Altre Economie / Reportage
Detroit rinasce così: orti urbani, fab lab e una nuova cultura del lavoro
Ad aprile 2016 la capitale del Michigan, storica sede della Ford, ha ospitato il primo Forum nordamericano dell’economia sociale solidale. È stata l’occasione per conoscere le iniziative comunitarie che ne fanno un laboratorio del futuro
Le superstrade a 6 corsie che circondano e attraversano la città una volta dovevano essere molto trafficate: oggi sono per lo più vuote. Detroit, Michigan, storica sede della “triplice” automobilistica (Ford, GM e Chrysler), è la città che meglio rappresenta la profonda ferita che ha colpito il Sogno americano. Qui è forte l’evidenza fisica dell’abbandono e della devastazione: interi palazzi vuoti, case bruciate, strade inagibili in buona parte delle periferie e del centro, edifici storici chiusi e pericolanti. Nel 2013, Detroit ha presentato istanza di bancarotta, con un debito stimato di 7 miliardi di dollari. Da povertà, disperazione, inquinamento e marginalizzazione, però, sono emersi negli anni gruppi di cittadini attivisti (“grassroots”), dando vita a progetti e movimenti che stanno rivitalizzando la comunità. Per conoscerlo, Rich Feldman, che dopo aver lavorato alle catena di montaggio dell’industria automobilistica per 30 anni, facendo il sindacalista, è instancabile leader del movimento di giustizia sociale, organizza un tour a bordo di uno scuolabus giallo degli anni Sessanta, “from Growing our economy to growing our souls” (dal far crescere la nostra economia al coltivare le nostre anime). Si attraversa l’“Hope District”: il quartiere della speranza ospita la fabbrica artigianale di patatine “Detroit friends potato chips”, che ha dato lavoro a molti giovani. Qui negli anni Ottanta si avviò la diffusione del crack, ma la comunità seppe reagire con le marce contro le “crack houses” e l’istituzione di Zone di Pace (per arrivare a risolvere i conflitti senza ricorrere alla polizia, considerata un “esercito d’occupazione”), dalla Detroit Summer e la Boggs School for Manual Arts (che prende il nome da James e Grace Lee Boggs, anime storiche del movimento americano per la giustizia sociale), forme alternative di educazione che hanno cresciuto generazioni di leader di comunità. Ed ha funzionato.
Il tour finisce nel cuore della East Side di Detroit, nei due isolati occupati dall’Hidleberg project: l’artista Tyree Guyton ha recuperato oggetti di uso quotidiano per creare un’area piena di colore, simbolismo e dimostrare il potere della creatività per trasformare la vita. Marciapiedi, alberi ed edifici raccontano in maniera estremamente vivace gli effetti della globalizzazione: ci sono le barche dei profughi sul prato, 10mila scarpe a rappresentare i cittadini che hanno perso la casa, un Humvee (il SUV corazzato) installato nel 2010 durante l’US Social Forum a simboleggiare il militarismo. Dentro ci è cresciuto un albero.
Chi ha chiaro un piano e una visione del futuro a lungo termine è senz’altro Blair Evans, direttore e mente dell’Incite focus, il primo “fab lab” di Detroit. Situato all’interno del Samaritan Center, questo laboratorio di “makers” è ben più di una “falegnameria hi-tech”. Ingegnere elettronico, Evans è insegnante di Fabbricazione digitale (presso il Massachusetts Institute of Technology) e istruttore certificato di permacultura, e ha ideato vari modelli d’impresa sostenibile per la produzione su base comunitaria, con partecipazioni miste pubblico-privato-no profit. Il piano di Evans e dei suoi collaboratori prevede la formazione continua di giovani e disoccupati al lavoro del futuro, la fabbricazione a livello locale e micro-industriale (con stampanti 3D e tecnologie simili, auto-riproducibili e “open”) di tutto quello di cui possiamo avere bisogno, con risorse e materiali il più possibili reperiti a “km0”. Le aree di lavoro sono principalmente tre: l’ambiente naturale (attraverso forme di bio-mimesi, agroecologia e tecnologie appropriate), l’ambiente costruito (con la fabbricazione digitale) e l’ambiente invisibile (ovvero l’organizzazione delle strutture sociali, economiche e politiche di una comunità). La sperimentazione prevede, ad esempio, la costruzione di case con materiali prodotti in Fab Lab, autosufficienti per gran parte delle necessità (energia elettrica, riscaldamento, acqua e gestione residui, orticoltura…) e in rete. Per il 2017 è previsto un primo Fab-co-working center di quartiere; per il 2020 un Fab Village; per il 2030 un Fab District e infine, per il 2054, la trasformazione di Detroit in Fab City…
In molti, intanto, credono che la rivoluzione passi per la capacità di produrre il proprio cibo. “We cannot free ourselves until we feed ourselves” (non ci possiamo liberare fintanto che non siamo capaci di nutrirci autonomamente) è lo slogan coniato da Gerald Hairston, fondatore dei Gardening Angels (gli angeli degli orti), un movimento intergenerazionale e interculturale che ha “piantato i semi della speranza”, coivolgendo centinaia di individui e gruppi di vicinato a crearsi il proprio orto sociale: orti dei ragazzi, orti di scuola, orti d’ospedale, orti degli anziani, orti del benessere, orti di parrocchia. Durante il tour della città si visita “Feedom-Freedom Growers” (nutrire i coltivatori di libertà), un progetto che ha come scopo quello di combattere l’obesità di molti ragazzi facendogli coltivare il proprio cibo, oltre ad organizzare mercatini della salute e feste di quartiere. Gli orti familiari sono migliaia, e seicento quelli comunitari: l’agricoltura urbana sta cambiando il volto della città e coinvolge giovani da tutti gli Stati Uniti. Naim Edwards è uno di questi. Giovane eco-biologo afroamericano, dalla Pennsylvania si è trasferito a Detroit da un anno. Mi ospita a dormire presso la sede della sua associazione, Voices for Earth Justice, che è anche la sua casa. Prima ci ha accompagnato per quartieri semi-abbandonati, dove spuntano orti e serre. Quello che gestisce, con tecniche agroecologiche, è condiviso.
“New work, new culture” è invece un movimento nato da una “conversazione” di anni tra alcuni degli storici attivisti di Detroit, come Grace Lee Boogs, Frithjof Bergmann, Rick Feldman e Frank Joyce. Bergmann, in particolare, ne è l’anima filosofica (ex professore di filosofia dell’Università del Michigan): un simpatico signore su una sedia a rotelle che di sè dice di esser stato “contadino per tre periodi della mia vita” e quindi sa “bene cosa significhi vivere sulla terra e della terra”. Nel seminario del Forum che ha introdotto, ha spiegato che “stiamo vivendo un cambiamento epocale: l’idea che abbiamo oggi del lavoro è esistita solo negli ultimi duecento anni, e costringe gli individui a fare quello che ‘devono’ fare, non quello che ‘vogliono’.
Al Forum l’hanno celebrata, a partire dalle magliette con il suo slogan: “(r)Evolution”. Nel suo ultimo libro, postumo, scrive: “La prossima Rivoluzione americana non riguarda […] rendere possibile a più persone di realizzare il sogno americano di mobilità verso l’alto. Si tratta di creare un nuovo sogno americano che abbia come obiettivo un’umanità più alta, invece di uno standard di vita più alto ma dipendente dall’Impero. Si tratta di praticare un nuovo, più attivo e partecipatorio concetto di cittadinanza”.
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