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Ambiente / Opinioni

Ciclabilità: il nuovo piano dimentica le aree interne

I 137 milioni di euro per sviluppare la mobilità pubblica nel dopo pandemia sono destinati alle città. Una scelta che non considera quei territori dove il fiorire di cammini e ciclovie aiuterebbe l’economia locale e contrasterebbe lo spopolamento. Le differenze tra centro e periferie si aggravano. Il commento del prof. Paolo Pileri

© Valentina99 - Flickr

Il governo Conte -su iniziativa della ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli e dopo avere sentito il 18 giugno le Regioni-
si appresta a varare un decreto che riguarda la ciclabilità urbana, vista come possibile contributo alla crisi della mobilità pubblica nel post Covid-19. Si stanno per dare 137 milioni di euro alle grandi città per finanziare “ciclostazioni e interventi per la sicurezza della circolazione ciclistica cittadina”. Il virgolettato arriva dal comma 640 della legge di Stabilità 2016 (Legge 28 dicembre 2015, n. 208).

Enucleato così, tutto pare essere buono. Ma se andiamo a leggere per intero il comma scopriamo che era ed è il salvadanaio costruito nel 2015 per accumulare pochi fondi per realizzare la Rete o Sistema Nazionale della Ciclabilità Turistica (SNCT), quindi per progettare e realizzare grandi ciclovie -come VENTO, SOLE, GRAB-, la Ciclovia dell’Acquedotto Pugliese e lunghi cammini che potrebbero mettere in movimento quel turismo lento, numeroso ma sostenibile che non abbiamo ancora nel nostro Paese. A beneficiarne sarebbero, inoltre, le aree più marginali e interne del Paese, dove non troviamo neppure le lacrime per piangere il disagio sociale e la crisi economica che Covid-19 ha aggravato da morire. Lo abbiamo detto più volte: un chilometro di quelle ciclabili darà lavoro a quattro o cinque famiglie e arginerà lo spopolamento. Cammini e ciclovie sono state la strategia per arginare la fragilità di Germania, Spagna, Austria, Olanda, Danimarca. Una sorta di azione per ridurre gli abissi di disuguaglianza tra centro e periferia. Con i 50mila chilometri di grandi ciclabili turistiche, la Germania in 30 anni ha generato 200mila nuovi posti di lavoro di cui molti nelle aree non urbane: 10 volte più di noi. E nel frattempo ha fatto anche ciclabilità urbana, ma senza mettere le due cose in competizione, senza che l’una rubi le risorse all’altra, che è ciò che qui vorrei farvi notare in special modo.

Il nostro governo infatti rischia di fare altro, non illegittimo sia chiaro ma pericolosamente iniquo. Svuota il salvadanaio per progetti di lentezza a favore delle terre più deboli e ne regala il contenuto alle grandi città: a Milano, Roma, Bologna, Napoli, alle loro aree metropolitane, ai capoluoghi di provincia e alle cittadine con più di 50mila abitanti. I ritardi che il sistema nazionale della ciclabilità turistica ha avuto non riuscendo a spendere nei tempi previsti (ma, credetemi, era impossibile) sono divenuti il pretesto per togliere finanziamenti alle aree più fragili, di fatto.

Si poteva fare diversamente. Il governo poteva cercare una strada per aiutare a realizzare più velocemente quelle lunghe ciclovie magari con un meccanismo stile “Ponte di Genova” e invece sceglie di usare i soldi per le città. Certo che la ciclabilità farebbe bene alle grandi città ed è una buona idea spronarle in quella direzione, ma non sottraendo risorse a chi ne ha più bisogno. Con Covid-19 l’etica dovrebbe rinnovarsi a favore degli ultimi della classe e non dei primi o, ma non oso pensarlo, dei luoghi che “contano” e dove si contano più consensi. Azioni come queste, che possono sembrare un nonnulla, finiscono per approfondire ancora di più il solco della disuguaglianza tra aree forti e aree deboli del Paese. Non si potevano trovare soldi da altre parti visto che, mai come in queste settimane, stanno arrivando bastimenti europei carichi di soldi? Non si poteva togliere soldi all’incentivazione dell’auto per darla alla ciclabilità? C’è sempre la possibilità di comprare qualche aereo da guerra in meno e fare tanta mobilità sostenibile in più, volendo. Invece quando si devono fare cose green, si apre il sipario della guerra tra poveri ovvero tra ciclabilità turistica e ciclabilità urbana, tra fare i marciapiedi e pulire i sentieri. Alla fine ci si riduce a infettare una cosa giusta (la ciclabilità e il lavoro che ne consegue) con un metodo iniquo.

Io spero che il governo ci ripensi, che tenda un orecchio alle aree interne. Siamo sempre in attesa di una cultura politica che smetta di inseguire facili consensi per mettersi in bella mostra sui grandi palcoscenici. Ne preferiamo una che generi visioni grandi (come Strategia Aree Interne, Atlante dei Cammini, Rete Nazionale Ciclabilità Turistica) per poi impegnarsi a portarle a termine fino alla morte, non smettendo per un solo attimo di crederci.

Ricomporre i divari in questo Paese richiede pazienza e perseveranza come lo chiedono i cammini e le grandi ciclabili che daranno i frutti occupazionali e culturali per le aree interne solo una volta realizzate. Invece, care aree interne, tutto viene rimandato a data da destinarsi. Rimettetevi in coda o, meglio, alzate la voce chiedendo nuove risorse per quelle infrastrutture lunghe e lente che lenirebbero parte delle vostre sofferenze e aiuterebbero pure gli “urbani” a rendersi conto della bellezza che hanno a due passi dalle città. Chiedete una cabina di regia che le realizzi a tempi di record, come il “Ponte di Genova”. L’Italia è una regione piena zeppa di diversità sociale e urbanistica e non è fatta sempre e solo dalle grandi città, anzi è fatta di molecole che hanno bisogno di essere ricucite, incoraggiate e mai abbandonate. Chiedete quel che dice l’articolo 3 della Costituzione alle sue istituzioni: “Rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Dilatare le disuguaglianze tra centro e periferia è un gioco che non lascerà sul campo nessun vincitore e nessun virus è una buona scusa per farlo.

Alla fine questa miope vicenda ci dimostra che la mobilità sostenibile, per la politica, è intrappolata nell’ideologia del “non sviluppo” e rimane un fatto di settore per di più marginale. Non viene vista come progetto di territorio ovvero come grande occasione per riformare il nostro modo di intendere l’abitare i territori e le città e la relazione tra questi. La lentezza non è concettualizzata né come diritto né come energia sulla quale impostare una pianificazione territoriale “line based” di riscatto per i territori più disagiati. Ancora una volta si finisce per preferire il fare qualcosa subito, di pronto effetto e, soprattutto, nei posti che contano (e votano tanto). Gli altri, quelli che non contano, i “Places that don’t matter” (Rodríguez-Pose, 2018), rimangono sempre più spaesati per via di un approccio politico che forse non si accorge neppure del guaio culturale che genera a loro e a se stesso. Speriamo ci ripensino.
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)
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