Esteri / Approfondimento
Dai generali alle violazioni dei diritti umani: i passi del colpo di Stato in Myanmar
Il primo febbraio 2021 si è consumato il quarto colpo di Stato negli ultimi 60 anni di storia del Paese. Dalla formazione della casta dei generali alla repressione delle libertà e del dissenso fino al ruolo della Cina, una ricostruzione del contesto cura di Renzo Garrone, fondatore di RAM Viaggi, storico operatore di turismo responsabile nell’area
Nelle città della Birmania continuano le proteste contro il colpo di Stato avvenuto lo scorso primo febbraio, quando l’esercito ha preso il potere e nella capitale Naypyidaw ha arrestato i principali leader del partito di maggioranza tra cui Aung San Suu Kyi, a capo della Lega nazionale per la democrazia (Nld) vincitrice delle elezioni di novembre 2020. A guidare il golpe è stato il capo delle forze armate birmane, il generale Min Aung Hlaing, che ha dichiarato un anno di stato di emergenza. L’esercito sta reprimendo con violenza le manifestazioni, che vedono scendere in strada decine di migliaia di persone, anche utilizzando proiettili veri contro chi protesta, come denunciato dalle organizzazioni in difesa dei diritti umani.
Quello del primo febbraio 2021 è il quarto colpo di Stato del Paese in 60 anni. Nell’ultimo decennio, dopo 50 anni di regimi militari (dal 1962 al 2011), le Forze armate locali (Tatmadaw) avevano aperto a un governo ibrido, formato da civili e militari. All’epoca, quasi increduli, in tanti ci eravamo chiesti perché l’esercito avesse accettato di lasciare tutto il potere che continuava ad avere. Dal 1988 in poi Aung San Suu Kyi, la “Lady” della politica birmana, era rimasta a capo dell’opposizione: 15 di questi anni li aveva passati agli arresti domiciliari, costretta dai generali affinché non nuocesse loro, diventando nel frattempo un’icona mondiale del movimento per i diritti umani. Poi dopo la vittoria elettorale nel 2016, la sua Lega nazionale per la democrazia era arrivata a formare un proprio esecutivo, seppure insieme all’esercito. Nelle elezioni dello scorso novembre, Nld ha ottenuto l’83% dei seggi, lasciando al palo la fragile coalizione di piccoli partiti sostenuta dai generali che hanno iniziato a parlare di brogli. “Sebbene qualche irregolarità sia stata rilevata -scrive l’organizzazione Human Rights Watch-, gli osservatori indipendenti del Global Network of Domestic Election Monitors hanno dichiarato che i risultati delle elezioni sono credibili e riflettono la volontà della maggior parte dei votanti”.
Perché il colpo di Stato?
Secondo il settimanale britannico The Economist, il generale Min Aung Hlaing, capo dei generali golpisti, avrebbe avuto timore del suo futuro in un Paese dove “l’esercito è disprezzato” soprattutto quando “il governo civile ha cercato di portarlo sotto il suo controllo. Il generale avrebbe dovuto ritirarsi quest’anno ed è probabile coltivasse ambizioni politiche personali, spazzate via dalle elezioni di novembre”, si leggeva sul The Economist. “Non aveva un piano ma aveva bisogno di qualcosa che garantisse la sua eredità, la sua libertà e la ricchezza della sua famiglia”, proseguiva il settimanale citando un diplomatico occidentale basato a Rangoon. Si sospetta anche che il comandante “non abbia apprezzato il fatto che lo status dell’esercito sia stato sminuito”.
