Diritti / Reportage
Con i 555 salvati nel Mediterraneo. Reportage dalla Ocean Viking
Tra il 31 luglio e l’1 agosto oltre 550 persone sono state soccorse nel cuore del Mediterraneo dalla nave umanitaria della Ong Sos Mediterranee insieme alla Sea Watch 3. Bianca Senatore, a bordo, ha raccolto con discrezione storie e testimonianze. Da chi fugge dal Tigray a chi è partito dal Bangladesh
Durante i primi attimi, gli sguardi sono allucinati e la mente è in confusione. Sono vivi o è un’allucinazione pre-morte? Sì, sono vivi, perché a scuoterli dalla catalessi c’è una voce rassicurante che dice “Welcome on board” e intanto allunga uno zainetto asciutto. Sono stati salvati tutti in questo stato, tra il 31 luglio e l’1 agosto, i 555 naufraghi, strappati alla morte nel cuore del mar Mediterraneo dalla Ocean Viking, la nave umanitaria della Ong Sos Mediterranee.
È stato quasi un record: sei salvataggi in meno di 36 ore, con l’equipaggio della nave che non ha persone neanche un secondo, perché durante un naufragio ogni momento diventa prezioso per la vita. Quando l’ultimo dei naufraghi è stato messo al sicuro, il ponte della Ocean Viking si è riempito in ogni suo piccolo angolino e tutti hanno disteso la propria coperta, fornita dalla Ong, per riposare e raccogliere le forze.
Cinquecentocinquantacinque uomini donne e bambini, anche un piccolo di tre mesi. Sarebbero sicuramente morti, stipati com’erano in sei diverse imbarcazioni, una più sgangherata dell’altra. In particolare, c’erano 400 persone incastrate l’una sull’altra su un barcone di legno, di quelli che non si vedano da anni. Stavano imbarcando acqua, rischiavano di ribaltarsi, la stiva era piena di benzina e un centinaio erano già finiti in acqua quando sono arrivati i gommoni di salvataggio. Della Ocean Viking, ma anche della Sea Watch 3, che era in zona. Nessuna delle due Ong da sola avrebbe potuto salvare tutte quelle persone e così, la soluzione è stata smistarle. Quando sono stati tirati su, tra i naufraghi c’erano tanti ragazzi etiopi ed eritrei. Magrissimi, mezzi nudi, completamente zuppi. Mi guardano e mettono la mano sul cuore per ringraziare e poi fanno il segno per dire che hanno bisogno di bere. “Just one moment”, solo il tempo di registrarli e di consegnare loro non solo la bottiglietta d’acqua, ma anche un vestito pulito e una coperta.
Dume mi avvicina il giorno dopo, ancora per ringraziare, anche se io ho non ho fatto nulla rispetto all’equipaggio di Sos Mediterranee, ma ha voglia di parlare. “Sono del Tigray, lavoravo bene, riuscivo a mantenere mia madre e i miei fratelli, poi è scoppiata la guerra e in cinque mesi ho perso tutto. Tutto”. Indica il vestito che ha indosso e aggiunge: “Mi era rimasto solo un pantalone con una maglia e quando durante un raid ho rischiato di essere ucciso ho deciso di scappare via. Non potevo più vivere lì”.
È muscoloso ma denutrito ed è rimasto scioccato dalla brutalità dei libici. Non sapeva che, anche se non c’è un conflitto armato in corso, gli uomini sono in grado di essere tanto crudeli gli uni verso gli altri. “Non avrei mai creduto di lasciare il mio Paese -dice Dume- non era mia intenzione farlo, però se devo morire, almeno provo a trovare una via d’uscita”.
Insieme a un gruppo di ragazzi e ragazze più o meno coetanei, lui ha 22 anni, ha intrapreso il viaggio e ha percorso con mezzi di fortuna prima il Sudan e poi è arrivato in Libia. E lì, corsa finita. Perché è stato catturato dalle milizie ed è stato messo in un campo. “Ero in un container con centinaia di altre persone, non c’era cibo né acqua e ogni volta che aprivano le porte, qualcuno entrava e qualcuno usciva ma nel frattempo sparavano e picchiavano”. Una sua amica, dice, è stata stuprata e ha smesso di parlare. “Dov’è?”, gli chiedo. Indica il mare, forse è sulla Sea Watch 3. Attraverso il ponte affollato della nave, mi porta in fondo verso la prua, dove ci sono altri suoi amici. Vuole farmi parlare anche con loro.
