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Economia

Cibo, il mercato non è sovrano – Ae 76

Sono passati dieci anni dalla promessa di dimezzare il numero di chi soffre la fame. Dieci anni persi. Alle parole sono seguiti solo risultati irrilevanti. Ottobre è un mese di mobilitazione per la “sovranità alimentare” Per la fame il tempo…

Tratto da Altreconomia 76 — Ottobre 2006

Sono passati dieci anni dalla promessa di dimezzare il numero di chi soffre la fame. Dieci anni persi. Alle parole sono seguiti solo risultati irrilevanti. Ottobre è un mese di mobilitazione per la “sovranità alimentare”


Per la fame il tempo si è fermato. Sono passati dieci anni esatti da quando, durante il World Food Summit della Fao (l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), i Paesi partecipanti si impegnarono a dimezzare il numero degli oltre 800 milioni di affamati entro il 2015.

Ma alle parole sono seguiti risultati irrilevanti: il numero di chi è denutrito non è cambiato e oggi gli affamati nel mondo sono 852 milioni. Uno scandalo con cui dovranno fare i conti le delegazioni governative riunite dal 30 ottobre al 4 novembre a Roma nella sede della Fao, nell’ambito del Comitato per la sicurezza alimentare. Dieci anni persi, che rendono il 2015 una meta impossibile. Quello dell’insicurezza alimentare è un fenomeno complesso, che investe soprattutto le aree rurali: nel mondo, infatti, soltanto un quinto degli affamati abita in città. In altre parole -anche se può sembrare un paradosso- la maggior parte delle persone sottonutrite abita in quelle zone del pianeta dove gli alimenti vengono coltivati, raccolti, allevati, pescati e poi immessi nel sistema di consumo.

Degli 852 milioni complessivi, 221 milioni vivono in India e 142 in Cina, mentre è nell’Africa sub-sahariana che si registra la più alta incidenza della fame, con una persona su tre che vive in condizioni di insicurezza alimentare. E ogni anno 5 milioni di bambini muoiono per mancanza di cibo. Una situazione da brivido che i singoli governi e la comunità internazionale si rivelano incapaci di risolvere. Quando nel 1996 il Summit annunciò solennemente l’obiettivo del dimezzamento in 20 anni, le organizzazioni sociali e non governative, riunite in un Forum parallelo, denunciarono la mancanza di coraggio che quel traguardo nascondeva, ma ancor più le strategie: l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) era nata da appena un anno e il clima del Summit Fao risentiva della ventata liberista, tanto da inserire fra i sette impegni assunti durante il vertice proprio quello di perseguire la sicurezza alimentare attraverso politiche orientate al mercato globale.

Quel commercio internazionale di prodotti alimentari che si vuole a ogni costo incoraggiare e che oggi vale solo il 10% della produzione agricola totale, un valore inferiore a quello dei mercati interni di Stati Uniti, Unione Europea, India e Cina.

Un mercato dove i contadini stanziali, i pastori nomadi, i pescatori artigianali -cioè i principali protagonisti, loro malgrado, dell’insicurezza alimentare- sono il più delle volte vittime dell’invasione di merci di provenienza estera vendute spesso a un prezzo inferiore al costo di produzione (vedi intervista a p. 20). Un mercato frutto per due terzi di scambi tra i Paesi dell’Ocse (cioè i più ricchi, comunque capaci di dettare le regole del commercio agricolo in termini di prezzi o standard qualitativi), e appannaggio di due segmenti della filiera agroalimentare: i grandi trader, che trattano le materie prime nelle Borse merci, trasportandole attraverso gli oceani o i continenti, e le catene internazionali della grande distribuzione.

È quindi sbagliato guardare alla vicenda alimentare -e alla fame- come la conseguenza di un conflitto tutto interno al mondo agricolo banalmente polarizzato in Nord-contro-Sud.

Si tratta piuttosto di uno scontro tra modelli agroalimentari divergenti, uno che si regge su materie prime a basso costo, sullo smantellamento delle protezioni e su prodotti omogenei destinati a (super)mercati indistinti (se non per le marche e il marketing connesso) e l’altro fortemente ancorato al territorio (di produzione e consumo) di prodotti poco o per nulla oggetto di trasformazione industriale. Ma ottobre sarà anche il mese della “sovranità alimentare”: il concetto è stato delineato proprio nel 1996, nel corso del Forum della società civile parallelo al Summit della Fao e utilizzato per sottolineare la critica strutturale al sistema agroindustriale fondato sul controllo della risorsa alimentare da parte di un oligopolio. Sovranità alimentare significa infatti rivendicare il ruolo centrale dei lavoratori delle campagne, riconoscere la piena legittimità di politiche autonome di governo dei territori agricoli, riappropriarsi del diritto all’autodeterminazione, centrare la produzione agricola sulla sostenibilità ambientale e sociale. A ogni latitudine.

