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Economia / Opinioni

Disuguaglianze, il Piano nazionale di Draghi rischia di approfondirle

Puntare alla crescita del Pil, concentrando gli investimenti del Pnrr sulle realtà e sulle zone più attrezzate, rischia di approfondire il divario tra Nord e Sud, oltre che all’interno delle singole Regioni secondo il modello “grande è bello”. L’analisi di Alessandro Volpi

All’interno dell’ultima versione spedita a Bruxelles del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sembra davvero che non si ponga, a sufficienza, il grande tema della riduzione delle disuguaglianze. Ciò dipende, probabilmente, dalla necessità di fare presto nello spendere i fondi europei: è chiaro che impegnare e utilizzare 248 miliardi di euro entro il 2026 obbliga a fare leva sulle realtà più organizzate e strutturate, sia a livello territoriale sia a livello produttivo.

Questo dato collide però con alcune delle affermazioni che ispirano il Piano stesso. Mario Draghi ha elogiato la concorrenza come lo strumento in grado di incidere sul “benessere” dei cittadini e ha voluto che un simile principio fosse inserito a chiare lettere nel testo da mandare in Europa, ma la concorrenza, per essere tale, implica che tutti i concorrenti siano, in partenza, nelle stesse condizioni. In Italia, invece, non è affatto così.

Il reddito pro capite delle Regioni del Nord è più che doppio rispetto a quelle del Sud e, all’interno delle stesse Regioni, esistono differenze profonde da zona a zona e tra le diverse fasce di popolazione. Nel nostro Paese il 40% più povero della popolazione dispone solo del 19,7% del reddito complessivo. Sono chiare quindi due cose: i territori non partono dalle stesse condizioni e non basta far crescere il Pil. Bisognerebbe che tale crescita si legasse a una redistribuzione del reddito in grado di ridurre le disuguaglianze.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, al contrario, punta sulle realtà e sulle zone più attrezzate, rischiando quindi di approfondire le medesime disuguaglianze. Un rischio reso ancora più marcato dal ruolo cruciale attribuito agli enti locali come soggetti proponenti e attuatori dei progetti contenuti nel Piano stesso. Appare evidente, in una simile prospettiva, che le realtà territoriali più forti, e più grandi, otterranno la fetta dei finanziamenti maggiore e, soprattutto, sapranno tradurla in atto. Mentre le realtà più deboli, senza un vero aiuto alla loro capacità di progettazione e di attuazione, non saranno in grado di migliorare la propria condizione.

Peraltro uno schema come questo rischia di perpetuare il modello secondo cui “grande è bello”, che proprio la pandemia ha messo in profonda crisi. In questo senso puntare alla crescita del Pil in quanto tale e avviare riforme che facilitino la concorrenza senza rimuovere le cause che determinano la vittoria inevitabile dei più forti non consentiranno al Piano e, alle sue ingenti risorse, di superare le troppe discriminazioni presenti nel Paese.

A riguardo andrebbero forse tenute presenti anche altre considerazioni. Nel 1824 Charles Victor de Bonstetten ha scritto un testo (“L’homme du midi et l’homme du nord”) in cui illustrava gli effetti del clima sui comportamenti e sulle istituzioni degli uomini. A questo testo replicò, in difesa dei “mediterranei”, l’economista e intellettuale italiano Melchiorre Gioia nell’ambito di una disputa in cui gli agenti atmosferici e la socialità avevano un legame stretto e condizionavano gli assetti politici ed economici.

La pandemia sembra averci riportato a quel dibattito tanto acceso tra la fine del Settecento e la metà dell’Ottocento. Possono ripartire solo i locali all’aperto rendendo il clima un fattore decisivo delle sorti economiche delle varie zone (questa volta a chiaro vantaggio di quelle calde) e si consentono le manifestazioni in base al grado di socialità che esprimono: vanno bene quelle in cui l’emotività risulta più contenuta. In sostanza si torna a una società dominata dalle condizioni meteorologiche e dal temperamento. La scienza, di fronte alla paura, pare alimentare una dimensione remissivamente sottomessa all’assoluto primato della natura.

Alla luce di ciò si assiste, da un lato, a una “pianificazione” economica ben poco attenta alla riduzione delle disuguaglianze in nome di un ruvidissimo realismo; e dall’altro si confezionano regole quasi “deterministiche”. Troppo passato finisce così per pesare sul futuro.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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