Esteri / Reportage
Diario di un medico in prima linea nell’infinita guerra irachena
Il lungo viaggio per arrivare a Mosul, enclave in territorio curdo, seconda per abitanti -2 milioni- solo a Baghdad. Da ottobre 2016 la città è teatro di scontri che fanno vittime soprattutto tra i civili: “Ecco perché siamo venuti qui”
Sono atterrato a Erbil, nel Kurdistan iracheno, alle 2.30 di notte dell’8 maggio scorso, dopo uno scalo infinito a Istanbul. È una zona politicamente tranquilla (Daesh avrebbe voluto arrivare fino a qui, ma è stato fermato dalla resistenza peshmerga), dove risiede il coordinamento dei due progetti che abbiamo a Mosul. Ho stazionato a Erbil un paio di giorni. Speravo di poter raggiungere Mosul l’indomani, ma invece ho dovuto aspettare due giorni, a causa di “security issues”: per arrivare alla mia destinazione finale bisogna infatti percorrere qualche decina di chilometri e, soprattutto, bisogna entrare in territorio iracheno, in quanto Mosul è un’enclave irachena all’interno del Kurdistan. Ci sono stati segnalati possibili attentati suicidi lungo il percorso e abbiamo ridotto il numero di spostamenti tra Erbil e Mosul. Ne ho approfittato per dormire (non c’è stata soluzione di continuità tra il mio lavoro a Genova e la partenza), per mangiare (ho provato un paio di ristoranti strepitosi di autentico street food curdo) e soprattutto ho iniziato i colloqui, che termineranno a Mosul, in cui mi sono stati illustrati contenuto e obiettivi.
Qualcuno dice che Mosul sia la seconda città dell’Iraq, dopo Baghdad, qualcuno dice sia la terza. Quello che è certo è che è una grande città, di circa un milione e mezzo-due milioni di abitanti. Le dimensioni della città e la posizione strategica nel nord dell’Iraq, hanno reso Mosul una meta ambita per Daesh o Isis, che ha fatto della costruzione del Califfato a cavallo tra Siria e Iraq il suo progetto politico e che proprio a Mosul ha ne proclamato la nascita. Isis significa appunto “Islamic State of Iraq and Syria” e dalla Siria, dove è nato, si è spinto a Est, portando davanti a sé folle di profughi in fuga. Che cosa sia l’Isis e come abbia fatto a prendere potere è una questione che richiede di capire che cosa fosse l’Iraq prima delle due invasioni degli USA e alleati, che cosa ne sia stato dopo, i rapporti di forza tra popolazione sunnita e militari sciiti, il ruolo dei Curdi e del loro esercito Peshmerga, il caos siriano, le pressioni dei Paesi limitrofi, primi tra tutti Iran e Turchia, e i convitati di pietra, Russia e Stati Uniti soprattutto.
Nulla, in realtà, dice in modo convincente che siamo in guerra. Fino a quando compaiono in lontananza appezzamenti immensi ricoperti da tende bianche. Campi profughi. Famiglie scappate dal terrore
Quello che è certo è che nel 2014 Isis conquista in poche settimane Falluja, Mosul e Tikrit, impossessandosi di quantitativi enormi di armi lasciati sul terreno dall’esercito iracheno in fuga e arricchendosi con i pozzi di petrolio del Nord dell’Iraq. La strategia è nota: occupa, distruggi, uccidi, terrorizza, prendi il bottino, fai proseliti e via verso la meta successiva.
Dal 1992, con la nascita del Governatorato del Kurdistan iracheno, esercito iracheno e peshmerga curdi hanno perseguito interessi diversi, ma, a un certo punto, hanno capito che non c’era scelta: messe da parte le diffidenze reciproche, si sono alleati e hanno iniziato a riprendersi, città dopo città, i territori rubati dall’Isis.
Lo scorso mese di ottobre, dopo più di due anni di occupazione, le forze alleate hanno iniziato la battaglia per la riconquista di Mosul. Hanno liberato quartiere per quartiere, scovato cellule di miliziani casa per casa e ripulito dai cecchini strada per strada. All’esercito iracheno e ai suoi compagni rimane da fare un ultimo sforzo, la zona del centro storico a ovest del Tigri. Dicono che il governo voglia farla finita una volta per tutte e riprendersi Mosul in due settimane. Non esiste alcuna operazione chirurgica: si va di mitragliatrici, granate e mortai. Nessuno sa con certezza quante persone siano intrappolate nella morsa della battaglia. I civili hanno già pagato a carissimo prezzo l’occupazione prima e la liberazione adesso. Pagheranno ancora nei prossimi giorni e per questo motivo siamo venuti qui.
La novità più interessante, rispetto ad altre missioni che ho svolto con Medici senza Frontiere, è che siamo all’interno di una rete di ong coordinate dal ministero della Salute per fornire aiuto nel curare le vittime civili della guerra. I feriti vengono smistati in base alla loro gravità, in base alla distanza dal fronte e in base alle competenze sviluppate da ogni singolo centro. Il mio ospedale si occupa di “codici rossi”, cioè di pazienti che necessitano di cure salvavita. A distanza di 24-48 ore vengono trasferiti in altri ospedali dove possono essere sottoposti a nuovi interventi chirurgici, continuare le cure, affrontare la riabilitazione ed, eventualmente, la protesizzazione. A Erbil ho anche visitato l’ospedale di Emergency, dove vengono trasferiti molti dei nostri pazienti operati a Mosul, e dove ho trovato grande professionalità e collaborazione. Soprattutto, ho avuto modo di ritrovarmi, di riassaporare nella mente i riti rassicuranti di ogni partenza che avevo trascurato nelle frenetiche ore prima del volo: l’apertura della scatola dove ripongo le magliette bianche con il logo di MSF al termine di una missione, la preparazione dello zaino, la scelta dei libri da leggere, l’acquisto dei regali per i colleghi (un salame e un pezzo di parmigiano). Piccoli gesti che mi aiutano a recuperare una dimensione di essenzialità che è uno stile clinico prima ancora che un’attitudine personale.