Ecco perché la mobilitazione in corso in tutta Italia fino a novembre, sostenuta dal Comitato italiano per la sovranità alimentare, ci riguarda da vicino e non rappresenta una “semplice” attestazione di solidarietà verso i contadini del Sud del mondo: ci riguarda come cittadini interessati al rispetto dei diritti elementari al di sopra delle regole commerciali, ci riguarda come consumatori che pretendono cibi sani, gustosi e “giusti”, ci riguarda come contribuenti che accettano di sostenere il reddito degli agricoltori a patto che questo non si traduca in una rendita (come per anni è accaduto con la Politica agricola europea), e riguarda quella parte di noi che lavora per produrre alimenti difendendoli dall’omologazione o dagli ogm.

Per questo, anche nel Nord “sviluppato” abbiamo bisogno della Fao. Di una Fao sganciata dagli interessi corporativi e dalla prepotenza di quei governi che ne vogliono ridimensionare ruolo e attività. Di una Fao (attualmente alle prese con una difficile riforma interna, vedi box in alto), che verrà probabilmente additata da mezzi di comunicazione frettolosi come l’organizzazione incapace di perseguire il mandato che la comunità internazionale le ha assegnato, anche se le responsabilità del fallimento nella lotta alla fame sono da addossare principalmente ai governi che hanno disatteso gli impegni sottoscritti nel 1996 e al conflitto fra politiche sociali e commerciali che si produce a livello nazionale e nel corso di negoziati internazionali, primo fra tutti quello della Wto, dove il nodo agricolo è capace di mettere a rischio le stesse sorti dell’Organizzazione mondiale del commercio. Se mai paralisi della Wto si dovesse verificare davvero, una Fao forte potrebbe riappropriarsi di un ruolo guida nelle politiche agricole e alimentari, restituendo al commercio degli alimenti quel ruolo virtuoso di circolazione capillare del cibo che oggi non ha più.



*L’autore è membro del Consiglio dei diritti genetici

www.consigliodirittigenetici.org



Fao, la riforma imperfetta

La Fao è nel guado di un’ennesima riforma che si incrocia con il grande restyling delle Nazioni Unite. Una riforma autonoma, ma che fa i conti, cercando di scansarli, con i disegni dei grandi Paesi sul destino dell’Onu. Una riforma imperfetta e difficile che cerca però di salvaguardare natura e mandato della Fao e di affrancarla da una prospettiva che la riduca a corpo tecnico cui delegare “il lavoro normativo relativo alla sicurezza degli alimenti e al loro commercio” (vedi documenti dell’Unione Europea) o a istituto di ricerca che “fornisce cifre” (intervento della delegazione Usa in varie riunioni), privo di un proprio organo di governo e di attività diretta. Questo significherebbe, tra l’altro, non avere più i programmi di sostegno alle agricolture povere, né basare le competenze sulle esperienze dirette di campo nè sostenere le iniziative proposte e realizzate dalle organizzazioni sociali o dalle comunità locali. I programmi di sviluppo rurale tornerebbero appannaggio esclusivo della cooperazione bilaterale secondo la logica “aid for trade” o imponendo forti condizioni ai Paesi. Nella riforma delle Nazioni Unite, i destini dell’agricoltura e dell’alimentazione planetaria sarebbero liquidati con un punto all’ordine del giorno dell’Assemblea generale in un paio d’ore discussione.

Antonio Onorati presidente dell’ong Crocevia



Un mese per mobilitarvi

Mobilitatevi, avete un mese di tempo: fino al 4 novembre si susseguiranno in tutta Italia le iniziative per il diritto alla sovranità alimentare, organizzate dalle decine di sigle che aderiscono all’omonimo Comitato. Appuntamenti che vanno dal seminario internazionale “Educazione per le popolazioni rurali e sicurezza alimentare”, a Roma il 17 e 18 ottobre, organizzato da Acra e ong europee con Fao e Unesco, al convegno “Vincere la fame si deve” a Novara il 19, organizzato da Cisv, Mais,  Associazione ong italiane  e Coop; non mancheranno i momenti su commercio equo e consumo critico.

