Il progetto
Che aspetto hanno i campi di confinamento costruiti o finanziati dai Paesi dell’Unione europea in questi anni per segregare i richiedenti asilo e/o i migranti in transito e come hanno stravolto i territori nei quali sono stati realizzati? Grazie al libro “Chiusi dentro” curato da RiVolti ai Balcani ed edito da Altreconomia nel 2024 è nato il progetto digitale “Chiusi dentro. Dall’alto”, che con le immagini satellitari esclusive eseguite da PlaceMarks mostra il volto delle politiche europee: per bloccare, respingere, confinare, condannare alla marginalizzazione.
Dalla Turchia alla Grecia, dalla Serbia all’Italia, dall’Albania alla Bosnia ed Erzegovina, passando per Lituania, Macedonia del Nord, Ungheria e ancora. Quindici Paesi, oltre 100 tra immagini e mappe per conoscere e far conoscere i campi dell’Europa di oggi.
È un progetto della rete RiVolti ai Balcani, realizzato da Altreconomia in collaborazione con PlaceMarks.
Pubblicato il 16 settembre 2024 – Ultimo aggiornamento: 16 settembre 2024
Questo progetto è una sorta di spin-off del libro “Chiusi dentro”, al quale si rimanda per la comprensione del fenomeno nella sua interezza e complessità. “Chiusi dentro. Dall’alto” non ha infatti la pretesa di far vedere tutti i campi di detenzione, trattenimento e perciò confinamento dei migranti in Europa o nelle sue immediate vicinanze -cosa di per sé impossibile-, ma vuole raccontare materialmente alcuni casi emblematici, e sotto certi profili inquietanti. Per la loro evoluzione (o involuzione) nel tempo, con efficacissimi effetti prima-dopo, sottolineando anche le caratteristiche delle strutture che abbiamo visto sorgere, la loro collocazione geografica, la frequente natura carceraria, l’essere realizzate in aree remote oppure dentro il cuore del contesto urbano. Con numerose aggiunte rispetto ai casi esaminati nel libro, data la forza dell’immagine satellitare e della vicenda storica raccontata.
“C’è un mantra che percorre l’Unione europea, un accordo ferreo che unisce, senza eccezioni, gli Stati che la compongono. Divisi su (quasi) tutto, essi si ritrovano su un punto: limitare al massimo gli ingressi di migranti nel territorio dell’Unione, chiudere e presidiare le frontiere” – Livio Pepino, dalla prefazione di “Chiusi dentro”
I casi Paese
• Turchia • Cipro • Grecia • Bulgaria • Macedonia del Nord • Serbia • Bosnia ed Erzegovina • Ungheria • Croazia • Albania • Italia • Francia • Spagna • Polonia • Lituania
La scelta dei Paesi segue e integra quella fatta nel libro “Chiusi dentro”. Ci sono veri e propri Paesi di confinamento esterni all’Unione europea (come la Turchia), Stati membri dell’Ue così come Paesi che non fanno parte dell’Unione ma che pure sono nel cuore dell’Europa. Si ripercorrono le rotte balcaniche di terra ma si guarda anche al Mediterraneo e all’Egeo. Un modo per dar conto della diffusione di questa strategia che ha visto tornare il modello dei campi.
“La finalità degli attuali campi di confinamento è quella di confinare masse consistenti di esseri umani degradati a ‘non-persone’ di cui ci si deve occupare al solo fine di impedire, almeno in parte, che essi raggiungano il territorio di quegli Stati che non intendono, sia in termini giuridici che materiali, farsene carico. Nella misura in cui il campo di confinamento ha come primaria finalità la gestione autoritaria di masse umane considerate in eccesso, può dunque anch’esso, con le sue peculiarità, essere considerato un’istituzione concentrazionaria” – Gianfranco Schiavone da “Chiusi dentro”
Turchia
“L’intricata realtà dei campi di confinamento in Turchia rivela un panorama complesso, in cui si intersecano questioni umanitarie, problemi di natura giuridica e dinamiche geopolitiche. Le vite confinate entro questi spazi rispecchiano le sfide affrontate dal macrocosmo delle popolazioni sfollate di tutto il mondo”. Così scrive l’avvocato Mahmut Kacan, esperto di diritti umani, nel suo capitolo del libro “Chiusi dentro” dedicato alla Turchia, un vero e proprio caso di Paese di confinamento.
Le immagini che seguono raccontano da un lato gli effetti della guerra nella confinante Siria esplosa nel marzo 2011 (e anche del disastroso terremoto del 6 febbraio 2023) e dall’altro le ricadute della scelta del Consiglio europeo di pagare il governo turco affinché trattenesse sul proprio territorio milioni di rifugiati siriani. Come ricostruito da Caterina Bove e Matteo Astuti in “Chusi dentro”, risale infatti al marzo 2016 la dichiarazione, nota come accordo tra l’Unione europea e la Turchia, attraverso la quale la Turchia, a fronte di un corrispettivo di sei miliardi di euro, all’ottenimento di un impegno relativo alla liberalizzazione della politica di visti per i cittadini turchi e a una accelerazione del processo di adesione all’Ue e a promesse di reinsediamento nel territorio dell’Unione di cittadini siriani a fronte della riammissione dalla Grecia di “altri” cittadini siriani, si è dichiarata disponibile a impegnarsi negli interventi di pattugliamento marittimo per evitare le partenze verso l’Europa, e nel rimpatrio di coloro che irregolarmente raggiungono le isole dell’Egeo della Turchia e a fornire apparenti misure di accoglienza e tutela per i cittadini siriani soggiornanti.
“La Corte di giustizia dell’Unione europea, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di questa dichiarazione e annesso stanziamento di fondi per gli scopi annunciati e sulla loro compatibilità con il rispetto dei diritti fondamentali -continuano Bove e Astuti- ha potuto/dovuto non pronunciarsi: formalmente l’annuncio (pur concreto e concretizzatosi) non è un accordo internazionale e non è neanche un impegno preso da e nei confronti di un’istituzione europea ma dai -e nei confronti dei- singoli Stati che la compongono (del tema si è occupata di recente anche la Corte dei conti europea, ndr)”.
Il programma di ricollocamento dei rifugiati siriani dalla Turchia verso l’Unione europea è stato un fallimento e ha prodotto soprattutto la marginalizzazione di milioni di persone. Basti pensare che al marzo 2024 sono oltre tre milioni i rifugiati siriani in Turchia mentre i reinsediamenti dal 2016 non arrivano a 70mila unità. “Si è trattato di un fallimento pianificato -scrive Gianfranco Schiavone in ‘Chiusi dentro’- in quanto il programma di reinsediamento era destinato da subito a consumarsi nel breve tempo fino a cessare del tutto ed essere dimenticato. L’annunciato programma di scambio che avrebbe ridotto i rifugiati siriani a niente più che prigionieri, già di per sé quanto mai censurabile per le sue modalità, era di fatto un programma di copertura delle reali finalità: confinare i rifugiati in Turchia senza alcuna altra soluzione. Il sistema dei campi di confinamento non prevede infatti l’attivazione di programmi e interventi finalizzati a far evolvere la condizione delle persone confinate attraverso trasferimenti in Paesi in grado di offrire loro un’effettiva protezione, né prevede programmi organizzati per il rilascio di visti di ingresso per motivi umanitari in applicazione del Codice europeo sui visti”.
Le più recenti dinamiche registrate in Turchia danno conto di una gestione della migrazione incentrata sulla sicurezza, con priorità al “rimpatrio volontario”, all’espulsione, al respingimento anche via mare e a una gestione “chiusa” delle frontiere. Il sentimento anti-migranti è dato in crescita, soprattutto durante le elezioni. La registrazione delle persone è resa sempre più complicata e cresce pertanto la quota di coloro che si ritrovano senza documenti, condannati a un limbo rispetto all’accesso ai diritti a causa anche della mancanza di trasparenza nell’attuazione dei regolamenti e delle procedure.
Iniziamo questo viaggio con il Temporary accommodation centre di Adana (qui sotto), che si trova a oltre dieci chilometri dall’omonima città capoluogo della provincia, ed è raggiungibile solo con strade secondarie (verosimilmente non asfaltate). Nato come tendopoli di emergenza nel 2012, è diventato un vero e proprio campo con tende e container per rifugiati siriani nel 2016. Questo scatto risale al 2018. Nel 2020 è iniziato un parziale smantellamento ma il campo è ancora attivo e al marzo 2024 ospitava quasi 13mila persone (dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, Oim).
Un altro campo destinato ai profughi siriani in Turchia -erano nove distribuiti su cinque province a fine 2023- è quello di Osmaniye (oltre 10mila persone di nazionalità siriana presenti al marzo 2024 secondo l’Oim). A differenza di Adana è adiacente a siti industriali e un’area residenziale. Tendopoli di emergenza a partire dal 2012, così come l’altro campo, dal 2016 ha ospitato tende e container (simili ad Adana) con strutture prefabbricate anche multipiano. L’immagine satellitare di seguito è del 2020 e mostra il parziale sgombero avviato quell’anno. Doppia recinzione, con strutture a isolati, la struttura è attiva.
Significativo anche il caso del campo di Islahiye. Anche questo è nato nel 2012, pochi mesi dopo l’inizio della guerra in Siria, come tendopoli provvisoria. Si può notare allora l’altissima densità, la doppia recinzione, la scarsità di spazi liberi e di servizi. Osservandone l’evoluzione nel tempo si può affermare che non sia stato mai ampliato o migliorato. È stato smantellato a partire dal 2019 ed è oggi sostituito da un quartiere residenziale di condomini.
Il campo di Islahiye
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“La Turchia, in sintonia con una dichiarata politica della porta aperta, ha accolto un elevato numero di rifugiati, diventando perciò un importante centro di movimenti migratori. Il governo turco, in larga parte impreparato, ha allestito svariate tendopoli lungo la frontiera meridionale, molto lontano dalle città” – Mahmut Kacan da “Chiusi dentro”
Impressionano poi le dimensioni dei campi per rifugiati di Nizip, Elbeyli e Kilis. Il primo, gigantesco, è stato realizzato a partire dal 2012 nei pressi di una diga per la produzione idroelettrica, nella provincia di Gaziantep, dove a metà 2024 risultano registrati 430mila rifugiati siriani su 2,5 milioni di residenti (il 16,5%).
Un primo smantellamento di Nizip è iniziato nel 2020, come si può notare dal confronto di seguito che riguarda un’area specifica del campo tra 2017 e 2022.
Il campo di Nizip
Nella provincia di Kilis a metà 2024 risultano residenti poco più di 225mila persone. I rifugiati siriani registrati sono oltre 70mila, quasi un terzo. Il campo di seguito è adiacente al valico di confine con la Siria. Le immagini che seguono mostrano la situazione precedente alla crisi (2011) e poi successiva, nel 2016, con la militarizzazione della linea di confine e la nascita dei due campi (uno turco, in alto, e uno siriano, in basso). Il campo in Turchia è organizzato con container, mura di cinta e recinzione, torrette e vari spazi comuni. Oggi risulta in parte smantellato.
Il campo di Kilis
Spostando lo sguardo in territorio siriano si possono osservare enormi accampamenti informali sorti a partire dal 2013, presenti ancora oggi.