Sono stesi, distrutti, con mal di testa e nausea, perché in alcuni momenti c’è onda lunga e la nave oscilla di brutto. Ma due di loro si siedono gambe incrociate e raccontano. “Siamo della regione dell’Amara e c’erano combattimenti tutti i giorni: noi non siamo miliziani -racconta Kaiku, 23 anni-. A un certo punto sono arrivati con mitragliatrici e fiamme e tutto il mio villaggio è stato massacrato. Io sono scappato non so come, ma non so se i miei familiari sono vivi o morti”.
Tra i naufraghi a bordo della Ocean Viking ci sono anche tantissimi cittadini bengalesi, anche loro evidentemente tanto provati dal viaggio e dalla paura di morire tra le onde del Mediterraneo. È difficile comunicare con loro, pochi sanno l’inglese o il francese e non parlano l’arabo. Alcuni non sanno in che anno sono nati, non sanno neanche scriverlo. Però si vede che sono adulti e che desiderano farsi capire. Allora, uno dei pochi del gruppo che parla inglese abbastanza da capire e farsi capire traduce per gli altri.
Dopo la notte di riposo, dopo il salvataggio, Bijai sorride, cerca di chiedermi come sto, lui a me, e il giovane traduttore si avvicina. Mi spiega che molti sono arrivati dagli Emirati Arabi Uniti. Da Dacca sono sbarcati a Dubai in aereo, perché l’obiettivo era trovare un lavoro per ripagare il debito per il viaggio e poi per sostenere la famiglia in Bangladesh. Peccato che tutto quel che era stato promesso loro fosse una bugia. “Abbiamo lavorato tanto, siamo stati trattati malissimo e venivano pagati l’equivalente di 15 dollari al giorno per 12 ore -dice il ‘portavoce’ di Bijau, Shaheen 25 anni- e allora siamo scappati via, perché eravamo schiavi, non potevamo fare nulla e non avremmo mai potuto mandare neanche un dirham a casa (la valuta degli Emirati Arabi Uniti, ndr)”.
Tre, quattro ragazzi bengalesi si avvicinano a noi per sentire di che cosa parliamo e provano a seguire, qualcuno annuisce. La ricostruzione della rotta dei bengalesi è molto complicata ma Shaheen riesce a spiegare che alcuni, coloro che erano negli Emirati Arabi per lavorare e finiti come schiavi, sono partiti verso le coste libiche facendo un giro tremendo attraverso il deserto: da Dubai ad Abu Dhabi, a Ryad a Medina e poi il valico per arrivare in Egitto. Un viaggio lunghissimo, difficile, pericoloso. Altri, invece, dice sempre Shaheen, sono arrivata da Dacca in aereo in Turchia e da lì, sempre in volo, sono arrivati a Tripoli. Ad accoglierli c’erano i trafficanti di uomini che ormai conoscono tutte le rotte e anche i differenti finanziamenti che nel mondo vengono forniti per emigrare. In Bangladesh, per esempio, la Bangladesh Rural Advancement Commitee (Brac), una delle più grandi Ong del mondo, ha a disposizione dei migration loan, cioè dei prestiti per lasciare il Paese e cercare fortuna altrove. Questi fondi, però, sempre più spesso, finiscono nelle mani dei trafficanti, che gestiscono i soldi e manovrano le rotte migratorie facendo atterrare le vittime del raggiro in Turchia o direttamente in Egitto.
È una catena di affari sporchi che comincia molto lontano ma che finisce qui, sul ponte della Ocean Viking, con questi ragazzi, tramortiti e confusi, che sperano di poter trovare un po’ di pace. “Come ve la immaginate l’Italia?”, chiedo. “Bella, sicura”. Un concetto elementare, che noi forse diamo per scontato.
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