Ambiente / Attualità
Cresce la popolazione di lupi in Italia. Il monitoraggio dell’Ispra
Sono più di tremila i predatori presenti nel nostro Paese. Circa 950 quelli nelle Regioni alpine, in particolare in Piemonte. I dati raccolti saranno fondamentali per la conservazione della specie e la coesistenza dell’animale con gli esseri umani
Nell’Italia dei primi anni Settanta, il lupo era praticamente estinto: non solo era possibile cacciarlo, ma era addirittura classificato come “specie nociva”, piccoli gruppi sopravvivevano solo in Abruzzo, in Toscana (nel Casentino) e in Calabria. Oggi, anche grazie all’introduzione di norme di protezione stringenti non solo si è ripreso, ma ha colonizzato praticamente tutti gli ambienti idonei: dalle Alpi alla Puglia. È quanto emerge dal primo monitoraggio nazionale su questa specie condotto dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e che ha stimato una presenza di circa 3.300 lupi di cui 950 esemplari concentrati nelle Regioni alpine e quasi 2.400 distribuiti lungo il resto della penisola. Se ci calcola l’estensione delle aree di presenza di questo animale (oltre 41mila chilometri quadrati nelle zone alpine e oltre 108mila chilometri quadrati nelle zone peninsulari) si più affermare che il lupo oggi occupa la quasi totalità degli ambienti idonei alla sua presenza nel nostro Paese.
“Sapevamo che la popolazione si stava consolidando e ci aspettavamo un aumento in termini numerici in Italia: avevamo dei buoni dati per quanto riguarda la situazione sulle Alpi, il progetto LIFE WolfAlps Eu aveva già condotto in passato un monitoraggio. Ma il tasso di crescita che abbiamo rilevato è stato un po’ superiore rispetto a quello che ci aspettavamo, soprattutto sulle Alpi Occidentali, dove negli ultimi tre anni la popolazione di lupi è più che raddoppiata”, spiega Piero Genovesi, responsabile servizio coordinamento fauna dell’Ispra, che ha coordinato il monitoraggio su mandato del ministero della Transizione ecologica lavorando in stretto contatto con LIFE WolfAlps, responsabile della raccolta dati nelle Regioni alpine.
Il lavoro di ricerca è stato svolto tra il 2018 e il 2022, con il reperimento dei dati realizzato tra ottobre 2020 e aprile 2021 che ha permesso di stimare il numero di individui e la distribuzione della specie. Un’attività che ha impegnato una rete di oltre tremila persone tra operatori volontari formati e personale dei parchi (nazionali e regionali), Regioni, Province autonome, università, musei, cinque associazioni nazionali (Aigae, Cai, Legambiente, Lipu, Wwf), associazioni locali e reparti dei carabinieri forestali.
Il compito assegnato a operatori e volontari è stato quello di percorrere a cadenza regolare i cosiddetti “transetti” -sentieri ben definiti che attraversano le aree da mappare- e raccogliere o fotografare tutti i possibili segni di presenza del lupo: peli, feci, carcasse e resti di predazione, impronte, immagini e video raccolti tramite fototrappole. In particolare gli escrementi hanno permesso, tramite analisi genetiche, di identificare le specie e gli individui presenti. I dati sono quindi confluiti all’interno di un database nazionale che è stato poi analizzato con tecniche statistiche avanzate per arrivare a una stima del numero di lupi presenti in Italia. È la prima volta che in Italia si realizza una raccolta dati del lupo disegnata in maniera standardizzata e centralizzata: i risultati ottenuti permettono di valutare lo status di conservazione della specie nel tempo oltre che di verificare l’efficacia delle misure gestionali e di conservazione applicate. Inoltre, evidenzia Ispra, dati scientificamente attendibili potranno indirizzare azioni di mitigazione dei conflitti con le attività umane, favorendo la coesistenza tra esseri umani e lupo.
Durante il lavoro di ricerca non sono poi mancate novità. “Quando abbiamo iniziato a disegnare le aree di campionamento i lupi non erano ancora comparsi nel Delta del Po. Non solo: hanno raggiunto anche il Salento e altre zone in cui non avremmo ipotizzato una loro presenza stabile -racconta Genovesi-. Quello a cui stiamo assistendo è un’espansione di questi animali anche in aree che vengono considerate meno idonee alla loro presenza come, ad esempio, le aree agricole della Pianura Padana”.
L’espansione al di fuori delle aree che vengono tradizionalmente considerate più adatte alla presenza del grande carnivoro (zone boscate con una buona presenza di selvaggina, che garantiscono tranquillità e cibo) è un segno della grande adattabilità di questa specie che, a partire dagli anni Ottanta, ha iniziato a recuperare il proprio territorio originale, prima sull’Appennino e successivamente, a partire dagli anni Novanta, sulle Alpi Sud-occidentali al confine tra Italia e Francia. Oggi sull’arco alpino si contano più di cento branchi, per la maggior parte insediati in Piemonte (dove se ne contano ben 67). Dieci sono presenti in Veneto, otto in Valle d’Aosta, nove nella Provincia autonoma di Trento, tre in Lombardia e altrettanti in Friuli-Venezia Giulia.
A differenza di quanto vuole una vulgata molto diffusa, questo carnivoro non è stato reintrodotto dall’uomo ma ha raggiunto spontaneamente, per dispersione, nuove regioni e nuove aree in cui insediarsi. “Negli ultimi anni abbiamo assistito a un generale recupero di molte specie legate ad habitat terrestri -aggiunge Genovesi-. Questo è dovuto ai cambiamenti ambientali: l’Italia ha aumentato del 30% la copertura forestale, abbiamo molti più boschi e una fitta rete di aree protette molto ampie ed efficaci. Questo ha permesso l’aumento di caprioli e cinghiali, le principali prede del lupo”.
Maggiore disponibilità di cibo e di aree sicure attraverso cui spostarsi o insediare i branchi ha permesso a questo carnivoro di ri-occupare ampi spazi del territorio. Anche se non mancano le criticità, a partire dai conflitti con gli allevatori, che per decenni hanno lavorato in un ambiente privo di predatori naturali e che oggi devono mettere a punto nuove modalità di lavoro e nuovi strumenti di difesa (a partire dai cani pastore) per proteggere le greggi.
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