La situazione in territorio siriano
Il campo del distretto di Elbeyli, ancora nella provincia di Kilis, poggia praticamente sulla linea di confine con la Siria. Sorge in un’area isolata, con file di container e spazi comuni. Ha un muro di cinta, torri e una recinzione metallica. Lo scatto è del 2016 e la struttura risulta in parziale dismissione.
Per approfondire:
• Il capitolo di Mahmut Kacan sulla Turchia nel libro “Chiusi dentro”
• Il capitolo di Caterina Bove e Matteo Astuti sull’esternalizzazione del diritto d’asilo nel libro “Chiusi dentro”
• L’ultimo rapporto sulla Turchia sull’Asylum information database (Aida)
Gli altri Paesi:
• Cipro • Grecia • Bulgaria • Macedonia del Nord • Serbia • Bosnia ed Erzegovina • Ungheria • Croazia • Albania • Italia • Francia • Spagna • Polonia • Lituania
Cipro
Cipro è il Paese dell’Unione europea che nel 2023 ha registrato la più alta percentuale di rimpatri di nuovi richiedenti asilo. E da tempo si registra una crescita significativa della violenza contro i migranti, con incidenti che per il Cyprus Refugee Council “hanno incluso manifestazioni simili a pogrom e attacchi violenti contro migranti e rifugiati”. I principali incidenti si sono verificati a Chloraka e poi a Limassol, dove sono stati distrutti negozi di proprietà di immigrati e diverse persone sono state attaccate dalla folla. “Gli esperti hanno dato la colpa alla crescente diffusione della xenofobia nella politica e nei media ciprioti, alimentata dalla diffusione della disinformazione e dalla cattiva gestione del gran numero di persone che cercano di raggiungere l’Europa”.
Per capire il clima che si respira sull’isola intorno alle persone in movimento e ai richiedenti asilo tornano utili anche le parole dello scorso settembre di Bill Frelick, direttore della divisione Rifugiati e migranti di Human Rights Watch: “A metà settembre del 2023 il ministro dell’Interno cipriota Constantinos Ioannou ha lamentato il fatto che gli Stati membri dell’Unione europea non possono rimpatriare i richiedenti asilo in Siria e ha affermato che l’Ue dovrebbe rivalutare se la Siria è sicura per i rimpatri, in modo che i richiedenti asilo possano essere deportati o rimpatriati”.
Un’uscita improvvida che però racconta l’orientamento politico dell’esecutivo cipriota. Nel Paese in questi anni sono state adottate misure per “velocizzare” (cioè rendere più sbrigativo) l’esame delle domande di asilo, ridurre il supporto finanziario ai richiedenti asilo e iniziare la costruzione di un centro di detenzione per migranti per, come ha dichiarato lo stesso Ioannou, “rendere Cipro una destinazione poco attraente”. Dal 2019 l’Agenzia europea Frontex supporta Cipro nella “gestione” delle frontiere e dei flussi migratori.
Mostriamo qui una immagine satellitare del 2023 del First Registration Centre di Pournara nella località di Kokkinotrimithia, a Ovest di Nicosia.
“Il centro di accoglienza […] è stato originariamente creato nel 2014 come una struttura di tende con una capacità di 350 persone grazie a un finanziamento dell’Unione europea per far fronte all’aumento degli arrivi dalla Siria ed era previsto solo per fornire una sistemazione di emergenza di 72 ore ai richiedenti asilo appena arrivati -ricorda il Cyprus Refugee Council-. A partire dal 2020, i richiedenti asilo arrivati nel Paese in modo irregolare vengono indirizzati a Pournara. I servizi forniti dal Centro comprendono l’identificazione, la registrazione e la presentazione delle domande di asilo, nonché gli esami medici e le valutazioni di vulnerabilità. La durata del soggiorno nel 2023 è stata di circa 30-40 giorni per gli adulti, mentre per i rifugiati è più lunga, in media tre mesi. Durante la permanenza nel centro i richiedenti asilo non possono uscire”.
Per approfondire:
• L’ultimo rapporto su Cipro sull’Asylum information database (Aida)
• Il rapporto “I Can’t Go Home, Stay Here, or Leave” di Human Rights Watch
Gli altri Paesi:
• Turchia • Grecia • Bulgaria • Macedonia del Nord • Serbia • Bosnia ed Erzegovina • Ungheria • Croazia • Albania • Italia • Francia • Spagna • Polonia • Lituania
Grecia
Nella strategia di confinamento delle persone in movimento adottata dall’Unione europea e dai governi dei Paesi membri negli ultimi anni, la Grecia rappresenta un caso esemplare dell’affermarsi del campo come unica forma di “accoglienza” per richiedenti asilo, “migranti irregolari” e anche per chi ottiene la protezione internazionale in un contesto di privazione dei diritti fondamentali.
A partire dall’entrata in vigore del presunto accordo tra Ue e Turchia del marzo del 2016, la Grecia è diventata sempre più un vero e proprio laboratorio dove sono state sperimentate nuove modalità per la gestione dei flussi migratori, dall’approccio hotspot alla “finzione di non ingresso”, passando per i respingimenti -anche di richiedenti asilo e rifugiati- fino alla detenzione vera e propria, trasformandosi negli anni da Paese di transito a spazio di confinamento e invisibilizzazione delle persone.
Qui sopra il campo di Moria, sull’isola greca di Lesbo, prima e dopo il terribile incendio del settembre 2020
Queste politiche hanno tratto linfa dalla distorsione della realtà. Secondo i dati forniti dall’Agenzia europea Frontex, dopo la presunta crisi dei rifugiati del 2015, quando la rotta orientale aveva visto 885.386 attraversamenti ufficiali, il numero delle persone arrivate in Europa dalla Turchia si è stabilizzato ampiamente sotto i 100mila arrivi: 42.319 nel 2017, 56.561 nel 2018, 83.333 nel 2019, 19.681 nel 2020, 20.567 nel 2021, 43.906 nel 2022. Nel corso del 2023 l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha registrato 47.930 persone migranti giunte in Grecia, di cui 6.369 via terra e 41.561 via mare. Tra gli sbarcati le prime cinque nazionalità sono state quella siriana (31,25%), afghana (20,01%), palestinese (16,29%), somala (6,47%) ed eritrea (4,24%). Le donne rappresentano il 22% del totale, i minori il 35%. La maggior parte dei nuovi arrivi (38%) è stata registrata sulle isole del Dodecaneso, seguite da Lesbo (32%), Samos (19%), Chios (6%) e poi le altre (5%).
Le isole sono diventate delle trappole per i migranti, come ha spiegato Martina Tazzioli, professoressa associata in Geografia all’università di Bologna, autrice di “Border Abolitionism. Migration containment and the genealogies of struggles and rescue” (2023), “The Making of Migration. The biopolitics of mobility at Europe’s borders” (2019) e “Spaces of Governmentality. Autonomy of migration and the Arab Uprisings” (2015) e attenta osservatrice delle dinamiche dei campi greci.
Ma una trasformazione radicale si è registrata soprattutto sulla terraferma. “A partire dal settembre/ottobre 2022 le persone che intendono richiedere asilo sono indirizzate in due campi: Malakasa, relativamente vicino ad Atene, e Diavata nel Nord, vicino a Salonicco -le parole di Tazzioli tratte dal volume ‘Chiusi dentro’-. Non è più possibile chiedere protezione in altro modo e non è una procedura veloce: le persone restano intrappolate in questi due campi per almeno 25 giorni, il tempo limite previsto dalle autorità greche ai fini di concludere tutte le procedure di registrazione (in realtà capita che restino anche di più per le lungaggini dovute alla mancanza di personale) e per questo tempo non hanno diritto a uscire dal campo”.
Di seguito si può osservare la creazione del campo di Malakasa sulla terraferma greca, a 25 chilometri da Atene, lungo l’autostrada. Come quello di Diavata, anche Malakasa è diventato un hotspot dove avviene tutto: dalla registrazione da parte della polizia alla raccolta della domanda per diventare richiedenti asilo.
Il campo di Malakasa
A questa trasformazione dei campi sulla terraferma è corrisposta anche una parziale trasformazione di quelli sulle isole che sono stati trasformati in Close Control Access Center of Islands (Ccaci), cioè nuove strutture che prevedono un accesso delle persone maggiormente controllato in entrata e in uscita.
L’“approccio hotspot” è stato introdotto nel 2015 dalla Commissione europea con l’adozione dell’Agenda europea sulle migrazioni al fine di “assistere” Italia e Grecia affinché adempiessero agli obblighi previsti dal diritto dell’Ue: identificare, registrare e rilevare rapidamente le impronte digitali dei migranti in arrivo, incanalare i richiedenti nelle procedure di asilo, attuare il programma di ricollocamento e condurre le operazioni di rimpatrio. A questo scopo sono stati istituiti in Grecia cinque hotspot sotto la forma giuridica di Centri di prima accoglienza a Lesbo, Chios, Samos, Leros e Kos che a partire dal 2021 sono stati trasformati in Closed controlled access centres of islands. Le strutture degli hotspot avrebbero dovuto avere 7.450 posti ma la loro capacità è salita a 13.338 alla fine del 2020 e con la costruzione dei Ccaci ha raggiunto 15.934 unità.
A Samos, Leros, Lesbo e Chios le nuove strutture chiuse sono state spostate in aree diverse rispetto a quelle in cui si trovavano i precedenti centri e sono state collocate in località remote, isolate dalle aree urbane e con scarsi collegamenti con le città principali di ciascuna isola.
Il campo di Samos
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In alto il centro di Samos che si trova a sette chilometri dalla città di Vathy. È collocato in zona isolata a circa quattro chilometri dai centri abitati più vicini. La struttura è carceraria e dal 2020 c’è stata una significativa espansione con grandi edifici a due piani o tensostrutture. Il campo è organizzato in compartimenti separati tra loro da recinzioni e muri in almeno dieci zone.
Il campo di Leros
Quello di Leros, qui sopra, a sei chilometri dalla città di Agia Marina e quelli di Kos (subito di seguito) e Chios (più sotto) rispettivamente a 15 e 11 chilometri dalle omonime città.
Il campo di Kos
Il campo di Chios
Così anche per il nuovo centro a Lesbo costruito in un’area a 30 chilometri dalla città di Mitilene. L’intero spazio pianeggiante negli anni è stato occupato. La trasformazione impressiona.
Il campo di Mitilene
Secondo le testimonianze raccolte dal Greek council for refugees le condizioni di vita all’interno dei Ccaci sulle isole sono simili a quelle di una prigione, con pratiche di detenzione illegale di fatto e restrizioni arbitrarie della libertà personale e della libertà di movimento. L’ambiente stesso ricorda un carcere: i siti sono delimitati da recinzioni intorno al perimetro e intorno a ogni sezione destinata agli alloggi; la sicurezza privata e la polizia svolgono una sorveglianza 24 ore al giorno.
Nel settembre 2023 ventidue organizzazioni, di cui la metà attive sulle isole, hanno denunciato “la detenzione illegale di oltre 4mila richiedenti asilo a Samos e Lesbo”.