Per il programma dettagliato: internazionale@focsiv.it



Terra madre, a Torino

L’agricoltura diversa, sostenibile e “lenta” è a Torino: dal 26 al 30 ottobre si terrà “Terra madre”, l’“incontro mondiale tra le comunità del cibo” ideato da Slow Food che quest’anno raccoglierà, tra l’altro, 5 mila tra contadini, allevatori e produttori artigianali del settore agroalimentare provenienti da tutto il mondo accomunati dall’attenzione alle risorse ambientali, al sapore dei cibi, alla dignità dei lavoratori e alla salute dei consumatori.

Gli antipodi, insomma, della produzione agricola industriale che finisce troppo spesso sulle nostre tavole. Ai momenti per addetti ai lavori si alterneranno conferenze aperte alpubblico, su temi come agricoltura sostenibile e biodiversità, acqua (e relazione tra agricoltura e consumi), filiera corta, cibo e pace (“Quanto pesa la guerra sulle produzioni agricole”).

Info e programma in aggiornamento:

www.terramadre2006.org



Kuminda slitta al 2007 ma il progetto non si ferma

Kuminda non si farà. Il primo festival per il cibo equo e sostenibile, che avrebbe dovuto svolgersi a Parma nel mese di ottobre e che faceva parte della mobilitazione sulla sovranità alimentare, è stato spostato al 2007, a data da definirsi. Il motivo: “problemi organizzativi non risolvibili in tempi utili”. Ma l’associazione “Cibopertutti”, che ha ideato e promosso Kuminda, fa sapere che il progetto va avanti a che tra il 13 e il 15 ottobre si svolgeranno comunque una serie di seminari, laboratori e spettacoli teatrali (info: tel. 0521-28.12.95, 334-74.43.054, francesca@kuminda.org). E sempre a Parma, dal 10 al 12 ottobre, si riunirà il Consiglio internazionale del Social forum mondiale, per definire l’appuntamento di Nairobi di gennaio.



Accordi a senso unico

La liberalizzazione degli scambi tra Europa e Africa danneggerà i piccoli agricoltori: la denuncia arriva dalla campagna EuropAfrica-Terre contadine, che ha appena lanciato una petizione sugli Ape, gli Accordi di partenariato economico che l’Ue sta negoziando con 77 Paesi di Africa, Caraibi e Pacifico (i cosiddetti Acp), sue ex colonie. Accordi di libero scambio che riguardano anche i prodotti agricoli e che potrebbero trasformarsi in un vantaggio a senso unico: aprendo i mercati del Sud “a forti quantità di produzioni europee” a fronte di esportazioni ancora troppo deboli da parte dei Paesi poveri: il 60% dell’export degli Acp si concentra su appena nove prodotti e la partecipazione di questi Paesi al commercio mondiale

è crollata dal 3,4% del 1976 all’1,1% del 1999. La petizione di EuropAfrica è indirizzata al governo italiano e alla Commissione europea. Info: www.europafrica.info







Davide Musso

La dittatura dell’export

Se l’agricoltura si “vende” all’export, i contadini rischiano lo fame. Ridotto all’osso, è il pensiero di Ndiogou Fall: quando un Paese del Sud punta sull’agricoltura da esportazione sottrae terreni alle colture per il consumo locale, e l’insicurezza alimentare -quella dei coltivatori in particolare- aumenta. Questo tema per Fall è pane quotidiano: senegalese, è presidente del Roppa (www.roppa.info), la più grande piattaforma contadina dell’Africa Occidentale, cui aderiscono 35 milioni di agricoltori in 12 Paesi.

Export e benessere, insomma, non vanno di pari passo, e gli esempi non mancano. In Costa d’Avorio il 31% della popolazione vive sotto la soglia di povertà: il Paese è il primo esportatore di cacao al mondo (per 1,6 miliardi di dollari sui 7,3 dell’export nazionale). In Ecuador, capofila tra gli esportatori di banane (che con un miliardo di dollari sono il primo prodotto del Paese dopo il petrolio), la popolazione povera arriva al 41%. Il Burkina Faso -45% della popolazione sotto la soglia di povertà- nel 2005 ha esportato cotone per 286 milioni di dollari su 446 di esportazioni totali e il Mali, nello stesso periodo, sul cotone ha puntato un quarto del suo export, per 300 milioni di dollari: qui i poveri arrivano al 64%.

