Ambiente / Intervista
Cronache dal Wasteocene, l’era globale dei rifiuti
Gli scarti della nostra società non sono solo quelli che finiscono nelle discariche o che i Paesi “ricchi” trasferiscono in quelli a basso reddito. Lo storico Marco Armiero analizza le relazioni che nascono da questi processi e il loro impatto sulle comunità: dagli Stati Uniti al Brasile. La via per uscirne è prendersi cura dei beni comuni
“Viviamo in un’epoca in cui gli scarti e i processi che li producono sono la cifra che caratterizza il nostro presente e, drammaticamente, anche il nostro futuro. La produzione di rifiuti presuppone non solo la creazione di scarti in senso fisico, ma anche di comunità e di relazioni”. Marco Armiero, storico dell’ambiente e direttore di ricerca presso l’Istituto di sudi sul Mediterraneo del CNR e direttore dell’Environmental humanities laboratory del KTH di Stoccolma, ha coniato il termine inglese Wasteocene per definire una nuova fase della storia della Terra e dell’uomo, mettendo al centro i rifiuti (waste) in tutte le loro forme
“Sono debitore dell’importante dibattito che si è sviluppato in questi anni attorno al concetto di Antropocene, l’era in cui gli uomini sono diventati una forza in grado di cambiare i cicli geo-fisici e la chimica del Pianeta -spiega Armiero ad Altreconomia-. All’interno di questo dibattito si afferma spesso che ‘tutti noi’ siamo responsabili della crisi socio-ecologica che stiamo vivendo. Io mi chiedo però se è vero che un abitante di Houston, in Texas, e uno di Maputo, in Mozambico, abbiano le stesse responsabilità. Dove sono le riflessioni sul passato coloniale e sul debito globale? Penso che all’interno del dibattito oggi in corso sull’Antropocene ci sia il rischio di nascondere le differenze”.
Differenze che Armiero prova a esemplificare attraverso la vicenda del Titanic: a seguito dell’impatto con l’iceberg, la maggior parte delle vittime del naufragio si è registrata tra i passeggeri di terza classe (i più poveri) mentre la maggioranza dei viaggiatori più ricchi è riuscita a salvarsi salendo a bordo di una scialuppa. “Da un punto di vista complessivo si può dire che ‘siamo tutti sulla stessa barca’ dal momento che viviamo tutti sullo stesso Pianeta -riflette Armiero-. Ma è anche vero che nel medio-lungo periodo qualcuno pagherà il conto più salato. E già oggi c’è chi parla di climate apartheid”.
Armiero ha condensato le proprie riflessioni attorno a questi temi in un agile saggio dal titolo “L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene” (Einaudi). Un volume che parte proprio da una riflessione sul peso dei rifiuti in quanto “oggetti”: secondo le stime della Banca Mondiale, entro il 2050 la produzione annuale di rifiuti solidi municipali aumenterà da 2,01 a 3,40 miliardi di tonnellate. Che si sommano quelli tossici e pericolosi: 400 milioni di tonnellate all’anno.
Lo storico non si limita a riflettere sugli scarti in quanto oggetti e sposta il focus “sull’insieme di relazioni socio-ecologiche. E sui processi attraverso cui le élite o i Paesi del Nord del mondo, separano sé stessi da quello che non vogliono. E che di conseguenza generano comunità di scarto e relazioni di scarto (wasting relationship) -spiega-. Pensiamo alla cosiddetta Cancer alley negli Stati Uniti: il ‘corridoio del cancro’ che va da New Orleans a Baton Rouge, in cui vivono prevalentemente persone appartenenti alla minoranza afro-americana. Questa zona deve il suo nome alla fitta presenza di impianti petrolchimici, che ha pesanti conseguenze sulla salute della popolazione. Sono state condotte delle ricerche negli Stati Uniti da cui è emerso che la mappa degli impianti inquinanti, industriali o di smaltimento dei rifiuti si sovrappone con quella delle comunità afro-americane, latine e native”.
Un altro episodio citato nel saggio è quello del crollo, nel 2015, di una diga nello Stato brasiliano del Minas Gerais le cui acque contaminate hanno causato la morte di diverse persone e la contaminazione del Rio Doce che è stato dichiarato biologicamente morto. “Stiamo parlando di una regione in cui l’intero ecosistema è stato messo a servizio dell’estrattivismo -aggiunge Armiero-. Le wasting relationship producono profitto per pochi attraverso l’estrazione di valore dalle miniere, dal sottosuolo, dagli umani e dai non umani”.
Uscire dal Wastocene è difficile, ma possibile. E la strada identificata dallo storico è quella della tutela dei beni comuni (in inglese commons): dall’acqua alle foreste, fino ad arrivare alla cura degli spazi pubblici e dei giardini del proprio quartiere. Anche in questo caso, oltre ai beni intesi nella loro dimensione fisica o spaziale, Armiero prende in considerazione le relazioni socio-ecologiche che si producono: il commoning. “Mentre le relazioni di scarto producono profitto per pochi, attraverso l’estrazione di valore dalle risorse naturali e dagli umani, il commoning crea comunità tramite la cura e la condivisione”, spiega. Uno dei casi citati nel libro è quello dell’ex Snia Viscosa, una fabbrica alla periferia di Roma che, nei primi anni Novanta, sarebbe dovuta essere abbattuta per fare posto a nuovi edifici. Ma durante i lavori, a seguito di un errore durante lo sbancamento, è stata intercettata la falda acquifera, portando così alla creazione di un lago. Gli abitanti del quartiere hanno quindi dato vita a un comitato per preservare il lago e la biodiversità che porta con sé, e per farlo diventare un luogo a servizio della comunità.
Il Wasteocene non solo scarta persone ed ecosistemi ma impone anche narrazioni tossiche, cancellando o addomesticando qualunque racconto alternativo. Per questo motivo assume particolare importanza il lavoro degli attivisti impegnati nella tutela del lago dell’ex Snia che hanno ritrovato i fascicoli della vecchia fabbrica, ricostruito le storie delle operaie e hanno dato vita a un archivio dedicato a Maria Baccante, operaia e partigiana: “Questo recupero della memoria fa parte del commoning perché crea una comunità. Mostra che un’altra storia, un altro racconto, sono possibili”.
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