I campi in Grecia svolgono una funzione anche in relazione alle pratiche dei respingimenti. Il Greek council for refugees nel suo report “At Europe’s borders: between impunity and criminalization” del marzo del 2023 argomenta che le operazioni di respingimento sono “una politica non ufficiale di migrazione e di frontiera attuata dalle autorità statali greche e dai loro ausiliari”, dimostrando che “tali pratiche illegali costituiscono una politica sistematica, meticolosamente pianificata e completa che coinvolge molteplici attori e fasi operative”
Impressiona, di nuovo, osservare la situazione sulla terraferma. A Fylakio, nella Regione di Evros, in una zona rurale isolata, è sorta una vera e propria struttura carceraria, con doppia recinzione e suddivisa internamente in comparti, uno probabilmente amministrativo e due detentivi. Il centro è stato più volte citato in questi anni da ricerche indipendenti quale luogo di gravissima violazione dei diritti delle persone in transito provenienti dalla Turchia.
Il campo di Fylakio
Qui sotto si può osservare anche la costruzione del campo di Kleidi, villaggio nel Comune di Amyntaio, nell’unità regionale Florina della Macedonia occidentale, a Sud di Promachonas. È molto isolato, a circa dieci chilometri dagli abitati più vicini. È inserito sul fondo di una valle stretta, con il possibile rischio di allagamento. Quasi tutti gli spazi edificabili sono stati occupati, si può notare anche la doppia recinzione metallica.
Il campo di Kleidi
Poi c’è il caso di Nea Kavala, a Polykastro. Le immagini che seguono mostrano molto bene il passaggio da una risposta di emergenza (con tende e container sulla pista dell’aeroporto) a una “soluzione” di campo strutturata con recinzione e tipologia a container allineati.
Il campo di Polykastro
In basso la zona agricola alla prima periferia di Serres, nella Regione greca della Macedonia centrale, nel 2016 e poi nel 2023. E a seguire uno zoom di dettaglio.
Il campo di Serres
C’è poi il caso di Corinto, con un campo realizzato nello stadio di una struttura militare. Un esempio di adattamento di spazi urbani esistenti. Alla struttura a tendoni comuni si aggiungono alcuni container posti sul perimetro. È stato realizzato tra il 2019 e il 2020.
Il campo di Corinto
Per approfondire:
• Il capitolo di Manuela Valsecchi nel libro “Chiusi dentro”
• Il capitolo di Anna Brambilla e Caterina Bove sulle riammissioni, forme mascherate di respingimento nel libro “Chiusi dentro”
• L’ultimo rapporto sulla Grecia sull’Asylum information database (Aida)
Gli altri Paesi:
• Turchia • Cipro • Bulgaria • Macedonia del Nord • Serbia • Bosnia ed Erzegovina • Ungheria • Croazia • Albania • Italia • Francia • Spagna • Polonia • Lituania
Bulgaria
“La cosa peggiore di tutte sono le condizioni igieniche. I bagni sono pessimi ed è impossibile fare una doccia decente. Alcuni wc sono staccati dalle pareti, altri sono otturati. E poi non abbiamo acqua calda. Nelle camere c’è il riscaldamento ma non funziona”.
È la testimonianza di M., uno degli ospiti di uno dei più grandi campi bulgari per i rifugiati che si trova ad Harmanli, cittadina di poco più di 25mila abitanti a meno di 50 chilometri dal confine con la Turchia, nel distretto di Haskovo. La sua voce è stata raccolta alla fine del 2023 dal Collettivo rotte balcaniche Alto vicentino che ha pubblicato a inizio gennaio 2024 un dettagliato rapporto intitolato “Torchlight” sulla condizione di vita delle persone migranti in Bulgaria.
“Sentivamo l’urgenza di diffondere il più possibile ciò che avevamo visto. Anche tra coloro che si interessano di questi temi si sa poco del confine bulgaro perché non c’è nessuno che se ne occupa” – Collettivo rotte balcaniche Alto vicentino
Tra il 2020 e il 2023, il Border violence monitoring network ha registrato 94 testimonianze di respingimenti dalla Bulgaria verso la Turchia o la Grecia, che hanno interessato oltre 1.824 persone in movimento. “I dati raccolti sono solo la punta dell’iceberg, poiché molti altri respingimenti non sono documentati”. I respingimenti dalla Bulgaria sono accompagnati da violenze che equivalgono a torture, trattamenti inumani e degradanti. Nel 2023 gli intervistati dal Bvmn hanno riferito violenze fisiche come calci, percosse con manganelli, furti di effetti personali, compresi i telefoni (necessari per comunicare, richiedere assistenza, essere in contatto con i rappresentanti legali e i propri cari), attacchi di cani (pratica costante delle guardie di frontiera bulgare che continua a non essere indagata), uso di armi da fuoco per garantire il rispetto delle regole, detenzione illegale e negazione di cibo e servizi sanitari durante la privazione della libertà.
La Bulgaria -ha denunciato inoltre il Bulgarian Helsinki Committee- continua ad applicare approcci diversi per garantire l’accesso al territorio alle persone in cerca di asilo e a quelle in fuga dalla guerra in Ucraina. “Mentre gli sfollati ucraini hanno giustamente continuato ad avere libero accesso al territorio e alla protezione temporanea disponibile, i richiedenti asilo provenienti dal Sud del mondo, arrivati con i flussi migratori misti, hanno continuato a soffrire per poter entrare nel territorio”. Questo ha comportato crescenti respingimenti lungo il confine esterno dell’Ue con la Turchia e il confine interno di Schengen con la Grecia. Il meccanismo di monitoraggio nazionale ha accertato nel 2023 qualcosa come “9.897 presunti respingimenti che hanno interessato 174.588 persone, un numero quasi doppio rispetto a quello registrato nel 2022”.
All’Unione europea questo modus operandi va bene. A marzo 2024 è stato infatti concordato tra la Bulgaria e la Commissione europea un “quadro di cooperazione sulla gestione delle frontiere e della migrazione”, in linea con l’ammissione parziale della Bulgaria e della Romania al blocco Schengen. Nell’ambito di questo accordo, come ricorda il Border violence monitoring network, la Bulgaria riceve 85 milioni di euro nell’ambito dello Strumento per la gestione delle frontiere e dei visti (BMVI) 2021-2027, progettato per “migliorare le capacità nazionali alle frontiere esterne dell’UE”. Il BMVI consente di richiedere ulteriori finanziamenti per estendere o aggiornare la tecnologia lungo i confini dello Stato: telecamere per il rilevamento del movimento e la termovisione, sistemi di raccolta di dati biometrici e tecnologia di frontiera. A metà giugno 2024 il capo della polizia bulgara Anton Zlatonov ha incontrato a Bruxelles il vicedirettore esecutivo dell’Agenzia Frontex per parlare di rimpatri e operazioni sul campo. “Due dei principali risultati dell’incontro sono stati l’impegno di Frontex a continuare a fornire 165 agenti al confine bulgaro-turco ogni mese e la promessa dell’Agenzia di fornire un supporto avanzato al confine bulgaro-serbo per prevenire i movimenti secondari di persone”, ha segnalato il Bvmn. Zlatonov avrebbe inoltre dichiarato che la Bulgaria sarebbe pronta a facilitare il rafforzamento della cooperazione tra Frontex e la Turchia.
Nel 2024 sarebbero stati registrati 3,5 volte meno tentativi di attraversare i confini dello Stato rispetto al 2023, e sono stati “impediti” 15.000 tentativi tra gennaio e maggio 2024 -rispetto ai 55.000 dello stesso periodo del 2023-.
A inizio 2024 l’organizzazione No Name Kitchen ha fornito una descrizione diretta del campo di Harmanli, il più grande campo bulgaro per richiedenti asilo, con allora circa 1.700 “ospiti”.
“Dopo aver trascorso un periodo in un campo di detenzione, le persone in movimento arrivano lì per un periodo di circa sei mesi in attesa che la lenta amministrazione riconosca il loro status. Alla fine di questo processo, ci spiegano che spesso devono pagare 450 euro a un ‘mediatore’ per registrare un indirizzo e ottenere un documento. […] La vita nel campo è caratterizzata dall’onnipresente ostilità del personale di sicurezza (che parla solo bulgaro), dalle infrastrutture obsolete e da scarsa igiene degli spazi comuni. Tutti i residenti descrivono la noia della vita in isolamento che aumenta le tensioni all’interno. […] Una giornata normale inizia con il conteggio delle presenze alle 8.30 del mattino, durante il quale la sicurezza non esita a usare violenza contro i ritardatari. Le stanze sono sovraffollate, con 15-30 persone che dormono in letti a castello. La puzza dei lavandini otturati nei bagni segnala la mancanza di cura per le infrastrutture di base del campo. Solo pochi lavandini funzionano e l’acqua calda nelle docce è un lusso. Vengono serviti due pasti, alle 11 e alle 15. Le porzioni sono scarse e spesso appena commestibili. Il mercato che solitamente vende cibo all’interno del campo è attualmente chiuso perché la sicurezza fa finta di cercare persone che vendono droga. Questo porta a multe arbitrarie (da 15 a 30 euro) distribuite a chiunque sia accusato di trasportare cibo con l’intento di venderlo. Il pomeriggio è l’occasione per incontrare amici e familiari, alcuni dei quali sono ancora in Siria, altri in Turchia, altri ancora altrove. Per i residenti, Harmanli è l’unico modo legale per chiedere asilo, poiché le loro impronte digitali sono conservate in Eurodac, costringendoli così a rimanere in Bulgaria”.
Per approfondire:
• Il lavoro del Collettivo rotte balcaniche Alto vicentino
• L’ultimo rapporto sulla Bulgaria sull’Asylum information database (Aida)
Gli altri Paesi:
• Turchia • Cipro • Grecia • Macedonia del Nord • Serbia • Bosnia ed Erzegovina • Ungheria • Croazia • Albania • Italia • Francia • Spagna • Polonia • Lituania
Macedonia del Nord
A seguito della crisi del sistema di asilo europeo del 2015, la Macedonia del Nord ha iniziato a implementare, per poi raffinare sempre di più, politiche di controllo e gestione delle frontiere basate sui respingimenti sistematici e sulla detenzione informale all’interno di campi di confinamento.
Trovandosi al centro della rotta balcanica, tra la Grecia e la Serbia, nel 2015 il Paese è stato attraversato da circa un milione di migranti, per lo più siriani, afghani e iracheni, provenienti dalla Turchia e diretti verso l’Europa occidentale. In quell’anno, la dimensione rilevante del fenomeno dell’immigrazione di transito convinse il governo macedone a dichiarare lo stato di emergenza, poi prorogato ogni sei mesi fino ad oggi.
Tale situazione emergenziale, diventata permanente, ha consentito non solo il dispiegamento di forze militari sui confini ma anche l’apertura di due cosiddetti transit centers, centri di transito, Vinojiug e Tabanovce, ancora oggi attivi a nove anni dalla fine della crisi migratoria. Si tratta di luoghi estremamente periferici, a ridosso dei confini, uno con la Grecia e uno con la Serbia, e distanti dai centri abitati. Servivano a “gestire” il transito in modo “organizzato e coordinato”, garantendo un’accoglienza temporanea a coloro che attraversavano il Paese verso altre destinazioni e che erano autorizzati a rimanere al massimo 72 ore sul territorio nazionale. Oggi, essendo privi di qualsiasi fondamento giuridico che ne giustifichi l’esistenza e le funzionalità, possono essere definiti come dei veri e propri campi di confinamento dove uomini, donne e anche minori sono trattenuti per settimane o anche mesi in attesa di una riammissione informale in Grecia o Serbia.
