzabili. Passeggiando per il paese di Viggiano, ci rendiamo subito conto che ospitare sul proprio territorio 20 dei 27 pozzi attivi che fanno capo al Centro Olio ha anche i suoi vantaggi in termini economici. Nella cittadina in passato resa famosa dalla fiorente produzione di arpe, sembra quasi di stare in un angolo di Svizzera, tanto è tutto ordinato e perfetto grazie alle royalties incassate dall’apertura dell’impianto all’inizio degli anni Novanta. Royalties che hanno raggiunto il picco nel 2016, attestandosi sui 15 milioni di euro.
Eppure non è tutto rose e fiori, come dimostrano le risultanze della Valutazione di impatto sanitario (VIS) sulle popolazioni di Viggiano e Grumento Nova, i due paesi maggiormente esposti ai fumi del Centro Olio Val D’Agri, il primo studio epidemiologico compiuto in 20 anni di attività estrattive targate Eni, redatto da esperti qualificati tra gli altri del CNR e dell’Università di Bari e reso pubblico nel settembre del 2017. Il quadro che ne è emerso, ci racconta il dottor Giambattista Mele, che ha fortemente voluto e seguito direttamente la raccolta e valutazione dei dati, non lascerebbe dubbi: “Gli indici di mortalità e di ricovero in ospedale dei residenti nei due comuni nel periodo 2000-2014 hanno mostrato diversi eccessi rispetto ai dati medi sia della regione Basilicata sia del complesso di 20 comuni dell’alta Val d’Agri”. Analizzando i numeri si comprenderebbe l’associazione di rischio tra le emissioni dell’impianto e le patologie cardiovascolari e respiratorie, con un aumento del 19% della mortalità delle donne per tutte le cause e del 15% di donne e uomini di Viggiano e Grumento rispetto a quelli degli altri 20 comuni della Val d’Agri. Nello stesso tempo sono stati registrati un incremento dei ricoveri ospedalieri per malattie circolatorie del 41% e del 48% per malattie respiratorie.
L’Eni ha subito presentato le sue controdeduzioni, elaborate da un collegio di esperti composto da docenti delle Università La Sapienza e Tor Vergata di Roma e ricercatori dell’Istituto superiore di Sanità, nonché da vari esperti italiani di stanza a New York. Tutti concordi nell’affermare che in Val d’Agri non c’è nessun allarme sanitario. Proprio per ribadire la serietà e la validità del lavoro svolto sulla VIS, Mele è intervenuto all’assemblea degli azionisti dell’Eni di quest’anno insieme al documentarista Mimmo Nardozza, autore con il suo collega Salvatore Laurenzana di diversi video sugli impatti del petrolio in Basilicata.
Una presenza, quella dei due lucani, giustificata dalle parole pronunciate dall’amministratore delegato Claudio Descalzi durante l’assemblea del 2017. “La Val d’Agri non è contenta di Eni -disse-. C’è stato probabilmente un allontanamento, ci sono stati dei problemi ambientali, dei problemi anche di delusione. Sulla Val d’Agri dobbiamo assolutamente recuperare, perché quando non si riesce a far qualcosa dobbiamo prenderci le nostre responsabilità”.
Un’inattesa ammissione di colpa da parte dei vertici della più importante multinazionale italiana, 71 miliardi di euro di fatturato nel 2017 e attività in oltre 70 Paesi in giro per il Pianeta. Eppure dopo poco più di un anno, il 10 maggio 2018, della Val d’Agri e della Basilicata nell’intervento fiume di Descalzi durante l’ultima assemblea -2 ore e 15 minuti, un record- non c’è stata traccia. Da promemoria sono allora tornati molto utili gli interventi degli azionisti critici lucani. Rammentando per esempio che a Potenza è in corso un processo che vede alla sbarra 10 società e 47 persone, tra cui due responsabili del distretto meridionale dell’Eni, Ruggero Gheller ed Enrico Trovato, altri dipendenti della compagnia petrolifera, esponenti di spicco dell’ARPAB (l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente) e alcuni ex dirigenti della Regione. Per i dipendenti dell’Eni l’accusa è di aver smaltito illecitamente i rifiuti prodotti dall’estrazione del petrolio, con procedure che hanno fatto conseguire all’azienda un ingiusto profitto per milioni di euro. Attraverso la manomissione dei dati sugli sforamenti emissivi del Centro Olio e la falsificazione dei codici CER (Catalogo Europeo dei Rifiuti) dei rifiuti speciali, gli scarti pericolosi non venivano catalogati come tali, ma come quasi innocui. I tecnici dell’ARPAB, invece, non avrebbero controllato in maniera rigorosa le emissioni. Il dubbio di molti lucani è che anche i dati sulla qualità dell’acqua dell’enorme invaso creato dalla diga del Pertusillo (quella vicino al Centro Olio di Viggiano) non siano attendibili. Ne è convinto Giuseppe Di Bello, tenente di polizia provinciale da qualche tempo spedito a fare il custode al museo di Potenza, le cui analisi indipendenti mostrerebbero la presenza di una pletora di sostanze cancerogene nell’acqua che soddisfa il fabbisogno della Puglia, oltre che della Basilicata. Una discrepanza, quella sui dati, che inquieta e meriterebbe risposte certe e definitive, e che però tardano ad arrivare.
