Ambiente / Approfondimento
Cinque anni dopo la tempesta Vaia. Quale impronta ha lasciato e che cosa non abbiamo capito
A fine ottobre 2018 un evento atmosferico estremo di acqua e di vento sconvolgeva le strutture forestali delle Alpi italiane Nord-orientali: 42mila ettari di boschi schiantati, 10 milioni di metri cubi di alberi abbattuti, oltre 16 milioni di piante. Luigi Casanova traccia un bilancio del “recupero” e del dopo. Con le fotografie di Michele Lapini
A cinque anni dall’evento è bene riflettere su che cosa abbia significato la tempesta Vaia della fine di ottobre del 2018. Acqua e vento hanno stravolto le strutture forestali delle Alpi italiane Nord-orientali. Dapprima le foreste avevano sofferto un lungo periodo siccitoso. Le temperature, anche in quota, erano fuori scala, elevate. A mille metri di primo mattino le temperature superavano ovunque i dieci gradi, nel pomeriggio si superavano i 26, lo zero termico era stabile oltre i 4.000 metri di quota.
Lo scenario si ruppe improvvisamente e dal 27 ottobre iniziò a piovere, abbondantemente. Nella tarda serata del 29 ottobre 2018 la pioggia cadde accompagnata da folate di vento caldo sempre più intense, venti che arrivarono a superare le velocità di 150 chilometri all’ora, a passo Rolle si sono registrati picchi di 208.
Dalle nostre finestre (dalle Valle di Fiemme) si sentivano gli schianti degli alberi, schianti continui, sempre più fragorosi, come mai avevamo percepito nel passato. Nelle prime ore del mattino seguente la pioggia calava di intensità, la pausa delle precipitazioni aveva permesso ai proprietari di cani di uscire, ancora al buio li incontravo mentre scioccato arrivavo in prossimità dei boschi che dovevo controllare. Appena fuori dal paese, tra squarci di nebbie e nuvole, si intravvedeva la distruzione. Inimmaginabile: i boschi tanto amati, le foreste che fino alla sera prima ci proteggevano non c’erano più. Desolazione diffusa, tutto era a terra, strade e sentieri interrotti, impossibile proseguire sui percorsi a noi tanto cari. L’impotenza e l’incredulità, a tutti, facevano scendere lacrime. I pochi che erano usciti -stava arrivando la prima luce del giorno- erano sbigottiti, mi chiedevano spiegazioni che al momento non sapevo fornire tanto ero sconvolto.
Eppure sapevo, era accaduto su tutta Europa, sulle Alpi dell’Ovest e del Nord. Un susseguirsi di tempeste dagli anni 90 in poi avevano devastato versanti interi, centinaia di milioni di metri cubi di schianti, e poi il bostrico, il parassita che non perdona le monocolture di abete rosso, i boschi coetanei. In Italia non doveva accadere? Perché la scienza non aveva allarmato tecnici e politici?
Ma nei numeri, che cosa è stata Vaia? Dapprima danni causati dalle acque, strade e ponti divelti, una decina i morti, una vera alluvione specie in Veneto, Friuli e Südtirol. Ben 42.000 ettari di boschi schiantati, quasi al 100%. Dieci milioni di metri cubi gli alberi abbattuti, oltre 16 milioni di piante.
E poi, anche causa l’inefficienza di un sistema impreparato ad affrontare una simile catastrofe forestale, negli anni successivi è arrivato il bostrico (Ips typographus), un insettino parassita dell’abete rosso che attacca le piante sofferenti. Dal 2022 a oggi nell’areale di Vaia possiamo contare con certezza almeno altri 10 milioni di metri cubi di piante morte e altrettante ancora saranno a fine epidemia, prevista per il 2025-2026.
Perché ci siamo trovati in presenza di un sistema inefficiente? Perché nelle Alpi interessate le squadre boschive erano in sofferenza, pochi uomini, poca specializzazione. Si è dovuto fare affidamento su grandi compagnie austriache e slovene: queste sono intervenute con macchinari non idonei ai nostri ripidi versanti (harvester e forwader) muniti di cingoli che distruggevano la rinnovazione naturale e scavavano nel terreno povero solchi profondi che favorivano la successiva erosione dei suoli. Gran parte di questo legname è stato venduto all’estero, perfino in Cina. Più che venduto, svenduto.