A questi si aggiungono altri due centri istituzionali, cioè previsti invece dalla normativa nazionale in vigore, istituiti dal governo macedone nei primi anni Duemila in epoca non emergenziale e con fondi nazionali. Si trovano entrambi nei quartieri periferici della capitale Skopje e sono il centro di accoglienza per richiedenti asilo Vizbegovo e Gazi Baba, definito dalla legge centro di accoglienza, ma che è in realtà un centro di detenzione amministrativa per gli stranieri in condizione di irregolarità.
Come visibile nell’immagine, il centro Gazi Baba si colloca tra un quartiere abitato e una zona boscata. È stato realizzato in una struttura ricettiva preesistente (in bungalow o similari) e al suo interno possono essere trattenute fino a 150 persone. Nessuno può accedervi tranne il personale del ministero dell’Interno che lo gestisce e l’Ombudsman nazionale. Noto per la sistematica violazione dei diritti fondamentali, denunciate da organizzazioni non governative e internazionali, al suo interno si trovano anche le vittime di traffico di esseri umani in qualità di testimoni nell’ambito di procedimenti penali contro i trafficanti (in violazione del diritto interno, europeo e internazionale).
I campi, la detenzione amministrativa arbitraria, i respingimenti informali e illegittimi, sono espressioni evidenti di una politica del confinamento, una pratica di gestione dello spazio lesiva dei diritti e delle libertà fondamentali, nell’assenza di qualunque forma di controllo.
Il centro di accoglienza Vizbegovo, istituito nel 2008 in una struttura ricettiva esistente, è gestito dal ministero per le Politiche sociali. Si trova in un quartiere isolato, circondato da discariche e zone produttive, ed è in grado di accogliere 150 persone (e di arrivare a 250 persone in caso di necessità). Nel settembre 2023 ospitava 26 richiedenti asilo a cui sono forniti vitto e alloggio, assistenza sanitaria, servizio di interpretariato, assistenza legale e un percorso di integrazione che consiste nell’ insegnamento della lingua macedone, nella formazione professionale e inserimento lavorativo all’interno del centro.
Il transit center di Vinojiug si trova a circa 500 metri dal confine nelle vicinanze dei centri abitati di Idomeni, in Grecia, e Gevgelija, in Macedonia del Nord, ma in una zona rurale isolata e difficile da raggiungere. Il campo è molto grande con una capienza ufficiale di 120 persone e si compone di grandi strutture con tenda presenti da anni e da container. È delimitato da un muro di filo spinato che prosegue per chilometri da più lati.
A circa 400 metri dal confine con la Serbia, si trova invece il transit center di Tabanovce, a ridosso di un piccolo villaggio e dei binari della ferrovia che collegano questa frontiera con quella a Sud del Paese -aspetto che rimanda alle immagini del periodo 2015-2016 dei treni sigillati dall’esterno, affollati di migranti intercettati al confine con la Grecia-. Anche oggi il campo è utilizzato per la permanenza di tutti coloro che vengono rintracciati in transito verso la Serbia o che da questa sono stati respinti, ma anche di coloro che vengono trasferiti lì per carenza posti al centro di Vinojug. Tabanovce ha una capienza di 130 persone ospitate in container di piccole dimensioni. È possibile inoltre riconoscere tre grandi tende per circa cento persone.
Per approfondire:
• Il capitolo di Erminia Rizzi e Ivana Stojanova sulla Macedonia del Nord nel libro “Chiusi dentro”
Gli altri Paesi:
• Turchia • Cipro • Grecia • Bulgaria • Serbia • Bosnia ed Erzegovina • Ungheria • Croazia • Albania • Italia • Francia • Spagna • Polonia • Lituania
Serbia
Come riportato nel capitolo del libro “Chiusi dentro” dedicato alla Repubblica di Serbia da Nikola Kovačević, avvocato per i diritti umani di Belgrado, dal momento che il Paese è circondato dalle frontiere esterne dell’Unione europea potrebbe diventare un importante facilitatore per l’applicazione della recente riforma del sistema europeo comune di asilo (Ceas) che prevede una forte componente di esternalizzazione e un ricorso più frequente alle procedure di frontiera.
Il sistema serbo di asilo e di gestione dei flussi migratori, a livello di sviluppo attuale, non è però in grado di tutelare i diritti umani delle persone in movimento. Questo è dovuto all’inadeguatezza delle strutture di accoglienza e ai respingimenti illegali verso la Macedonia del Nord, definiti da Rados Djurovic, direttore esecutivo del Centro per la protezione dell’asilo in Serbia, una pratica regolare.
Tale sistema si compone di 19 strutture, sette destinate all’alloggio dei richiedenti asilo, i centri di asilo (come quello di Sjenica, Obrenovac e Krnjača) e 12 centri di accoglienza (Subotica, Sombor, Dimitrovgrad, Presevo) che ospitano tutti gli altri cittadini stranieri, per un totale di 8.155 posti letto. La maggior parte di queste sono state inaugurate nel biennio 2015-2016, quando l’afflusso di rifugiati e migranti sulla rotta dei Balcani occidentali ha raggiunto il picco massimo. Sono pensate per soggiorni brevi e per soddisfare solo i bisogni primari: alloggio, vitto, assistenza medica urgente, abbigliamento e calzature. La mancanza di una progettazione a lungo termine, insieme al fatto che i centri sono situati in zone del Paese con alto tasso di degrado sociale o in aree remote, comporta che i cittadini stranieri siano poco inclini a restarci. Molti decidono infatti di spostarsi verso le zone di frontiera con i Paesi dell’Unione europea o di soggiornare presso la trentina di insediamenti non ufficiali, disseminati lungo i confini con la Croazia, l’Ungheria e la Romania.
Il centro di Sjenica ha una capienza di 350 persone ed è impiantato all’interno di un vecchio edificio industriale riconvertito, adiacente a fabbriche in attività e a una zona abitata. Non presenta nessuna struttura esterna visibile, tutto si svolge all’interno. La conformazione dell’edificio fa pensare che sia composto da un unico spazio molto grande separato da strutture provvisorie.
Al confine con l’Ungheria, il centro temporaneo di Subotica si trova nei pressi di un depuratore. Si compone di nuclei di container e piccole tende nel cortile di una casa colonica capaci di ospitare 220 persone.
Il centro di Obrenovac era uno dei due centri più grandi, con una capienza di mille persone. È situato nell’area sportiva di una base militare adiacente a un fiume e a un grande impianto industriale. A partire dal 2020 (la data dell’immagine qui sopra) è possibile vedere una grande tensostruttura e una serie di tende che la circondano. Già nel 2021 le strutture provvisorie risultano smantellate. Attualmente sembra non essere più in uso oppure utilizzato solo parzialmente, in alcuni edifici preesistenti.
Sombor era un centro con una capienza di 380 persone che oggi è apparentemente in disuso. Alla frontiera con la Croazia, si trova nelle vicinanze di una struttura esistente, immerso in un’area boscata e connesso da una strada secondaria a una zona abitata. Nel 2022 (data dell’immagine) era possibile vedere numerose tende e accampamenti semi-informali intorno al centro.
Il campo di Dimitrovgrad si trova in un’area industriale al confine con la Bulgaria e consiste in una grande struttura provvisoria e più di otto container che la circondano capaci di ospitare novanta persone. Dall’immagine dall’alto si nota bene come sia separato da due centri abitati ai lati, da una parte da un fiume, dall’altra dalla ferrovia. A fine maggio 2023 risultava non operativo.
Il centro di Krnjača ha una capienza di mille persone ed è un’ex base militare riconvertita alla periferia Est di Belgrado. Nei dintorni è visibile un insediamento informale preesistente. Impressiona la sua natura concentrazionaria. In passato fu usato anche per accogliere i profughi di guerra degli anni 90.
Quello di Presevo infine è un centro alla frontiera con la Macedonia del Nord, con una capienza di 1.100 persone. Sono evidenti grandi strutture provvisorie all’interno di complesso industriale abbandonato nei pressi della ferrovia. Nei periodi di massimo afflusso (2017-2019) presentava numerose piccole tende negli spazi aperti.
Alcuni recenti video mostrati al Guardian da Legis, una Ong macedone, ritraggono uomini seminudi vicino al confine tra Serbia e Macedonia del Nord, esposti al freddo e costretti a fare ritorno dalla Serbia alla Macedonia del Nord. Legis sostiene che i video, registrati da un testimone locale vicino al villaggio di Lojane il 10 febbraio 2024 e pubblicati dalla testata britannica il 22 febbraio, rappresentino il secondo caso di respingimento abusivo e degradante avvenuto in 24 ore, coinvolgendo oltre 50 persone, identificate come siriane, costrette a spogliarsi nude o a rimanere in mutande dalle autorità serbe prima di essere rispedite nella Macedonia del Nord settentrionale. Jasmin Redjepi, presidente di Legis, ha denunciato questi respingimenti come atti inquietanti e degradanti, avvenuti poco dopo un vertice sulla cooperazione al confine tra Ue e Serbia.
Per approfondire:
• Il capitolo di Nikola Kovačević sulla Serbia dal libro “Chiusi dentro”
Gli altri Paesi:
• Turchia • Cipro • Grecia • Bulgaria • Macedonia del Nord • Bosnia ed Erzegovina • Ungheria • Croazia • Albania • Italia • Francia • Spagna • Polonia • Lituania
Bosnia ed Erzegovina
Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) dal 2017 all’agosto 2024 sono 164.524 le persone transitate dalla Bosnia ed Erzegovina, diventata una delle principali porte d’ingresso dell’Unione europea. Proprio nei dieci cantoni della Federazione di Bosnia ed Erzegovina, l’Ue ha sperimentato per la prima volta il “sistema-campo” in un Paese terzo promosso attraverso diverse strategie ben visibili, ad esempio, nel Cantone Una Sana, nella parte nord-occidentale del Paese. A partire dal maggio 2018, grazie a ingenti finanziamenti europei, da un lato le persone sono state concentrate in campi fatiscenti e degradati, dall’altro sono stati limitati i posti d’accoglienza, favorendo una politica dell’abbandono di chi sceglie o è costretto, per mancanza di alternative, a vivere in condizioni di informalità e alimentando una politica d’odio e discriminazione.
Per molte persone in movimento presenti nella regione balcanica, la Bosnia ed Erzegovina rappresenta l’ultimo passaggio per entrare in Unione europea, uno dei più difficili se non si è in possesso dei documenti richiesti dall’attuale regime della mobilità umana
A fine 2023 si contano sette campi operativi nella Federazione di Bosnia ed Erzegovina e di questi solo tre di questi sono campi istituzionali sotto il diretto controllo dello Stato, gli altri quattro sono i cosiddetti Temporary reception centres (Trc) gestiti prevalentemente dall’Oim per un totale di 5.492 posti. Il turnover nei centri è molto elevato: tra il 5 e il 18 agosto 2024 sono arrivate 3.566 persone e 3.593 hanno lasciato le strutture, con 1.788 migranti in accoglienza. Spesso i centri di transito e accoglienza si trovano in luoghi remoti portando a un confinamento di fatto le persone.
Il Centro di accoglienza per i rifugiati di Salakovac è gestito dal ministero per i Diritti umani e i rifugiati della Bosnia ed Erzegovina e fornisce un numero limitato di alloggi e servizi essenziali e di base per richiedenti asilo, rifugiati e persone a cui è stata concessa la protezione sussidiaria.