Ma non è certo tutto qui. La ragione più probabile del colpo di Stato è che i generali più potenti all’interno del Tatmadaw si sentissero minacciati dal nuovo governo e dovessero prendere necessarie “contromisure”, temendo che il nuovo esecutivo iniziasse a emanare leggi volte a interrompere il loro monopolio sull’economia. Come sottolineato da Osservatorio diritti, la facciata di democrazia, durante la fase dei due ultimi governi ibridi (civili e militari assieme), ha contribuito ad arricchire frange del Tatmadaw. I generali “hanno tratto vantaggio dall’allentamento delle sanzioni economiche imposte negli anni Novanta e dall’inizio degli investimenti stranieri nel Paese”. I generali avrebbero iniziato a puntare sul settore delle miniere di giada di cui le associazioni denunciano gli impatti sull’ambiente e sui diritti dei lavoratori. Secondo un rapporto del 2015 realizzato da Global Witness, il valore del mercato era stato pari a 31 miliardi di dollari nel 2014, circa il 50% del Prodotto interno lordo del Myanmar. E ad arricchirsi maggiormente sarebbero stati proprio gli ex generali della giunta tra cui, scrive Osservatorio diritti, “la famiglia di Ohn Myint, nuovo presidente ad interim nominato dopo il colpo di Stato, famoso per la sua violenta repressione durante le manifestazioni antigovernative del 2007 condotte dai monaci buddisti”.
I generali e le violazioni dei diritti umani
Non finisce qui, naturalmente. Come ricordato da un’analisi pubblicata su la Repubblica scritta da Federico Varese, criminologo e docente presso l’Università di Oxford, i problemi dell’attuale Myanmar sono articolati e complessi, nonostante le narrazione che ne è stata data, spesso focalizzata unicamente sulla questione dei Rohingya. Come operatore del turismo, settore in cui lavoro dai primi anni 2000, mi sono chiesto quali fossero le unicità del caso Birmania. In un volume sul turismo responsabile pubblicato nel 2007, avevamo indicato le motivazioni che potevano spingere al boicottaggio del Paese. Torna il ruolo dei generali che solo apparentemente hanno contrastato il traffico di stupefacenti, hanno svenduto le materie prime di cui il Paese è ricco, come il legno tropicale, hanno violato i diritti umani chiudendo in carcere i prigionieri politici, reprimendo il dissenso e la libertà d’espressione. Da quasi 50 anni l’esercito porta aventi una guerra contro le minoranze etniche, costringendo centinaia di migliaia di cittadini a vivere nei campi profughi ai confini con la Thailandia.
Tornano le sanzioni? Il ruolo della Cina
Nell’aprile del 2020, l’Unione europea ha rinnovato le proprie sanzioni al Myanmar estendendole fino al 30 aprile 2021. Includono un embargo sulle armi che possono essere usate dalla polizia e dai militari per la repressione interna o per il monitoraggio delle comunicazioni. Sarebbe bloccata anche la cooperazione militare. Adesso, in risposta al colpo di Stato e all’arresto di Aung San Suu Kyi, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato una revisione immediata delle stesse sanzioni ma anche delle leggi vigenti applicabili al caso del Myanmar. Ma il Paese ha una lunga storia di sanzioni. Messi in difficoltà dall’embargo dell’occidente, nel passato i generali si erano appoggiati prima alla Thailandia, poi a Singapore e al Giappone, quindi alla Cina ormai superpotenza che ora è il primo partner commerciale del Paese, anche beneficiario degli investimenti per la Nuova Via della Seta. Si vede bene, quindi, quanto conti l’Occidente e quanto l’Asia sulla bilancia delle convenienze dei generali.
Renzo Garrone, scrittore e viaggiatore, accompagna viaggi dal 1984, scrive e fotografa dal 1985. Nel 1987 ha fondato RAM, organizzazione specializzata in Asia che si occupa di fair trade, editoria e viaggi di qualità, d’incontro e responsabili. Il suo blog, dedicato principalmente all’Asia, è https://renzogarrone.com/
Questo contributo anticipa la prossima uscita di “Birmania alias Myanmar. L’esotica ingiustizia” il saggio in epub a cura di Renzo Garrone per Altreconomia.
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