Ma quello di Viggiano ormai non è l’unico centro olio della Basilicata, visto che sta per entrare in produzione il nuovo impianto della francese Total denominato “Tempa Rossa”: sei pozzi per una produzione giornaliera che si aggirerà intorno ai 50mila barili. Da Potenza ci vuole poco meno di un’ora per arrivare a Tempa Rossa. Prima si ammira il magnifico scenario delle Dolomiti Lucane, uno dei tesori nascosti -o quanto meno poco sbandierati- del nostro Paese. Le rocce levigate alla perfezione dagli agenti atmosferici donano al paesaggio un fascino unico. Arrivati quasi alla sommità del rilievo, scorgiamo dei lunghi cavi che collegano due montagne. In tarda primavera e in estate quei cavi servono per fare il Volo dell’Angelo, una passeggiata sospesi nel vuoto per ammirare in maniera quanto mai originale un panorama già di per sé mozzafiato. Di appassionati di questa forma di turismo un po’ estremo ce ne sono parecchi, visto che il consorzio che gestisce il Volo dell’Angelo impiega una trentina di persone e fa registrare buoni incassi. Ma di luoghi dove sviluppare in maniera intelligente e sostenibile il turismo nei paraggi ce ne sono più d’uno. Come non innamorarsi di Pietrapertosa, paesetto incastonato tra le rocce che porta alla mente gli antichi villaggi della Cappadocia. Oppure concordare appieno con chi ha definito Guardia Perticara uno dei borghi più belli d’Italia, ricostruita in maniera sapiente e attenta dopo il sisma del 1980, impiegando la pregiata pietra di Gorgoglione con cui venivano realizzate le case già in epoca medievale.
L’impianto invece sembra una delle astruse creature partorite dalla prolifica mente del regista giapponese Hayao Miyazaki. Un complesso prodigio ingegneristico che, con le sue infinite tubature, i mastodontici depositi e la altissima torre, ha finito per divorare una montagna e che, ironia della sorte, per funzionare e produrre barili di petrolio si affiderà all’energia pulita delle pale eoliche. Ce ne sono tantissime -come in tutta la Basilicata- a far da corona all’impianto in un apparente corto-circuito, un ossimoro energetico che contribuisce a rendere questo luogo ancor più “peculiare”, per usare un eufemismo. A fine 2018, Tempa Rossa inizierà a produrre petrolio, nonostante problemi non risolti che vanno dalla viabilità intorno all’impianto, al mancato smaltimento dei fanghi accumulati quasi dieci anni fa in fase di esplorazione, alla presenza di varie aziende agricole a pochi metri dai pozzi, come abbiamo visto con i nostri occhi.
E poi nel processo in corso a Potenza c’è un filone che chiama in causa amministratori locali accusati di corruzione. Si sono “salvati”, invece, l’ex ministra Federica Guidi e il suo fidanzato Gianluca Gemelli, imprenditore del settore petrolifero che fu intercettato mentre faceva pressione sulla sua illustre innamorata per “ottenere” un emendamento alla legge di Stabilità che avrebbe favorito proprio il Centro Olio. L’emendamento, che in precedenza era stato bocciato nello “Sblocca Italia”, si materializzò. In Basilicata, però, a cose di questo genere si sono ormai tristemente abituati.
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