Delijaš è invece il centro ufficiale per l’asilo costruito nel 2014 con l’aiuto di fondi dell’Unione europea nel Comune di Trnovo, a 30 chilometri Sud-Est da Sarajevo; è gestito dal Settore asilo del ministero della Sicurezza ed è situato in alta montagna, senza accesso a internet né alla rete telefonica, e con linee di trasporto irregolari. Dispone di 154 posti letto, ma a causa della posizione remota il suo utilizzo è molto limitato, tant’è che nell’estate del 2022 ha ospitato solo otto richiedenti asilo.
Le persone a cui viene negata la protezione internazionale, invece, vengono portate nel centro di detenzione di Lukavica, dislocato nell’omonimo quartiere serbo della capitale, in attesa di lasciare il Paese. Questo campo è gestito dal ministero della Sicurezza ed è soprannominato “la Guantanamo di Sarajevo”.
La struttura in cui si trova il Temporary reception center di Borići è un ex studentato posizionato vicino allo stadio polivalente della città di Bihać, a un chilometro dal centro. È stato convertito in un campo formale nel 2018, dopo che la situazione di agonia nello squat creatosi nel parco adiacente diventò invivibile. Il campo è gestito dall’Oim, con una capienza di 580 persone e accoglie famiglie e minori non accompagnati, i quali devono rispettare il coprifuoco previsto per le 16.
Il campo di Lipa, invece, è dislocato su un altopiano a 800 metri di altitudine, distante 24 chilometri da Bihać, il centro abitato più vicino, quindi lontano da tutti i servizi pubblici quali farmacie, ospedali, supermercati, poste e stazioni. Una stradina sterrata non comodamente percorribile lo collega alla strada principale; tutt’attorno distese di boschi disseminati di cartelli che segnalano il pericolo di morte per le mine rimaste inesplose dalla guerra degli anni Novanta. Il campo di Lipa è stato volutamente ubicato in quest’area isolata. La posizione estremamente periferica limita ogni forma di contatto delle persone “accolte” con l’esterno e impedisce il loro inserimento nel tessuto sociale cittadino; un trattenimento de facto che limita la libertà personale, l’impossibilità di fatto costruire una vita di relazioni sociali con l’esterno, compresi i minori.
Il campo di Lipa
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Qui sopra la trasformazione del campo di Lipa tra il 2020 (a dicembre bruciò completamente) e 2023.
Nel cantone di Sarajevo si trovano il Trc di Ušivak, costruito nel Comune di Hadžići nell’ottobre 2018, e il Trc di Blažuj che ha iniziato a fornire soluzioni di alloggio provvisorie durante l’inverno del 2019.
Il campo di Vučjak nel cantone di Bihać è stato appositamente allestito dalle autorità bosniache su una discarica dove venivano deportati i migranti e i rifugiati rastrellati nel territorio. A un frettoloso osservatore esterno quel campo, privo dei più elementari servizi igienico sanitari e abitativi, poteva apparire nel suo estremo degrado, un campo informale e libero, mentre si trattava in realtà di un campo di confinamento del tutto controllato nel quale ai confinati era imposta una condizione di vita particolarmente dura. A metà dicembre 2019 è stato sgomberato.
Per approfondire:
• Il capitolo di Silvia Carbonari sulla Bosnia ed Erzegovina nel libro “Chiusi dentro”
• Il capitolo di Anna Brambilla e Caterina Bove sulle riammissioni, forme mascherate di respingimento nel libro “Chiusi dentro”
• “Lipa, il campo dove fallisce l’Europa” a cura di RiVolti ai Balcani
• “Bosnia ed Erzegovina, la mancata accoglienza” a cura di RiVolti ai Balcani
• Il lavoro dell’associazione “Lungo la rotta balcanica”
Gli altri Paesi:
• Turchia • Cipro • Grecia • Bulgaria • Macedonia del Nord • Serbia • Ungheria • Croazia • Albania • Italia • Francia • Spagna • Polonia • Lituania
Ungheria
In Ungheria sono quasi dieci anni che vige una sorta di stato di eccezione, denominato strumentalmente “stato di crisi per migrazione di massa”. Una volta in vigore e disposto per decreto, le forze di difesa ungheresi sono state incaricate della protezione armata del confine e dell’assistenza alla polizia nella gestione delle questioni legate alla migrazione. È il muro sul quale ha speculato Viktor Orbán, nell’inazione concreta dell’Unione europea.
A metà settembre 2015 questo “regime” è stato dichiarato prima nelle due contee confinanti con la Serbia (Bács-Kiskun e Csongrád) e subito dopo nelle quattro contee confinanti con Croazia, Slovenia e Austria (Baranya, Somogy, Vas, Zala). Il 9 marzo 2016 è stato esteso all’intero territorio ungherese. Risulta prorogato fino al 7 settembre 2024 (ultima informazione disponibile dall’Asylum Information Database).
“Durante questo stato di crisi, ai cittadini di Paesi terzi che entrano e/o soggiornano irregolarmente in Ungheria e a coloro che chiedono asilo si applicano norme speciali”, ricorda l’Hungarian Helsinki Committee. La polizia è autorizzata a respingere oltre la barriera di confine, senza alcuna valutazione delle circostanze individuali, i migranti che soggiornano “irregolarmente” e che desiderano chiedere asilo in Ungheria da qualsiasi parte del Paese, al di fuori di qualsiasi procedura legale o possibilità di ricorso. I termini per presentare ricorso giudiziario contro le decisioni di inammissibilità e i rigetti delle domande di asilo decisi con procedure accelerate sono stati drasticamente ridotti a soli tre giorni.
Sempre a metà settembre 2015 risale il completamento del muro di filo spinato lungo il tratto di confine con la Serbia, per 175 chilometri. Una recinzione simile è stata realizzata al confine con la Croazia.
Le cosiddette “zone di transito” sono state istituite come parti di queste recinzioni. Fino al 26 maggio 2020 l’asilo poteva essere richiesto solo all’interno di queste zone di transito.
L’ingresso irregolare in Ungheria è punibile con pene detentive effettive o sospese fino a dieci anni, e/o con l’imposizione di un provvedimento di espulsione. E il procedimento penale non viene sospeso quando l’imputato presenta una domanda di asilo. La non penalizzazione dell’ingresso irregolare prevista dalla Convenzione sui rifugiati del 1951 è sepolta.
Dal 28 marzo 2017 al 21 maggio 2020 tutti i richiedenti asilo che entravano nelle zone di transito di Röszke e Tompa erano di fatto detenuti, sebbene le autorità ungheresi si siano sempre rifiutate di riconoscere che si trattasse di detenzione.
Nel marzo 2021 la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che il confinamento di una famiglia iraniano-afghana, compresi tre figli minori, nella zona di transito di Röszke costituiva una detenzione illegale in violazione dell’articolo 5 e un trattamento inumano e degradante in violazione dell’articolo 3 della Convenzione. Un anno dopo la Corte è giunta a conclusioni simili, secondo cui il collocamento nella zona di transito costituisce detenzione, in diversi casi riguardanti famiglie con bambini.
L’andamento delle domande di asilo presentate in Ungheria in questi anni descrive questo abisso europeo: da 177.135 domande ufficialmente registrate nel 2015 a 30 (trenta) nel 2023.
Il 13 giugno 2024 la Corte di giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Ungheria per la palese violazione delle regole europee in materia d’asilo: duecento milioni di euro più una sanzione di un milione di euro per ogni giorno di violazione.
“Sottrarsi deliberatamente all’applicazione di una politica comune dell’Unione europea costituisce una violazione di eccezionale gravità”, hanno scritto i giudici della Corte.
La sentenza riguarda anche la detenzione dei richiedenti asilo nei campi di transito di Röszke e Tompa, al confine con la Serbia. L’Ungheria ha sostenuto di essersi conformata alla sentenza avendo nel tempo “chiuso” quei campi.
Per approfondire:
• Il rapporto a cura dell’Hungarian Helsinki Committee sull’Ungheria per l’Asylum information database (Aida)
• Il capitolo sull’Ungheria a cura di Federica Tourn dal libro “Sui confini d’Europa” (manifestolibri, 2023)
Gli altri Paesi:
• Turchia • Cipro • Grecia • Bulgaria • Macedonia del Nord • Serbia • Bosnia ed Erzegovina • Croazia • Albania • Italia • Francia • Spagna • Polonia • Lituania
Croazia
Negli anni del collasso del sistema di asilo di europeo la Croazia ha continuato a respingere con violenza le persone in transito e i richiedenti asilo, con sempre maggiore intensità dal 2016. In particolare verso la Bosnia ed Erzegovina e verso la Serbia. I pushback e le condotte inumane e degradanti delle autorità croate, incluse le deportazioni, gli abbandoni nelle foreste, e fino anche alla morte di alcune persone e minori, sono state documentate in maniera inconfutabile con fotografie e video negli anni grazie all’attività di organizzazioni per i diritti umani sul campo (tra queste, Are you syriuos, il Centro studi per la pace di Zagabria, il Border violence monitoring network) e a inchieste giornalistiche internazionali.
Dal primo gennaio 2023 il Paese ha fatto ingresso nell’area Schengen e nell’Eurozona. In quello stesso mese la Corte europea dei diritti dell’uomo si era espressa sul “caso Daraibou”. La vicenda riguarda un ricorrente di nazionalità marocchina che era stato trattenuto in una stazione di polizia di frontiera croata insieme ad altri tre migranti nel marzo 2015. Portati alla stazione di polizia più vicina, a Bajakovo, in attesa di essere respinti in Serbia, i migranti furono collocati nei locali per la detenzione dei “migranti irregolari” della stazione di polizia di frontiera. Uno di loro avrebbe appiccato il fuoco alla struttura, causando la morte di tre migranti e gravi ferite a Daraibou. La Corte europea ha condannato Zagabria per non aver adottato misure sufficienti a proteggere la vita e l’incolumità dei migranti e per la mancata conduzione di un’indagine sufficientemente dettagliata ed efficace. La sentenza è diventata definitiva il 14 aprile 2023.
Non è l’unico caso. A fine novembre 2017 una famiglia di origine afghana giunta in Croazia fu respinta, privata del diritto di chiedere asilo e costretta dalla polizia croata a tornare in Serbia camminando lungo la ferrovia, tra Tovarnik e Šid. Madina, la bambina di sei anni della famiglia, viene investita e uccisa da un treno in transito.
Tovarnik è uno dei due centri di transito per stranieri aperto proprio nel 2017 insieme a quello di Trilj, quest’ultimo invece nei pressi della frontiera con la Bosnia ed Erzegovina. Svolge la funzione di centro di detenzione e gli ultimi dati disponibili indicano una capienza di 62 posti. Adiacente al punto di frontiera ha l’impostazione della struttura semicarceraria, con muro di cinta in cemento, suddiviso in blocchi separati, un’area sportiva recintata all’interno, per oltre 12.000 metri quadrati complessivi.
Così anche Trilj, anch’esso dotato in teoria di 62 posti. Si tratta di un edificio su tre-quattro piani, realizzato su due blocchi separati per un’area complessiva di 3.500 metri quadrati. Non si notano muri di cinta o alte recinzioni, mancano completamente spazi esterni o per svago/sport. È ai margini del centro abitato ma in una zona con servizi di base.