Poi, finalmente, si parte. In macchina, quattro passeggeri più l’autista: un altro collega anestesista, un logista già da diverse settimane a Mosul e che vi fa ritorno dopo tre giorni di riposo a Erbil e un biomedico che si dovrà occupare dell’installazione del nuovo apparecchio di radiologia.
Viaggio emozionante attraverso la “mezzaluna fertile”, lungo il corso del Tigri, che traccia una corridoio verde di vegetazione in mezzo al deserto grigio di pietre. Ragazzi che pascolano pecore lanose. Villaggi polverosi colorati dai banchetti dei fruttivendoli allineati lungo la strada.
A metà strada scambio di macchina con l’équipe che sta uscendo. Incontro la collega anestesista che sostituirò. Ci parliamo per una decina di minuti, mi spiega velocemente alcune problematiche tecniche riscontrate: è molto stanca e il sole, che a quell’ora inizia a essere bollente, non aiuta.
Ripartiamo. Case di pietra che si mimetizzano con il paesaggio: molte sono solo scheletri abbandonati a metà della loro costruzione, alcune sono distrutte, ma non si capisce se per l’incuria o per una bomba. Fori di pallottole nei muri, ma non è dato sapere a quale guerra risalgano. Check point frequenti con soldati svogliati avvolti nello loro divise tecnologiche.
Nulla, in realtà, dice in modo convincente che siamo in guerra.
Fino a quando compaiono in lontananza appezzamenti immensi ricoperti da tende bianche. Campi profughi. Famiglie scappate dal terrore. Quello illustra meglio di tante altre immagini che cosa stia succedendo qui.
Le strade si fanno più trafficate, le case si addensano, fiumi di studentesse che escono da scuola indossando il loro velo nero. Una fila di autobus parcheggiati al bordo della strada, un autista sta dormendo su un tappeto disteso nel bagagliaio: mi dicono che siano i mezzi utilizzati per spostare i profughi in fuga. Siamo ad Hammam Al-Alil, una ventina di chilometri a sud di Mosul. Fino a qualche mese fa era sotto occupazione dell’Isis e i segni di pallottole nei muri (che ritroverò anche all’interno della mia camera) testimoniano i combattimenti che si sono svolti. La città si sta riprendendo lentamente dopo che tutte le sue infrastrutture principali erano state distrutte.
Infine dei blocchi di cemento, un muro alto, un cancello bianco con il logo rosso a me famigliare: il mio ospedale. Lo abbiamo parcheggiato qui lo scorso febbraio, per la vicinanza al fronte. Ora i combattimenti si sono allontanati, ma rimaniamo il primo centro chirurgico operativo a sud di Mosul, lungo l’unico corridoio di evacuazione praticabile.
Abbiamo parcheggiato l’ospedale, sì, perché il cuore di questo accampamento è una sala operatoria montata all’interno di un TIR enorme. Sono quattro container: sala operatoria, centrale di sterilizzazione, terapia intensiva e farmacia. Attorno tende destinate a Pronto soccorso, decontaminazione per eventuali attacchi chimici, degenze, ricovero per i parenti. Le degenze sono divise per sesso, ma una tenda è stata riservata alle famiglie: capita frequentemente di ricoverare membri della stessa famiglia feriti nello stesso momento.
1,5 milioni, forse 2: Mosul è la seconda città irachena, dopo Baghdad. A maggio 2017 l’esercito governativo -con l’appoggio della coalizione internazionale guidata dagli Usa- ha sferrato un “attacco finale” ai combattenti di Daesh che occupavano la città
Finisce il tempo della preparazione, inizia il tempo dell’azione. Ore di sala operatoria, casi difficili e casi semplici, perché non sempre le urgenze richiedono diagnosi articolate o trattamenti complessi. Un team che imparerò a conoscere, con potenzialità interessanti di interazione. Ritmi sostenuti ma condivisi. C’è sempre qualche bimbo nei cui occhi ritrovare il sorriso. Tante cose diverse rispetto alla quotidianità di un anestesista in Italia, tante cose uguali: non c’è nessuna differenza di cultura o di latitudine quando devi dire a un papà che suo figlio è morto mentre tentavi di salvargli la vita in sala operatoria. Quel padre che dignitosamente ti ha affidato suo figlio, a cui hai messo una mano sulla spalla e che hai rassicurato con un sorriso. Lo stesso padre a cui, dopo sudore e maledizioni, vai incontro per dirgli che non ce l’hai fatta a restituirgli il figlio vivo. Ecco, quel padre, quello è uguale. Sempre. Quello sguardo in cui improvvisamente si spegne la luce, quello sguardo è uguale in ogni Paese del mondo.
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