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Confiscare non basta

Con qualche ritardo, l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata pubblica la terza relazione annuale. Due le conferme: la Lombardia si classifica terza davanti alla Calabria per il numero di aziende confiscate mentre la struttura che dovrebbe valorizzare le ricchezze criminali certifica la propria inefficacia. E la soluzione proposta non cambia: vendere ai privati il patrimonio delle cosche

L’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata non ha ossigeno per camminare. Non un fatto secondario per chi deve occuparsi da Trieste e Palmi di oltre 11mila immobili e 1700 aziende sottratti alle mafie. In un Paese dove la regione più ricca, la Lombardia, si conferma quinta regione d’Italia per numero di immobili confiscati, dopo Sicilia, Calabria, Campania e Puglia, e terza -davanti alla Calabria- per aziende. E dove il baluardo normativo contro la criminalità, il Codice antimafia -messo a punto dal nuovo ministro dell’Interno nonché vicepremier, Angelino Alfano, e dal neo governatore lombardo, Roberto Maroni- mostra tutte le sue incertezze; tanto da costringere  stessa Agenzia a discuterne "l’effettiva efficacia". Si potrebbe riassumere così la terza relazione annuale curata dall’Agenzia nazionale, pubblicata in ritardo rispetto alle precedenti, e relativa all’anno appena trascorso. 

 
Restano aperte le endemiche "criticità" che riguardano sia gli immobili, sia le aziende confiscate. Leggasi, per i primi, le ipoteche bancarie, le confische in quota indivisa e il pessimo stato di manutenzione. Per le seconde, il dietrofront del sostegno bancario, l’azzeramento delle commesse e l’innalzamento dei costi di gestione (i cosiddetti "costi di legalità").
 
Inciampi posti lungo il percorso che hanno spinto l’Agenzia con sede a Reggio Calabria e presieduta dal prefetto Giuseppe Caruso, a riconoscere che "lo sforzo del legislatore non appare sufficiente a garantire efficacemente lo svolgimento di tutte le complesse attribuzioni che il codice assegna all’Agenzia". 

 
Il punto è che la soluzione proposta -oltre a specifici fondi a rotazione alimentati da contributi statali- torna ad essere la vendita ai privati dei beni confiscati, ritenuta l’unica strategia vincente per recuperare risorse, dismettere costi inutili, allargare la pianta organica. Un aspetto che, nella relazione 2012, l’Agenzia annuncia di voler sottoporre al nuovo esecutivo guidato da Enrico Letta, dove a Largo Arenula siede Annamaria Cancellieri.
 
Il mantra dell’alienazione, però, resta indefinito. Senza alcun riferimento ai tempi e agli strumenti individuati per impedire che il bene intraprenda vie poco raccomandabili. Ed è la genericità l’autentica cifra della relazione 2012, al di là della mera enumerazione degli immobili (11.238) e delle aziende (1.708, di cui 477 attive in costruzioni e 173 in alberghi e ristorazione). Oltre al capitolo "alienazione ai privati", infatti, anche la parte dedicata alle ipoteche bancarie (vedi Ae 134, gennaio 2012) resta accennata. Dei 3.995 immobili che ancora permangono in gestione all’Agenzia, 1.666 risultano ipotecati. Ma non è dato sapere dove siano concentrati e quali siano i principali istituti coinvolti, o le azioni messe in campo per verificare la buona fede del creditore. E, soprattutto, non è possibile conoscere quanti dei beni confiscati destinati agli enti locali, alle prefetture o alle associazioni, risultino gravati da pretese bancarie. Un dato che è difficile reperire, non fosse altro per il rischio di dover riconoscere un errore di sistema: aver scaricato sugli enti locali il fardello, con quel che ne consegue. Pretendere un’analisi del genere è comunque utopistico, dato che di 1.668 immobili dei circa 4mila in gestione, non si hanno -ad oggi- informazioni sullo stato di manutenzione. Come fossero fagocitati in un buco nero.
 
Additare l’Agenzia -e la sua struttura- come unica responsabile del buio sarebbe ingiusto. Il fiore all’occhiello di Roberto Maroni può contare infatti su 30 unità fisse di personale, e solo da poco su 100 "mobili". Distribuite in cinque sedi, di cui una ancora da inaugurare (Napoli). Anche se la principale, che sta a Reggio Calabria, è del tutto "insufficiente ad accogliere le numerose unità di personale che dovranno essere ivi allocate". E la mafia ringrazia.

 

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