Il terzo centro di detenzione croato è quello di Ježevo, a 30 chilometri da Zagabria. È in posizione isolata, accanto all’autostrada e a un’area di parcheggio. La superficie complessiva supera i 15.000 metri quadrati. Anche in questo caso la struttura è semicarceraria, il muro di cinta in cemento è percorso da filo spinato.
Alla fine del 2023 è stato aperto un centro temporaneo e chiuso a Dugi Dol, sotto l’amministrazione della polizia di Karlovac. Secondo il ministero dell’Interno sarebbero stati collocati 109 container, di cui 65 per l’alloggio con otto letti ciascuno, per una capacità di oltre 500 persone. Sulla carta, tutte le persone trovate dagli agenti di polizia nell’area di Karlovac che dovessero esprimere l’intenzione di chiedere protezione internazionale dovrebbero essere portate al centro per essere registrate. Dopo il processo di registrazione i richiedenti dovrebbero essere trasportati in autobus ai centri di “accoglienza” di Kutina e Zagabria. Il centro è entrato in funzione il 19 novembre 2023 e il 5 gennaio 2024 erano registrati 211 richiedenti.
In questa immagine del 2024 si può notare come il centro di Dugi Dol ricada in una zona estremamente isolata, in una radura tra boschi a circa 2,5 chilometri dal piccolo villaggio omonimo e a circa 20 chilometri da Karlovac (il centro più vicino).
Per approfondire:
• Il lavoro, tra gli altri, del Centre for Peace Studies di Zagabria, dell’associazione Are You Syrious o del Border violence monitoring network
• Il capitolo di Anna Brambilla e Caterina Bove sulle riammissioni, forme mascherate di respingimento nel libro “Chiusi dentro”
• Il capitolo sulla Croazia a cura di Diego Saccora dal libro “Sui confini d’Europa” (manifestolibri, 2023)
Gli altri Paesi:
• Turchia • Cipro • Grecia • Bulgaria • Macedonia del Nord • Serbia • Bosnia ed Erzegovina • Ungheria • Albania • Italia • Francia • Spagna • Polonia • Lituania
Albania
La “bestia tentacolare” del trattenimento promossa dall’Italia ha superato i confini nazionali. Secondo quanto previsto dal protocollo Italia-Albania, annunciato il 6 novembre 2023, alcune delle persone che raggiungeranno il nostro Paese (Lampedusa) verranno trasferite nel Nord-Ovest dell’Albania. A Shëngjin, cittadina costiera di circa 13mila persone, il 5 giugno 2024 è stato inaugurato l’hotspot in cui le persone verranno identificate post-sbarco. La struttura è circondata da un muro alto sette metri con telecamere installate ai bordi che controllano quello che succede lungo il perimetro esterno. Si trova all’interno del porto è circondato da edifici residenziali e da un grande luna park sul lato sinistro.
Muovendosi da Shëngjin per una ventina di chilometri verso l’interno si raggiunge Gjadër, una ex base aerea costruita durante l’era comunista. All’inizio degli anni Novanta la Cia la usava per svolgere missioni di spionaggio nelle ex Repubbliche federali di Jugoslavia. L’ultimo jet è decollato da Gjadër nel 2004 e la base, con la sua ricca storia, è rimasta in gran parte inutilizzata dall’esercito albanese. Sulla collina brulla è in fase di conclusione la costruzione di tre strutture. La prima struttura, con 880 posti, dovrebbe ospitare i richiedenti asilo sottoposti alla procedura di frontiera, la cui detenzione dovrebbe durare al massimo 28 giorni. La seconda, con 144 posti, dovrebbe avere invece la funzione di Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr). La terza, con 20 posti, sarà di fatto un carcere e verrà utilizzata per chi compie reati all’interno delle altre due.
Per approfondire:
• Il capitolo di Duccio Facchini sull’Italia e sull’Albania nel libro “Chiusi dentro”
• Il reportage di Kristina Millona dall’Albania dell’agosto 2024 su Altreconomia
Gli altri Paesi:
• Turchia • Cipro • Grecia • Bulgaria • Macedonia del Nord • Serbia • Bosnia ed Erzegovina • Ungheria • Croazia • Italia • Francia • Spagna • Polonia • Lituania
Italia
Hotspot, Cpr, Cara, Cpa, Cas. Tante sigle, spesso incomprensibili ai più, e un unico obiettivo: limitare la libertà di movimento delle persone straniere, anche quando si tratta di dichiarata “accoglienza”. Sono luoghi molto diversi tra loro quelli che nel nostro Paese danno vita alla “bestia tentacolare” del trattenimento -per usare le parole dell’avvocato Maurizio Veglio- e che ha preso forma dal 1998. Sono infatti gli attuali Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) ad essere stati i primi esperimenti in Italia di luoghi dove confinare le persone straniere a causa di illeciti amministrativi e non di reati. Un modello a cui si è poi affiancato il sistema hotspot, con strutture situate nei punti di sbarco in cui le persone appena arrivate sul territorio italiano vengono identificate. Erano quattro nel 2017, sono più del doppio oggi. Una crescita che non è destinata a fermarsi: il cosiddetto “decreto Cutro”, tristemente chiamato come il luogo della strage del 26 febbraio 2023, prevede infatti l’apertura di “strutture analoghe” agli hotspot su tutto il territorio nazionale e non solo più nei luoghi di sbarco.
“La semplice osservazione dei luoghi di trattenimento amministrativo, di fatto e di diritto, dei non cittadini -in Italia come nel mondo- consente di affermare che quello che si consuma al loro interno è un rito di separazione su base etnica” – Maurizio Veglio, Questione giustizia
Questo rapido viaggio in Italia non può quindi che iniziare dai Centri di permanenza per il rimpatrio presenti in dieci città di otto diverse Regioni. Nel 2023 vi sono transitate 6.620 persone, meno del 50% delle quali rimpatriate poi nei rispettivi Paesi d’origine. La capienza delle strutture negli ultimi due anni si è ridotta a causa delle numerose proteste dei trattenuti per le condizioni di vita che hanno reso inagibili, in alcuni casi, intere aree delle strutture. È il caso del “Brunelleschi” di Torino, inaugurato nel 1999 e poi chiuso temporaneamente nel marzo 2023 a seguito di una rivolta di cui nell’immagine (successiva) si vedono alcune conseguenze su uno dei tetti. La struttura si trova in un quartiere residenziale del capoluogo piemontese e ha una capienza ufficiale di 210 posti. La sua riapertura è prevista per novembre 2024. Nella struttura sono morti Hossain Faisal, 32enne originario del Bangladesh morto per arresto cardiaco nella notte tra il 7 e l’8 luglio 2019 e Moussa Balde, 23 anni, morto suicida nella notte tra il 22 e il 23 maggio 2021 all’interno di una delle “gabbie pollaio” dell’ospedaletto, una sezione di isolamento all’interno del Cpr. Il processo sulla morte di Balde è attualmente in corso.
Anche a Milano il Cpr sorge in un quartiere residenziale (“Ortica”) all’ombra della tangenziale Est. Tra il 2013 e il 2019 la struttura ha funzionato come Centro di accoglienza per poi essere trasformata in Centro di permanenza per il rimpatrio, aperto ufficialmente il 28 settembre 2020. Inizialmente erano 148 i posti previsti nella struttura ma quelli effettivamente disponibili sono sempre stati una settantina. Le condizioni di vita all’interno della struttura sono state descritte come disumane dalla Procura di Milano che a fine dicembre 2023 ha disposto il commissariamento del Cpr.
A Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza, gli investigatori hanno ricostruito i soprusi e le violenze a cui erano sottoposti i trattenuti. Il Cpr lucano è stato aperto nel 2018 e ha una capienza ufficiale di 128 posti. Il 5 agosto 2024 è stato trovato morto nella sua cella Belmaan Oussama, 22 anni, originario del Marocco ventiquattro ore dopo che si era sentito male. Sulla sua morte è in corso un’indagine della Procura.
In Sardegna e più precisamente a Macomer, in provincia di Nuoro, il 20 gennaio 2020 è stato inaugurato un Cpr da 50 posti, secondo la capienza ufficiale, in quello che fino al 2014 era un carcere di massima sicurezza poi chiuso per l’inadeguatezza della struttura rispetto ai parametri previsti dall’ordinamento penitenziario. Una doppia recinzione, ben visibile, perimetra la struttura. Nel 2023 la permanenza media nel centro dei trattenuti è stata di 52 giorni. La più lunga d’Italia.
Impressionano le immagini dall’alto dei Cpr di Ponte Galeria a Roma e di quello di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia. Si vedono nitidamente le alte grate che circondano le aree in cui vengono reclusi i trattenuti. Nel caso di Gradisca, poi, a fianco del Cpr sorge un Cara -acronimo di Centro di accoglienza per richiedenti asilo- da 650 posti. Una commistione inadeguata che si verifica anche in altri luoghi in Italia (come Bari e a Caltanissetta tra gli altri). Nel Cpr di Gradisca d’Isonzo tra il 2020 e il 2022 sono morte quattro persone trattenute (Vakhtang Enukidze, Anani Ezzeddine, Arshad Jahangir, Orgest Turia) mentre a Roma, all’interno della struttura è morto suicida il 4 febbraio 2024 il 22enne Ousmane Sylla, originario della Guinea.
Chiudono il cerchio della detenzione amministrativa i Cpr pugliesi di Bari-Palese e Brindisi-Restinco, e quello siciliano di Caltanissetta-Pian del Lago.
A Bari il centro occupa 18.000 metri quadrati in una zona periferica e priva di servizi, adiacente alla caserma della Guardia di Finanza. La struttura è carceraria, con blocchi monopiano a spina di pesce e un corridoio centrale, un muro di cinta in cemento esterno e una doppia recinzione interna con una strada di ronda.
Il centro di Brindisi è di poco inferiore, 17.000 metri quadrati, in una zona estremamente isolata a circa dieci chilometri dalla città e senza alcun tipo di servizi. Anche qui la struttura è carceraria: un muro di cinta esterno in cemento e delle recinzioni/compartimentazioni interne. Si compone in parte di prefabbricati e in parte di edifici multipiano. Anche i cortili sono recintati, così come le aree “sportive”. Nello stesso recinto oltre al Cpr c’è anche l’ex Cara, con le persone a stretto contatto. L’ex Cara è diventato di recente un luogo dove sono trasferiti i minori non accompagnati, in condizioni inumane e degradanti di trattenimento di fatto, in merito alle quali nel 2024 si è espressa la Corte europea dei diritti umani.
Il Cpr di Caltanissetta è anch’esso in una zona periferica segnata dalla scarsità di servizi, nei pressi dello stadio. L’area si estende per oltre 65.000 metri quadrati. L’impianto è eterogeneo: recinzione metallica tutta intorno in cui si alternano prefabbricati, aree verdi e aree di svago, edifici più grandi in muratura (apparentemente sempre destinati alla “accoglienza”). All’interno del complesso è presente una parte in stile carcerario, separata da muro in cemento e con compartimentazioni interne. Accanto alla struttura di detenzione già esistente ne verrà costruita un’altra per aumentarne le capacità di trattenimento. A metà marzo 2024 è stata indetta una gara da 11,7 milioni di euro per la realizzazione di “tre blocchi alloggiativi per un totale di 56 posti”. Gli interventi riguardano anche la viabilità esterna al centro, gli impianti termici ed elettrici così come la realizzazione di una nuova recinzione di sicurezza alta sette metri.
