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Dieci anni di definanziamento della sanità pubblica. Dato per dato
Tra 2010 e 2019 sono stati chiusi 173 ospedali e 837 strutture di assistenza specialistica ambulatoriale. Il personale sanitario è diminuito di 42mila unità. L’incidenza del settore privato è cresciuta. La fotografia della situazione
L’impreparazione della sanità italiana nella gestione della pandemia causata dal nuovo Coronavirus è emersa fin dalle prime settimane dallo scoppio dell’emergenza sanitaria, a inizio 2020. Per capire quali erano le condizioni del nostro sistema sanitario alla vigilia della crisi più dura dalla nascita del Servizio sanitario nazionale (Ssn) può essere utile guardare i dati dell’annuario statistico del Ssn relativi al 2019, pubblicati a metà giugno 2021 dal ministero della Salute.
Nel confronto con il 2010, questi dati mostrano i risultati di anni di definanziamento della sanità -37 miliardi di euro dal 2010 al 2019 secondo la Fondazione Gimbe– imposto dai vari governi che si sono succeduti. In dieci anni sono stati chiusi 173 ospedali e 837 strutture di assistenza specialistica ambulatoriale. Inoltre ci sono 276 strutture di assistenza territoriale pubbliche in meno (ma 2.459 private in più) e il personale dipendente del Ssn è diminuito di 42.380 unità. Di questi, 5.132 sono medici e odontoiatri e 7.374 infermieri.
Anche i posti letto nelle strutture di ricovero sono diminuiti. Secondo l’annuario in Italia, nel 2019, c’erano 3,5 posti letto ogni mille abitanti, in calo rispetto ai 4,1 del 2010. Per l’Eurostat, l’Italia è tra gli ultimi sette Paesi dell’Unione europea per numero di posti letto. La diminuzione degli ultimi anni è legata a una riprogrammazione degli standard dell’assistenza ospedaliera progettata dal governo del presidente del Consiglio Mario Monti nel 2012 -e resa operativa nel 2015- con il decreto sulla cosiddetta spending review, la revisione della spesa nel settore pubblico che ha stabilito il taglio del numero di posti letto ogni mille abitanti a 3,7.
A oggi questo standard non è garantito equamente su tutto il territorio italiano. Mentre quasi tutte le Regioni del Nord lo garantiscono -e superano-, tutte quelle del Sud a eccezione del Molise non lo raggiungono. “È un fenomeno che si è verificato in tutta Europa, giustificato dalla necessità di riorganizzare la sanità pubblica e diminuire gli sprechi. Ma il problema principale è che in Italia sono stati tagliati proporzionalmente più posti nel pubblico che nel privato”, spiega ad Altreconomia Marco Geddes da Filicaia, medico ed ex vicepresidente del Consiglio Superiore di Sanità. Nel 1997, sul totale di posti letto, quelli delle strutture private erano il 16,5%, nel 2019 sono saliti al 20,5%.
Nel 2010 il 46,4% delle strutture del Ssn erano pubbliche, nel 2019 sono calate al 41,4%. L’aumento del peso delle strutture private è avvenuto in maniera generalizzata, a prescindere dal tipo di assistenza offerta: in dieci anni gli ospedali pubblici sono passati dal 54,4% al 51,9%, le strutture pubbliche di assistenza territoriale residenziale sono diminuite dal 24,6% al 16,8%, quelle di assistenza territoriale semiresidenziale dal 37,2% al 28,9%. “Di conseguenza -continua Geddes da Filicaia- se aumenta il peso del privato, diminuisce l’offerta di attività assistenziali tipicamente garantite dal pubblico perché il privato ha un’attività di ricovero più programmata. Ad esempio non ha posti letto in settori come il centro ustioni o l’oncoematologia pediatrica e ha molti meno posti in terapia intensiva. Per questo di fronte all’emergenza Covid-19, molte Regioni come la Lombardia si sono trovate sotto-dotate in termini di posti letto in terapia intensiva”. E proprio la saturazione degli ospedali, con terapie intensive piene e interi reparti riconvertiti in reparti Covid-19 e sottratti ai pazienti con altre patologie, è stata una delle conseguenze più drammatiche della pandemia.
Nella fase pre-Covid-19, in Italia i posti letto disponibili in terapia intensiva erano 8,5 ogni 100mila abitanti. Quasi la metà di quelli che il governo ha poi stabilito essere, con il “decreto Rilancio” del maggio 2020, lo standard da raggiungere, cioè 14. Secondo i dati dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), l’obiettivo a livello nazionale è stato raggiunto ma ancora molte Regioni sono indietro.