E si potrebbe continuare. Il problema è che questo sistema, a causa dei prezzi bassi del mercato, arricchisce i grandi trader e minaccia sempre più la sopravvivenza dei piccoli agricoltori. “Hanno ucciso le filiere per il consumo locale”, spiega ad Altreconomia Ndiogou Fall, ospite in Italia della campagna EuropAfrica per partecipare a un dibattito con il ministro per le Politiche agricole Paolo De Castro.



Da quando e perché si inizia a puntare su un’agricoltura “export oriented”?

Per l’Africa si possono individuare tre grandi fasi. Fino al 1970 le politiche agricole puntano ancora all’export per approvvigionare le ex-colonie. Il periodo 1970-1980 è quello delle grandi siccità e delle carestie, che mettono in luce l’importanza della sicurezza alimentare: vengono avviati programmi agricoli per sviluppare la coltivazioni per il consumo locale. Dagli anni 80 in poi arrivano le politiche

di aggiustamento strutturale della Banca mondiale e l’apertura dei mercati africani all’export. Si smette di parlare di autosufficienza alimentare e si punta sulle esportazioni, che dovrebbero generare le risorse economiche per l’acquisto di cibo da parte della popolazione.



Qual è la situazione attuale?

Praticamente tutti i Paesi africani hanno conosciuto questa evoluzione: è il caso della Costa d’Avorio, per esempio, che diventa il primo produttore di cacao al mondo, o del Burkina Faso con il cotone, del Kenya con le coltivazioni di fiori, del Senegal con i fagiolini verdi. Ma un discorso analogo vale per altri prodotti, come caffè, banane e ananas, che hanno soppiantato quelli per il consumo locale: il riso, il miglio o il sorgo, per esempio, per i quali è diminuita la superficie di terreno coltivabile.



Che problemi comporta un’agricoltura di questo tipo?

Alle produzioni export oriented vanno tutti i sussidi per la ricerca e tutti i finanziamenti. Le filiere per il consumo locale sono state uccise e questo ha portato a una dipendenza alimentare dall’esterno. E i piccoli agricoltori non guadagnano nulla perché, a causa della competizione mondiale, i prezzi dei prodotti agricoli si abbassano enormemente mentre il costo delle sementi e dei fertilizzanti aumenta. A guadagnare davvero sono soltanto le grandi aziende di import-export. A questo va aggiunta la questione dei sussidi che alcuni Paesi, come gli Usa e l’Europa, garantiscono a produzioni interne, come il cotone. Gli analoghi prodotti africani perdono mercato e le nostre città vengono invase da beni importati, venduti a prezzi più bassi di quelli locali. La povertà aumenta, i piccoli agricoltori abbandonano le aree rurali per cercare lavoro nei centri urbani, e quando il mercato è saturo non resta che la strada dell’emigrazione disperata e selvaggia verso i Paesi del Nord.



Anche all’interno del “movimento” c’è chi sostiene che, per spezzare questa catena, il Nord dovrebbe smettere di importare dal Sud e, a sua volta, consumare soltanto prodotti locali. Che ne pensa?

Fermare gli scambi a livello mondiale sarebbe impossibile. Bisogna piuttosto puntare su politiche che non privilegino mercati competitivi, ma complementari, proteggendo in ogni Paese quei prodotti che possono garantire l’autosufficienza alimentare della popolazione. Questo orientamento è ovviamente in contrasto con il liberismo sfrenato.



Il governo italiano sostiene che per rilanciare il settore agroalimentare si dovrà puntare sull’export…

Questa scelta dell’export è pericolosa per il Sud del mondo ma anche per l’agricoltura italiana, perché se le misure che permettono all’Italia di esportare valgono anche per altri Paesi, come il Brasile per esempio, presto l’Italia sarà invasa dai prodotti agricoli dei maggiori esportatori mondiali, secondo una logica per cui a vincere è il più forte. L’Africa sarebbe la prima vittima di questo meccanismo, ma anche l’Europa ne verrebbe danneggiata.



Cosa bisognerebbe fare delle eccedenze agricole, se non esportarle?

Bisogna fermare la corsa alla produzione. Le eccedenze agricole non hanno scongiurato le carestie e non hanno fatto bene al Sud del mondo, tutt’altro. Bisogna impedire che le eccedenze invadano i Paesi del Sud.









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