Non ci sono solo i Cpr in Italia. Come detto, i luoghi di confinamento e limitazione della libertà personale delle persone straniere diventano sempre di più. A partire dagli hotspot, sorti a partire dal 2015 su richiesta dell’Unione europea con l’obiettivo di identificare fin da subito dopo lo sbarco i naufraghi. Queste strutture hanno una natura ibrida, privano della libertà le persone per diversi giorni ma non vi è una norma giuridica che stabilisca nitidamente che questo sia possibile. Gli hotspot sono spesso sovraffollati, con condizioni igienico-sanitarie per i trattenuti inadeguate. Il 30 marzo 2023, ad esempio, l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per l’illegittimo trattenimento e le inadeguate condizioni materiali in cui si trovavano i cittadini stranieri (anche minorenni) all’interno dell’hotspot di Lampedusa. Tra i primi ad essere aperto, nel 2015, insieme a quelli di Trapani, Pozzallo e Taranto.
Il centro di Taranto
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Qui sopra il centro di Taranto, allestito nel 2016 in un’area di parcheggio per tir. La zona è residuale tra la linea ferroviaria e gli svincoli stradali di accesso al porto, estremamente isolata rispetto al contesto urbano. La struttura è recintata con doppia barriera in cemento. Si nota una grande tensostruttura centrale con una serie di gazebo e container. Dall’allestimento a oggi praticamente non subisce modifiche.
Negli anni gli hotspot sono cresciuti di numero e con il “decreto Cutro” la rete di strutture ibride si allargherà ancora. Le nuove norme, infatti, prevedono la possibilità di trattenere i richiedenti asilo che provengono da Paesi considerati sicuri fino alla definizione della loro richiesta di protezione.
Per vedere che cosa significa condannare istituzionalmente migliaia di persone a una condizione di marginalità è utile tornare in Puglia, e precisamente a Borgo Mezzanone, uno dei numerosi “ghetti” che caratterizza la provincia di Foggia. Siamo nelle pertinenze e in parte sulla pista di un aeroporto militare in disuso utilizzato un tempo dall’esercito americano nella Seconda Guerra mondiale e poi come base logistica durante la guerra nei Balcani degli anni 90. La particolarità di questo “ghetto” è di essere sorto a ridosso del Centro governativo di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) istituito come temporaneo nel 1999 e poi stabilizzatosi. L’evoluzione è continua ma è tra il 2016 e oggi che la crescita è stata prorompente. È una città vera e propria. Testimonianze dal posto raccontano che in alcuni momenti si raggiungono anche le cinquemila presenze. Ma è un “ghetto” ormai stabile, che non nasce solo con la stagione della raccolta delle campagne. Nel corso degli ultimi anni c’è stato il tentativo di costruire dei moduli per accogliere alcune persone, ad esempio gli stagionali, nel piccolo spazio che ricade tra la struttura governativa, l’insediamento e l’ex pista. Questa parte, però, è diventata di fatto un limbo, un luogo occupato, recintato, dove le condizioni paradossalmente sono addirittura peggiori della “ex pista”. Ed è impressionante perché nelle immagini che pubblichiamo si vede l’ex Cara, il “limbo” e poi l’insediamento. Nel 2023 i moduli sono stati abbattuti ma è rimasta una recinzione controllata dall’esercito dove all’interno ci sono altri moduli ricostruiti con dentro delle persone. Quindi ci sono tre “ghetti” di fatto: uno governativo (il Cara), uno istituzionale (i moduli della tentata accoglienza) e l’altro informale vero e proprio. Quasi 25 anni non sono stati sufficienti per garantire un intervento pubblico che potesse superare il modello dei “ghetti”. Anzi, la mano governativa ha creato ulteriori “non luoghi”, senza alcuna chiara connotazione giuridica.
Borgo Mezzanone, Foggia
Un dettaglio di Borgo Mezzanone, Foggia
La Puglia, insieme alla Sicilia, è la Regione italiana maggiormente interessata dal confinamento e dalle ghettizzazioni, come testimoniato dal numero di campi: due Cpr, tre centri governativi ex Cara, un hotspot. Dei numerosissimi campi informali, fino a circa due anni fa ne risultavano ben undici solo nella provincia di Foggia.
Dalla precarietà al confinamento. Il fenomeno lo ritroviamo anche sui confini interni all’Unione europea. Ne è un esempio il confine italo-francese, chiuso (solo sulla carta) dal 2015. Le persone tentano di attraversare la frontiera ma vengono intercettate dalla polizia francese e portate alla stazione di polizia di Mentone dove sono stati installati appositi container che hanno lo scopo di trattenere -a volte intere notti, senza acqua e cibo- le persone che poi vengono riportate in Italia.
A Ventimiglia i respinti non trovano rifugi in cui trovare sollievo prima di ritentare la traversata. L’ultimo campo “istituzionale” è stato chiuso nella tarda estate del 2020 e si trovava nel campo Roya, circa cinque chilometri dal centro città verso l’entroterra. Da quando è stato sgomberato, le persone vivono all’addiaccio, spesso sulle rive del fiume Roya. Da febbraio 2024 la Francia ha messo fine ai respingimenti sistematici grazie a una sentenza del Consiglio di Stato di Parigi che ha dichiarato illegittima la procedura delle autorità francesi. Anche se in numeri ridotti, alcune persone continuano comunque a essere riammesse in Italia.
Per approfondire:
• Il capitolo di Duccio Facchini sull’Italia nel libro “Chiusi dentro”
• I rapporti a cura dell’Asgi sull’Italia per l’Asylum information database (Aida)
• Le inchieste di Luca Rondi e Lorenzo Figoni pubblicate su Altreconomia sull’abuso di psicofarmaci nei Cpr italiani e sui mancati controlli delle prefetture
Gli altri Paesi:
• Turchia • Cipro • Grecia • Bulgaria • Macedonia del Nord • Serbia • Bosnia ed Erzegovina • Ungheria • Croazia • Albania • Francia • Spagna • Polonia • Lituania
Francia
Da quasi trent’anni la cittadina di Calais, sulla costa settentrionale della Francia e punto in cui il Canale della Manica è più stretto, è teatro di un copione disumano che si ripete dalla fine degli anni Novanta. Nel 1999, infatti, le autorità francesi aprirono il centro di Sangatte da 600 posti per “gestire” il flusso proveniente dai Balcani. Persone afghane, curde e iraniane affollarono la struttura che, pochi anni dopo, il 30 dicembre 2002, fu chiusa su pressione del governo di Londra. Le persone, però, continuarono ad arrivare costruendo nel tempo una sorta di baraccopoli sprovvista di servizi igienici, ribattezzata presto la “giungla”. Il primo sgombero risale al 2009, sette anni dopo la chiusura di Sangatte, ma fu una “soluzione” temporanea. Gli accampamenti ripresero fin da subito andando a incrementare durante la cosiddetta “crisi migratoria” -che in realtà fu la crisi del sistema d’asilo europeo- del 2015.
Nel gennaio 2015 il governo francese ha annunciato il primo nuovo centro d’accoglienza per migranti a Calais, prima solo tende per distribuire cibo e ricaricare i telefoni poi l’apertura di un dormitorio da 500 posti. Intorno a quella insufficiente risposta “istituzionale”, però, si è sviluppato nuovamente un insediamento informale, secondo molti il più grande mai esistito in Europa in cui sono arrivate a vivere anche più di 11mila persone.
A fine ottobre 2016 le autorità francesi hanno nuovamente sgomberato quello che nei fatti era diventato un villaggio con ristoranti, piccoli locali, persino moschee e scuole, tirate su con legno e plastica. In quattro giorni, con 1.250 agenti impiegati sul campo, sono state trasferite in diversi centri d’accoglienza francesi circa seimila persone ma almeno tre-quattromila avrebbero lasciato l’accampamento rifiutando altre collocazioni. La sera del 26 ottobre 2016 un vasto incendio ha distrutto nel giro di poche ore gran parte della jungle che oggi non esiste più.
La situazione di Calais
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Le persone, però, continuano ad arrivare. Nel 2023 Frontex, l’Agenzia che sorveglia le frontiere europee, ha registrato 62.067 tentativi di attraversamento della Manica, con 36.704 arrivi sulle coste britanniche, un terzo in meno rispetto al 2022. L’assenza di un’accoglienza istituzionale costringe le persone ad accamparsi, soprattutto utilizzando tende e ripari di fortuna.
“Partendo da luoghi più lontani dalla costa inglese il viaggio diventa più difficile. Il tempo di attraversamento con piccole barche da Boulogne-sur-Mer al Regno Unito raddoppia e la traversata è più pericolosa. Qualche settimana fa abbiamo accolto un gruppo di persone iraniane che hanno camminato 30 chilometri per ritornare fino a qui: avevano tentato di salire su una barca proprio a Boulogne-sur-Mer, ma hanno fallito” – Jeanne Bonnet, responsabile della casa di accoglienza La Margelle
Il controllo da parte della polizia è ferreo. Nel 2023 la Ong Human rights observer ha registrato 701 sgomberi forzati che hanno interessato 19.365 persone (di cui 271 arrestate). Sono state confiscate 2.181 tende e 241 sacchi a pelo. A questo si aggiunge poi il tentativo di rendere inagibili i luoghi di accampamento e di distribuzione: negli ultimi anni su volontà del Comune sono state scaricate più di 800 tonnellate di massi in alcune zone nel centro e nella periferia di Calais, per non permettere alle persone migranti di piantarci le tende o alle associazioni di consegnare cibo e materiale.
Da gennaio a metà settembre 2024 sono 39 le persone che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere il Regno Unito, il numero più alto di vittime dal 2021, quando, nell’arco di tutto l’anno, ne erano state registrate 40.
Per approfondire:
• il reportage di Davide Pignata da Calais dell’aprile 2024 su Altreconomia
• Il lavoro di Human Rights Observers a Calais e Grande-Synthe
Gli altri Paesi:
• Turchia • Cipro • Grecia • Bulgaria • Macedonia del Nord • Serbia • Bosnia ed Erzegovina • Ungheria • Croazia • Albania • Italia • Spagna • Polonia • Lituania
Spagna
Arguineguín, al Sud dell’isola spagnola di Gran Canaria, è uno dei punti di arrivo più frequenti della cosiddetta rotta atlantica delle persone in transito verso l’Europa, percorso tra gennaio e luglio 2024 da oltre 21mila persone, con un’impennata del 180% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Un aumento registrato anche dall’Agenzia che sorveglia le frontiere europee, Frontex, secondo cui gli “attraversamenti irregolari” sarebbero aumentati del 154% (gennaio-luglio 2024) rendendola una delle principali rotte di arrivo in Europa per le persone migranti.