“Una delle principali criticità legate alla riduzione dei posti letto in ospedale è che non è stata accompagnata da un rafforzamento delle strutture territoriali, e così tutto si è scaricato sugli ospedali -aggiunge Geddes da Filicaia-. Inoltre in Italia abbiamo ospedali poco flessibili che hanno dimostrato una certa rigidità di fronte alla possibilità di ampliamento in caso di emergenza. Ma a mio parere l’elemento più rilevante è la carenza di personale infermieristico e medico specialistico”.
“Una delle principali criticità legate alla riduzione dei posti letto è che non è stata accompagnata da un rafforzamento delle strutture territoriali” – Geddes da Filicaia
Dal 2010 il personale dipendente del Ssn -sanitario, professionale, tecnico e amministrativo- è diminuito del 6,6%. Medici e odontoiatri sono diminuiti del 4,8% mentre il numero di infermieri è calato del 2,8%. Si tratta di 12.506 unità di personale medico e infermieristico in meno. Il calo è avvenuto su quasi tutto il territorio nazionale ma le Regioni che più hanno sofferto una diminuzione di personale sono Liguria, Molise, Campania, Calabria e Lazio. In controtendenza invece Trentino-Alto Adige, Sardegna, Emilia-Romagna e Valle d’Aosta dove sia il personale totale sia nello specifico medici e infermieri sono aumentati rispetto a dieci anni fa. Secondo la relazione “Health at Glance: Europe 2020”, dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), ogni mille abitanti in Italia ci sono 5,7 infermieri, uno dei dati più bassi dell’Ue che in media ne ha 8,2. Geddes da Filicaia calcola che “per raggiungere lo stesso rapporto infermieri-popolazione che c’è in Francia e in Germania dovremmo assumere, rispettivamente, 219mila e 439mila infermieri”.
Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), il documento che illustra come si intendono spendere le risorse europee stanziate per il rilancio economico dell’Ue dopo la pandemia, sono stati finanziati interventi che mirano a contrastare alcune delle criticità emerse durante l’emergenza sanitaria. Si prevede ad esempio l’ammodernamento strutturale e tecnologico degli ospedali e il rafforzamento della sanità territoriale, con la realizzazione di case e ospedali di comunità. Questi interventi, secondo Geddes da Filicaia, rappresentano un passo avanti ma non possono bastare se non si prevede una programmazione di lungo periodo: “Una cosa è realizzare le strutture, un’altra è capire come queste verranno attivate. C’è bisogno di assumere personale per renderle operative e di formare questi professionisti. Interventi che necessitano di una programmazione nel prossimo decennio”. Il rischio è che il personale diminuisca ulteriormente nei prossimi anni se quello vicino alla pensione non verrà sostituito: nel 2010 la percentuale di medici di famiglia e di pediatri di libera scelta in servizio da più di 27 anni era rispettivamente del 54% e del 41%; nel 2019 il dato è salito al 78% e 79%.
Dello stesso parere è Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che durante un evento organizzato dal sito di informazione Valigia Blu sottolinea che senza un parallelo incremento del fabbisogno sanitario standard, cioè i soldi che ogni anno lo Stato mette sul piatto della sanità, difficilmente si riuscirà a far funzionare i progetti finanziati con i soldi del Pnrr: “L’assistenza domiciliare, gli ospedali e le case di comunità richiedono personale e questo personale fa parte della spesa corrente, non si può finanziare con i soldi del Pnrr”.
Eppure nel documento di economia e finanza del 2021, la previsione della spesa sanitaria per i prossimi anni è data in calo. In termini di percentuale sul Prodotto interno lordo, la spesa sanitaria passerà infatti dal 7,3% del 2021, al 6,7% del 2022, 6,6% del 2023 fino al 6,3% del 2024. Secondo il governo, il calo è giustificato dal “venir meno nel 2022 di buona parte dei costi programmati per contrastare l’emergenza sanitaria”. Ma per Geddes da Filicaia è la dimostrazione della mancanza di una strategia di investimenti sulla sanità pubblica di lunga durata: “Il rischio è che se facciamo questi investimenti e non diamo continuità, molti servizi finanziati con il Pnrr oggi, come le case della comunità o l’assistenza domiciliare, un domani non funzioneranno o saranno appaltati ai privati e ai sistemi assicurativi”.
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