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Esteri / Reportage

Dal genocidio a uno sviluppo d’élite. Il prezzo della ripartenza del Ruanda

In apertura alcuni giovani si divertono giocando a dama in uno dei villaggi attorno al Parco nazionale dei Vulcani in Ruanda. Molti di loro lavorano come guardie o portatori, oppure hanno aperto piccoli negozi per i turisti © Antonio Oleari

A trent’anni dai massacri il Paese vuole rilanciare la propria immagine. I parchi attraggono visitatori da tutto il mondo e fioriscono progetti di conservazione. Ma le ombre non mancano, come dimostra il patto anti-migranti con Londra

Tratto da Altreconomia 271 — Giugno 2024

Quando tutto iniziò, il 6 aprile 1994, Gilles Mugabe era uno studente di 19 anni. Lui e la sua famiglia tutsi trovarono ospitalità presso la casa di amici hutu: vivevano nascosti sapendo di mettere a rischio la loro vita e anche quella di chi li stava aiutando. Così iniziarono a spostarsi finché il papà di Gilles invitò la famiglia a separarsi, quando la morsa del massacro sembrava stringersi. “Diceva che era pronto a morire -racconta Gilles-, ma non a veder morire i propri figli, così ci lasciò andare”. Rivide i suoi genitori solo sei mesi dopo la fine del genocidio, ma all’appello mancavano fratelli e cugini.

In soli cento giorni le milizie paramilitari di etnia hutu avevano sterminato quasi un milione di tutsi con il supporto dell’esercito governativo. “Un odio covato per anni nel tentativo di applicare una categoria etnica a delle classi sociali stabilite dai colonialisti europei -riprende Gilles-. Ma era difficile per chiunque, senza conoscere la famiglia di provenienza, dire se uno era hutu oppure tutsi”. Nel 1933 però i belgi introdussero l’indicazione dell’etnia sulla carta d’identità. “Un errore enorme -sottolinea l’uomo-. Durante il genocidio, ai posti di blocco, guardavano i documenti per decidere se uccidere o lasciar passare. Se non avevi il documento (e molti lo buttavano) eri considerato sospetto, perciò dovevi pagare per non essere ucciso”.

Oggi in Ruanda, soprattutto tra i più giovani, le parole hutu e tutsi non hanno più alcun significato. Non si tratta di rimozione, anzi, il genocidio non è un tabù e se ne parla molto. “Ci sono ancora tante persone in prigione e molte ne sono uscite. Le condanne hanno cercato di essere eque, anche se i sopravvissuti avrebbero voluto fossero più rigide. Il clima di riconciliazione puntava a ricostruire la società anche da qui”. Da alcuni anni Gilles ha trovato lavoro come driver per un importante operatore turistico. Mentre racconta è alla guida di un grosso suv tra le colline che brillano per le foglie di tè. Le strade principali, disseminate di autovelox, sono asfaltate e in ottimo stato tanto che nel 2025 ospiteranno persino i mondiali di ciclismo su strada. Fa tutto parte del progetto di modernizzazione e apertura del presidente Paul Kagame, colui che liberò il Paese, nell’estate del 1994, alla guida dell’esercito del Fronte patriottico ruandese. Ed è lui, dal 2000, il padrone indiscusso: rieletto per tre volte, il suo atteggiamento ha fatto spesso discutere.

Da una parte il programma per lo sviluppo del Ruanda come Paese a reddito medio entro il 2020 ha avuto i suoi successi, tant’è che già nel 2017 la Banca mondiale lo classificava come secondo miglior Stato d’Africa per fare impresa; dall’altra però si è riscontrata una repressione del dissenso che in alcuni momenti ha sfiorato la dittatura. Come quando nell’agosto del 2020 Kagame fece arrestare e processare per terrorismo Paul Rusesabagina, l’eroe che durante il genocidio aveva accolto nell’hotel che dirigeva a Kigali 1.200 persone salvandole dalla morte (la sua storia ispirò il film “Hotel Rwanda”). Condannato a 25 anni di reclusione, è stato graziato nella primavera del 2023.

Tra i settori su cui Kagame ha puntato di più per rilanciare l’immagine del Paese c’è senza dubbio il turismo d’élite: concessioni, accordi con importanti operatori e una vasta campagna di marketing che ha portato il marchio “Visit Rwanda” sulle magliette di importanti squadre di calcio come Arsenal, Bayern Monaco e Paris Saint-Germain. Nel 2023 i ricavi del settore hanno toccato i 620 milioni di dollari per un totale di 1,5 milioni di visitatori annui. Al centro del rilancio ci sono politiche green e successi di salvaguardia ambientale: tra i più significativi e recenti c’è quello dell’Akagera national park, una grande area di savana e pianure alluvionali al confine orientale con la Tanzania.