Si tratta della traversata dall’Africa occidentale alle Isole Canarie, territorio spagnolo nell’oceano Atlantico. I Paesi di origine delle persone che affrontano questa rotta sono prevalentemente Mali, Senegal, Marocco e Sahara Occidentale, Costa d’Avorio e Guinea-Conakry, ma anche Mauritania, Gambia e Nigeria. Il viaggio in mare a seconda del punto di partenza -come ha scritto Chiara Fabbro su Altreconomia– copre una distanza che va da un centinaio fino a duemila chilometri. Significa trascorrere giorni e notti a bordo di piccole imbarcazioni sovraffollate, ancora più precarie per la recente tendenza all’utilizzo di gommoni, anziché barche di legno. Sono frequenti i problemi al motore, così come il disorientamento, e le persone a bordo possono restare alla deriva per giorni, se non settimane. Quando le scorte di acqua e cibo finiscono, l’unica speranza è essere avvistati da un’imbarcazione di passaggio, spesso navi mercantili o pescherecci, che possono allertare i soccorsi. Per questi motivi quella delle Canarie è una delle rotte più mortali: l’Organizzazione mondiale per le migrazioni stima per il 2023 959 persone disperse contro le 2.526 del Mar Mediterraneo, che però conta un numero maggiore di transiti. In totale, dal 2014 sarebbero almeno 3.926 coloro che sono morti tentando di raggiungere l’isola spagnola. Attualmente, una delle emergenze riguarda i minori stranieri accompagnati: a luglio 2024 sarebbero almeno 6mila quelli presenti sull’arcipelago.
Le organizzazioni della società civile hanno più volte denunciato le pessime condizioni in cui vivono le persone trattenute nei centri delle Isole Canarie in termini di garanzia dei diritti fondamentali e accesso a cibo, acqua, igiene; con pesanti impatti sul loro benessere psicologico. A maggio 2022 un rapporto del mediatore civico spagnolo ha denunciato le gravi lacune nella tutela delle persone vulnerabili, tra cui la mancanza di assistenza psicologica specializzata e la scarsa informazione ai minori sul diritto nell’ottenere protezione internazionale così come la mancata identificazione delle potenziali vittime di tratta degli esseri umani.
Il centro nella zona di Las Raices (qui sotto) è stato allestito in un campo militare di La Laguna, cittadina a dieci chilometri dalla capitale Santa Cruz de Tenerife. A inizio novembre 2023 il Consiglio comunale di La Laguna ha approvato una mozione (l’unico voto contrario è stato quello di Vox) che in 21 punti rivendica la natura di “comune aperto e accogliente” della città ribadendo il rifiuto del Comune di un modello di accoglienza basato sui macro-centri.
Il campo di Las Raices
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La struttura di Fuerteventura (qui sotto) funziona in parte come Cie (Centro di identificazione ed espulsione) e in parte come Cate (Centros de Atención Temporal de Extranjeros, centro per l’assistenza temporanea). Ha una capienza di più di mille posti e “ospita” sia adulti (donne e uomini) sia minori. Nei Cate avviene l’identificazione e la registrazione post-sbarco da parte della Polizia nazionale e le persone possono essere trattenute -sulla carta- al massimo per 72 ore.
Il campo di Fuerteventura
Per approfondire:
• L’ultimo rapporto sulla Spagna sull’Asylum information database (Aida)
Gli altri Paesi:
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Polonia
Secondo la polizia di frontiera polacca, da agosto 2021 ad agosto 2023 sono 73mila i tentativi di attraversamento del confine tra Polonia e Bielorussia. Dall’estate del 2021 infatti decine di migliaia di persone provenienti perlopiù da Paesi mediorientali (Iraq, Siria, Afghanistan) hanno cercato di raggiungere la Polonia dopo essere arrivate in Bielorussia e la rotta migratoria Nordorientale è diventata uno dei corridoi primari per cercare di accedere ai Paesi Nord-europei.
La polizia di frontiera ha il compito di decidere che cosa accade alle persone intercettate una volta attraversato il confine e nella maggior parte dei casi si tratta di un respingimento, anche in presenza di un’esplicita richiesta di asilo. Il pushback sancisce l’ingresso in un limbo in cui da una parte è interdetto l’ingresso in Polonia e dall’altra il ritorno in Bielorussia.
Una caratteristica comune ai vari centri sono le segnalazioni di comportamenti discriminatori e manipolatori da parte della polizia di frontiera nei confronti delle persone detenute. Queste ultime, infatti, all’interno del campo vengono identificate e chiamate non con il proprio nome, ma con un numero
La maggior parte di chi scampa al respingimento (nel 2021 secondo Balkan insight il 94% delle persone non respinte) viene trasferito in uno dei sei centri di detenzione (closed centers) sparsi per tutto il Paese, sia in zone urbane sia in aree boschive difficili da raggiungere e prive di servizi nei dintorni, per una capienza totale di 1.737 persone (ottobre 2023). Gestiti come prigioni di massima sicurezza dalla stessa polizia di frontiera e circondati da cinte in muratura e filo spinato – solo l’Unchr ha la possibilità di accedervi- presentano numerose criticità come la scarsa e insufficiente assistenza legale e sanitaria alle persone detenute, anche vulnerabili. Coloro a cui viene accettata la domanda di asilo vengono invece mandati in strutture di accoglienza (open centers) che, a inizio 2023, erano nove e capaci di accogliere fino a 1.714 persone.
Il centro di Wedrzin (in alto), nella parte occidentale del Paese, è stato realizzato a settembre 2021 in una struttura isolata a cinque chilometri dal centro più vicino e all’interno di un grande complesso militare che comprende oltre a magazzini e depositi di carburante o armamenti anche un poligono di tiro. Al suo interno vengono compiute anche simulazioni con carri armati e blindati. I migranti per la maggior parte provenienti da luoghi di conflitto come Siria, Iraq, Afghanistan, Somalia o Eritrea, sono quindi sottoposti al fragore degli spari di pistole e armi di assalto.
Colpisce la posizione di estremo isolamento del centro di Lesznowola, immerso all’interno di una foresta a oltre due chilometri dai piccoli villaggi più vicini e a 15 chilometri da Varsavia. Dall’immagine si nota come la struttura sia recintata con all’interno edifici allineati e spazi verdi e sportivi. Prevede, oltre alla capienza regolare di 200 persone, altri posti per l’isolamento di coloro che hanno violato o rischiano di violare le regole del campo (rigorous detention centers). Alla fine del 2023 risultavano 48 persone detenute. Le famiglie con bambini o i minori non accompagnati sono collocate qui. Dal 2020 è in costruzione un ampliamento adiacente con una grande struttura a tre piani, non è dato sapere se a scopi direzionali o detentivi.
Il centro di detenzione di Kętrzyn, nel Nord del Paese, si trova in una zona rurale all’interno di un grande centro istituzionale riadattato, circondato da ampie aree verdi e da numerosi edifici e locali di servizio. Fino al 2023 era destinato alle famiglie, successivamente però è stato trasformato in una struttura riservata agli uomini. Come riportato da Voxeurope, Aleksandra Pulchny, socia dell’Association for legal intervention di Varsavia, pensa che questo potrebbe essere accaduto perché il tribunale responsabile di esaminare i casi di quel centro era diventato troppo “a favore dei bambini”.
A Sud Est del Paese si trova poi il centro di Przemyśl. Anche questo presenta oltre alla regolare capienza di 147 persone, un certo numero di posti per coloro che non hanno o sono a rischio di non rispettare le regole imposte nei centri di detenzione (rigorous detention centers). Secondo l’European Council on Refugees and Exiles (Ecre), alla fine del 2023 erano 24. Un richiedente asilo collocato in un centro di questo tipo, più simile a una prigione che a un centro vigilato, deve rimanere in cella per gran parte della giornata e perfino bussare alla porta per essere portato in bagno.
Per approfondire:
• Il capitolo di Davide Pignata nel libro “Chiusi dentro”
• L’intervista di Davide Pignata a Rut Kurkiewicz, co-autrice del documentario “We are prisoners of the Polish State”, pubblicata su Altreconomia il 26 settembre 2023
• Il rapporto “La crisi umanitaria al confine polacco-bielorusso” di Grupa Granica
Gli altri Paesi:
• Turchia • Cipro • Grecia • Bulgaria • Macedonia del Nord • Serbia • Bosnia ed Erzegovina • Ungheria • Croazia • Albania • Italia • Francia • Spagna • Lituania
Lituania
La Lituania è un’oscura avanguardia, sia per la detenzione arbitraria e sia per la legalizzazione dei respingimenti. Da luglio 2021 le autorità del Paese hanno adottato leggi, politiche e pratiche finalizzate a impedire alle persone di chiedere asilo, imponendo anche la detenzione automatica e totalmente arbitraria di chiunque attraversasse il confine con la Bielorussia in maniera giudicata “irregolare”, chiudendo uomini, donne e minori in centri militarizzati presentati beffardamente come “alloggi temporanei” o “alternativi alla detenzione”.
Un report di Amnesty International del giugno 2022 ha mostrato come migliaia di rifugiati e migranti siano stati trattenuti “per mesi e mesi in squallidi centri simili a prigioni”, dove è stato negato loro l’accesso a “procedure di asilo eque” e sono stati sottoposti ad altre “gravi violazioni dei diritti umani”, nella speranza che tornassero “volontariamente” nei Paesi da cui erano fuggiti. L’organizzazione umanitaria ha intervistato decine di persone provenienti da Paesi come Camerun, Repubblica Democratica del Congo, Iraq, Nigeria, Siria e Sri Lanka, detenute illegalmente.
A Kybartai -una prigione fino al settembre 2021, per capire la natura originaria- si sono riviste finestre sbarrate, porte di sicurezza e un alto muro perimetrale con dentro persone responsabili di nulla, se non quella di fuggire dalla sofferenza. Le centinaia di reclusi avevano scarsa libertà di movimento, docce calde solo due volte a settimana, lavandini e bagni giudicati “squallidi”, filo spinato tutto intorno.
Al centro di Medininkai le persone “chiuse dentro” sono state fatte dormire in container su un campo da calcio e per andare in bagno erano costrette a uscire all’aperto, camminando nella neve del rigido inverno lituano. Di fronte alle proteste, le autorità hanno risposto con botte, spray al peperoncino, pistole taser, cani scatenati addosso. Alcune donne hanno raccontato di abusi e umiliazioni, con scene orribili e dal retroterra razzista. Dall’evoluzione mostrata dalle nostre immagini satellitari si nota come il centro sia stato allestito dopo il 2017 nel campo sportivo della scuola militare della guardia di frontiera. La struttura è estremamente compatta con container affiancati sul lato lungo in blocchi separati da spazi e percorsi molto stretti.
Il campo di Medininkai
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“Josephine”, una giovane donna dell’Africa subsahariana intervistata da Amnesty International, ha detto che le “guardie” lituane avrebbero riferito a lei e ai suoi compagni frasi del tipo: “Vi mandiamo nella foresta a cacciare”. E quando “stavi male e chiedevi un’ambulanza -ha proseguito Josephine- ti dicevano che la chiamavano solo se svenivi”
Per approfondire:
• La scheda di Duccio Facchini sulla Lituania nel libro “Chiusi dentro”
• Il lavoro di monitoraggio e denuncia di Amnesty International
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Credit
Elaborazione testi e impaginazione a cura di Altreconomia: Duccio Facchini, Luca Rondi e Martina Ferlisi. Ha collaborato Alessandro Ferrari. Coordinamento editoriale: Duccio Facchini.
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Elaborazione immagini a cura di PlaceMarks. Maps data: Google Earth, Maxar, Airbus. L’immagine di apertura è il campo di Lipa, in Bosnia ed Erzegovina.
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PlaceMarks: è un progetto che utilizza i dati e le immagini satellitari per raccontare il mondo e indagare le sue trasformazioni con una particolare attenzione ai contesti ambientali, ai fenomeni sociali e alle crisi umanitarie. Nato nel 2021 è coordinato dall’urban planner e ricercatore Federico Monica e dal giornalista Michele Luppi.
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