Economia / Opinioni
Dalle imposte di successione ad Amazon. La giustizia fiscale non abita qui
All’immobile distribuzione della ricchezza contribuisce la sostanziale assenza di un prelievo fiscale sulle eredità. Così come la folle “concorrenza fiscale” sviluppata anche dai Paesi europei. Il “caso Amazon” insegna. L’analisi del prof. Alessandro Volpi
Le “ingiustizie” fiscali risultano sempre meno tollerabili. In molte città italiane se si confrontasse la lista dei primi 100 cittadini ricchi con quella di 100 o 200 anni fa non si troverebbero grandi differenze. Esiste, infatti, un marcato immobilismo nella distribuzione delle fortune che dipende certo da numerosi fattori ma a cui contribuisce, almeno in parte, la sostanziale assenza di un prelievo fiscale sulle eredità.
Un recentissimo rapporto dell’Ocse ha messo in luce con chiarezza che, in termini generali, le imposte di successione e sulle donazioni sono state significativamente ridotte, come del resto è avvenuto per l’intero prelievo fiscale nei confronti dei ceti più abbienti. Nel 1970 tale prelievo su successioni e donazioni era pari all’1% del gettito complessivo dei Paesi Ocse, oggi non si arriva allo 0,5%.
Ma il caso italiano presenta aspetti assai più eclatanti; il nostro Paese ha una delle soglie di esenzione più alte, pari ad un milione di euro, e l’aliquota più bassa, fissata al 4%. In Francia, le aliquote vanno dal cinque al 45%, in Spagna dal tre al 35%, negli Stati Uniti, con soglie di esenzione più alte, si arriva al 40% e in Germania l’aliquota si muove tra il 20 e il 40%. Peraltro è bene notare che in Italia l’aliquota è stata fissata al 4% sulla base della stima del costo che dovrebbe sopportare chi intendesse trasferire all’estero le proprie ricchezze all’estero per sottrarle al fisco italiano.
In altre parole, l’aliquota italiana fa concorrenza ai paradisi fiscali, scendendo sul loro piano.
L’effetto di tutto ciò è duplice; da un lato il gettito che il fisco italiano ottiene dall’imposta di successione non arriva allo 0,2% del gettito totale contro l’1,5% della Francia e lo 0,7% della Gran Bretagna, dall’altro si favorisce il già ricordato perpetuarsi della concentrazione della ricchezza nelle stesse mani per generazioni. Forse bisognerebbe rispolverare la lezione di Luigi Einaudi che riteneva l’imposta di successione uno degli strumenti più importanti della giustizia fiscale.
Del resto, il quadro complessivo in materia di fisco è sempre più cupo. Nel 2020, tragico anno pandemico, le multinazionali hanno spostato profitti per quasi 1.400 miliardi di dollari nei paradisi fiscali, provocando così una perdita diretta di gettito fiscale per 245 miliardi a più Paesi. Ma il dato ancora più sconcertante è costituito dal fatto che la “concorrenza fiscale” tra i vari Stati, che hanno voluto essere più “attraenti” degli stessi paradisi fiscali, ha causato una perdita di gettito agli stessi Paesi di quasi 1.000 miliardi di dollari.
In pratica una montagna di denaro di poco inferiore al Pil italiano del 2020 è stata sottratta al fisco di vari Paesi, in gran parte per responsabilità degli Stati stessi, impegnati in una costante riduzione delle aliquote societarie, crollate in pochissimi anni di 15-20 punti percentuali, e in una folle concorrenza reciproca al ribasso. Solo per aggiungere un elemento, basta ricordare la vicenda delle criptovalute, ancora prive di normativa regolatoria e con una sola piattaforma quotata al Nasdaq.
E poi c’è il “paradosso” Amazon. Come fa un colosso che fattura 44 miliardi di euro in Europa a non pagare, praticamente, imposte? La risposta è rintracciabile in uno schema fiscale che, apparentemente, è molto semplice. Esiste una società di diritto lussemburghese, la Amazon Europe Holding Technologies SCS (AEHT) che ha il diritto legale di utilizzare la proprietà intellettuale di Amazon al di fuori dei confini degli Stati Uniti. Dal momento che si tratta di una realtà giuridica, prevista dall’ordinamento del Lussemburgo, denominata “non-resident partnership“, qualsiasi somma ricevuta da altre società del gruppo Amazon in cambio del diritto di utilizzare tale proprietà intellettuale è esente da imposte in Lussemburgo.
Esiste poi una seconda società, Amazon EU Sarl, che gestisce le attività europee di Amazon e che paga alla AEHT centinaia di milioni di euro in “diritti di autore” per la proprietà intellettuale di intangibles sfruttati dalle società operative. Il costo dei canoni è deducibile dal reddito e va ad abbassare il reddito imponibile di questa società, e quindi la sua tassazione effettiva, che di fatto, per effetto delle perdite dovute ai pagamenti, non esiste. Il passaggio finale della strategia prevede il trasferimento dei canoni da AEHT alla società statunitense di Amazon, per le commissioni legate al diritto di concedere in licenza tale proprietà intellettuale in Europa.
In altre parole, un Paese europeo permette che esista una società a cui vengono versati miliardi di euro senza che paghi imposte e che un’altra società, quella “reale”, gli versi miliardi di euro in canoni per abbattere artificialmente i propri profitti e quindi non pagare imposte. Alla fine della fiera, i proventi dei canoni tornano negli Stati Uniti. In pratica uno dei più grandi monopolisti del mondo opera nell’Unione europea senza versare un euro grazie alle regole di un Paese europeo. Non male.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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