Un gorilla e una delle guardie del parco nazionale © Antonio Oleari

Dopo il genocidio la sua superficie dovette diminuì di oltre mille chilometri quadrati per fare spazio ai profughi di ritorno dalle nazioni vicine. Agricoltura e allevamento portarono la fauna selvatica a ridursi sempre di più finché nel 2000 l’ultimo degli oltre 250 leoni presenti prima del genocidio scomparve. Dal 2009 sotto l’egida della Ong sudafricana African Parks è iniziata la ripartenza: reintroduzioni periodiche di animali hanno ripopolato l’area e l’ultima, nel 2021, ha riportato persino un gruppo di 30 rinoceronti bianchi. C’è poi il Parco nazionale Nyungwe, culla degli scimpanzé, che lo scorso anno è stato dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Ma il parco più visitato della nazione è senza dubbio il Volcanoes national park, sui monti Virunga, un’area verde lussureggiante costellata dai crateri di ben cinque vulcani al confine con Uganda e Repubblica Democratica del Congo.

Turisti di ogni lingua e nazionalità giungono qui per un solo motivo: incontrare i gorilla di montagna, primati molto rari e considerati in pericolo di estinzione. Da sempre minacciati dai bracconieri, la loro situazione divenne ancora più critica con il genocidio: migliaia di profughi in cerca di pascoli e terre da coltivare devastarono la foresta ed entrarono in conflitto con gli animali. “Oggi è tutto diverso -afferma fiero Prosper Uwingeli, da 17 anni direttore del Parco-. La popolazione ha trovato nella conservazione della natura un obiettivo comune per riconciliarsi”. I progressi sono evidenti: nel 2003 il Parco contava cinquemila visitatori all’anno e si potevano vedere solo cinque gruppi di gorilla, che oggi sono invece 12 con oltre 40mila ingressi. I biglietti costano 1.500 dollari a persona, per nulla alla portata di un normale turista. “Ne siamo consapevoli ma solo così possiamo contenere le presenze giornaliere e continuare il nostro progetto di conservazione -precisa Uwingeli-. Il 10% delle entrate viene utilizzato per progetti di aiuto alla comunità locale: nuovi pozzi di acqua potabile, scuole, e servizi. Così la comunità risponde positivamente, capisce l’importanza di questi animali ed è sempre più disponibile a cedere le proprie terre per contribuire alla riforestazione”.

Tra l’aprile e il maggio del 1994 il Ruanda fu devastato dal genocidio durante il quale le milizie hutu sterminarono circa un milione di tutsi. Qui sopra una coltivazione di tè © Antonio Oleari

Un contributo essenziale è dato poi dalle iniziative private come quella della Dian fossey gorilla fund, nata in memoria della celebre zoologa e ricercatrice statunitense che su queste montagne lasciò la vita per proteggere i gorilla (alla sua vicenda è ispirata la pellicola hollywoodiana “Gorilla nella nebbia”). Negli anni la fondazione è cresciuta molto anche grazie a importanti lasciti. Nel 2022, ad esempio, la conduttrice televisiva americana Ellen DeGeneres ha finanziato la costruzione di un campus di ricerca che oggi porta il suo nome ed è anche sede di un museo interattivo e multimediale sui gorilla di montagna, visitato da quasi 30mila persone nel 2023.

Siamo nel villaggio di Kinigi, a poche centinaia di metri dall’ingresso del Parco nazionale, dove ogni anno a settembre la popolazione di tutta l’area si riunisce per il kwita izina, la grande festa di ringraziamento per la nascita dei piccoli di gorilla. Partecipano il presidente in persona, il primo ministro e le più importanti personalità del Paese, oltre che autorevoli ospiti internazionali chiamati a diventare ambasciatori dei gorilla nel mondo. Lo scorso settembre, sul grande palco sopra cui giganteggia una famiglia di primati realizzata con paglia intrecciata, tra i padrini e le madrine dei 23 cuccioli c’erano l’attore Kevin Hart, la leggenda dell’Arsenal Sol Campbell ma anche il ministro degli Affari esteri inglese Andrew Mitchell.

370 milioni di sterline entreranno nelle casse del Ruanda a seguito dell’accordo quinquennale che permetterà al Regno Unito di deportare i migranti irregolari nel Paese africano

Sono proprio i rapporti tra Ruanda e Regni Unito ad aver fatto discutere negli ultimi mesi la stampa di tutto il mondo: dopo un iter durato anni, il 22 aprile 2024 il parlamento inglese ha definitivamente approvato la legge che permette a Londra di deportare i migranti irregolari in Ruanda, in cambio di 370 milioni di sterline in cinque anni. E un’intesa simile è già stata trovata anche con la Danimarca. Per molti il presidente userebbe gli accordi sui profughi per mantenere buoni rapporti con i Paesi ricchi disposti a sorvolare sulle violazioni dei diritti umani commesse nei campi ruandesi.

Intanto si avvicinano le elezioni presidenziali, previste per il 15 luglio, con Kagame che si candida al quarto mandato consecutivo. Tra gli avversari non ci sarà Victoire Ingabire, esponente dell’opposizione condannata nel 2013 a 15 anni di carcere per “cospirazione contro le autorità attraverso il terrorismo e la guerra”. Nel 2018 è stata graziata ma, lo scorso marzo, il ricorso per riottenere i diritti civili è stato respinto e Ingabire non potrà candidarsi. Dopo anni di crescita, il Ruanda dovrà scegliere se affiancare ai suoi successi anche la trasparenza e una sana alternanza di governo.

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