I servizi forestali delle Regioni e Province autonome non sono andati per il sottile. In funzione antivalanghe e parasassi hanno diffuso ovunque imponenti strutture in ferro a protezione di abitati e viabilità (nella maggioranza dei casi era sufficiente lasciare a terra del legname ormai deperito, in attesa di una veloce ripresa della rinnovazione naturale). Si sono costruite centinaia di nuove strade forestali inutili, a distanza parallela di 70-100 metri di quota una dall’altra, ampie anche fino e oltre i quattro metri. In Trentino come nel bellunese, sul Cansiglio come sull’Altopiano dei sette Comuni, in Alto Adige.
Queste strade, una volta raccolto il legname, rimangono un costo sulle casse pubbliche per manutenzione anche straordinaria e per di più rimarranno inutilizzate per almeno 60-80 anni, fino a quando non vi sarà nuova foresta da gestire. E hanno ulteriormente frammentato le superfici boschive imponendovi corridoi di penetrazione di venti e provocando comunque danni naturalistici. Si pensi alle arene di canto dei tetraonidi (sottofamiglia di uccelli della famiglia dei Fasianidi, ndr) distrutte, o alle aree di svernamento degli ungulati definitivamente disturbate. Come insegnano i gestori delle foreste del Nord delle Alpi laddove vi erano situazioni di rischio era sufficiente lasciare a terra il legname schiantato (veniva svenduto a 10, 20 euro il metro cubo). Sulle superfici più ampie, utilizzando l’enorme patrimonio viabilistico delle Alpi italiane, era sufficiente utilizzare le teleferiche.
Nella gestione del dopo Vaia si è intervenuti con politiche di tipo puramente ingegneristico, evitando ogni minima attenzione alla naturalità dei versanti, alla biodiversità e a delicati interventi in aree protette Rete Natura 2000 e parchi.
Che cosa ci dice il dopo Vaia? Che l’Italia, pur avendo oltre il 30% di suolo coperto da foreste, non è in grado di gestire il suo patrimonio in modo naturalistico. Che abbiamo disperso un patrimonio di conoscenze tecniche manuali nel lavoro del bosco difficilmente recuperabile in tempi brevi. Che il personale ha bisogno di formazione continua: devono essere gli enti pubblici proprietari a dotarsi di personale stagionale ad alta specializzazione coadiuvato dalla vigilanza del corpo dei Carabinieri forestali. Che non disponiamo di una filiera del legno capace di produrre nelle valli valore aggiunto. Quando si va in crisi, il legno lo si brucia negli impianti a biomasse. Una follia in tempi di eccesso di CO2 in atmosfera: il legno la cattura e la trattiene fino a fine vita. Che abbiamo perso un’occasione straordinaria per investire in ricerca scientifica e naturalistica (ad esempio seguire passo dopo passo l’evoluzione delle nuove foreste e della fertilità dei suoli).
Che è necessario, da subito, imporre alle Regioni delle aggiornate carte dei pericoli che tengano presenti gli effetti sui suoli, sui versanti, dei cambiamenti climatici in atto. E che queste carte, con l’ausilio di scienze multi specifiche, vanno aggiornate periodicamente, e sempre più spesso. Laddove vi è solo un minimo sentore di pericolo non si dovrà costruire nel modo più assoluto.
Vaia, come avevano sollecitato fin da subito gli ambientalisti, è senza dubbio stata una tempesta devastante. Una politica intelligente, meno propensa all’improvvisazione e alla speculazione, vi avrebbe colto mille opportunità di lavoro da portare sulle montagne, sia intellettuale sia manuale. Quindi avrebbe rilanciato un settore vitale del vivere la montagna: la politica forestale capace di garantire nel lungo periodo sicurezza, naturalità, ricreazione e per ultimo aspetto, produzione.
Il testo è a cura di Luigi Casanova (1955), bellunese, di professione Custode forestale nelle Valli di Fiemme e Fassa e ora in pensione, voce storica dell’ambientalismo. Il suo impegno sociale è nato nell’antimilitarismo e nel Movimento Nonviolento. È stato presidente di Mountain Wilderness Italia. Per Altreconomia ha scritto “Avere cura della montagna” (2020) e “Ombre sulla neve. Milano-Cortina 2026. Il “libro bianco” delle Olimpiadi invernali” (2022).
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