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Chi si è dimenticato di Ebola

Nel giugno 2016 veniva annunciata la fine di una delle più gravi epidemie recenti. 11mila morti e rapporti sociali distrutti, ma l’interesse è crollato

Tratto da Altreconomia 198 — Novembre 2017
© NBC

Paese che vai, saluto che trovi. In Liberia si usa lo snap handshake: ci si stringe la mano e poi, nel momento di lasciare la presa, si schioccano le dita. I miei colleghi liberiani si sono divertiti parecchio vedendomi sorpreso e impacciato. Con i giorni è diventato un gesto naturale. La tradizione racconta che lo snap handshake sia nato proprio in Liberia come affermazione del proprio stato di libertà e che da lì si sia diffuso in tutta l’Africa occidentale. Mi sono ricordato di questo saluto all’inizio di ottobre, in sala operatoria a Genova, presentandomi al bimbo ganaense che avrei dovuto addormentare e di cui mi sono subito conquistato la simpatia esibendomi in uno “snap” sonoro.

Pochi giorni dopo ho incontrato a Ferrara Roberto Scaini, amico e collega, che da anni insegue le maggiori catastrofi umanitarie in giro per il mondo. Quella che lo ha segnato di più è stata l’epidemia di Ebola che tra il 2014 e il 2016 ha devastato Guinea, Liberia e Sierra Leone infettando 28.616 persone e causando 11.310 morti (dati OMS). Già, Ebola. Ce ne eravamo dimenticati. La più grande epidemia di Ebola della storia è stata dichiarata finita il 9 giugno dello scorso anno. Sono passati pochi mesi, ma ormai l’interesse mediatico è crollato, soprattutto quando si è capito che nessun migrante avrebbe mai potuto far sbarcare il virus letale sulle nostre coste, attraverso il Mediterraneo.

530.000 è il numero delle tute protettive utilizzate da MSF nei progetti Ebola tra il 2014 e il 2016

Roberto ha raccontato la sua esperienza di Ebola in un libro emozionante: “Intoccabili”. Titolo evocativo di quello che l’infezione ha costretto a fare nel Paese. Una “no touch mission”, senza contatto fisico, racconta Roberto, a iniziare dal modo di essere medico: poteva visitare i propri pazienti avvalendosi solo dello sguardo clinico o poteva toccare il corpo di un malato solo dopo essersi isolato in una tuta protettiva completamente sigillata. Durante l’epidemia non si poteva stringere la mano di nessuno, non ci si poteva abbracciare neppure tra i colleghi con cui si condivideva la frustrazione quotidiana della conta dei morti. Anche il contatto con il proprio corpo, come un semplice strofinarsi gli occhi, poteva essere pericoloso. Ebola ha ucciso i rapporti sociali oltre che le persone: prendersi cura dei propri figli, dormire con il proprio compagno o seppellire un parente poteva diventare una condanna a morte. Dopo avere inviato sul terreno centinaia di operatori umanitari e migliaia di tonnellate di materiale, MSF ha deciso di inviare a Monrovia un antropologo. Umberto ha provato a mettersi dall’altra parte, a guardare che cosa accadesse “oltre il muro del centro di trattamento”. Ha cercato di capire che cosa significasse per un uomo portare la propria moglie febbricitante in ospedale e non poterla più vedere, neppure da morta, accettando che venisse cremata senza averla baciata per l’ultima volta. Ha chiesto alle persone chiuse in casa, bloccate nei loro quartieri dai posti di blocco, senza poter più andare a scuola, al mercato o in chiesa, perché non si fidassero dei consigli diffusi in modo martellante delle trasmissioni radiofoniche. Perché, nonostante la legge marziale, le famiglie scappassero con il corpo di un parente defunto nascosto in macchina. Solo lo sforzo di governi, organizzazioni e istituzioni internazionali, ha potuto fermare l’epidemia. Quello che si è dimostrato però strategico è stato capire che per abolire i contatti fisici serviva coinvolgere le comunità. Solo il tempo dirà se l’immunità verso il virus acquisita dalle persone guarite sarà duratura; solo il tempo racconterà le conseguenze sociali di una malattia che “punisce l’amore”.

Luigi Montagnini è un medico anestesista-rianimatore. Dopo aver vissuto a Varese e Londra, oggi è a Genova, dove lavora presso l’Istituto Gaslini. Da diversi anni collabora con Medici Senza Frontiere.

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