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Economia / Approfondimento

Chi ha fornito petrolio a Israele dopo il 7 ottobre. Anche l’Italia, con Eni, è coinvolta

© Oil Change International

La ricerca di Oil change international ha ricostruito le forniture di greggio e derivati degli ultimi nove mesi, denunciandone la trasformazione in carburante per le forze armate di Tel Aviv. Il ruolo delle multinazionali fossili europee e statunitensi e del Centro Olio Val d’Agri e i possibili profili di responsabilità nelle violazioni del diritto internazionale e umanitario da parte del governo israeliano

L’Italia è tra i Paesi che hanno fornito petrolio greggio e raffinato a Israele tra ottobre 2023 e luglio di quest’anno, esponendosi così a possibili complicità nella violazione del diritto umanitario e internazionale.

Tra le aziende coinvolte, infatti, ci sarebbe anche Eni, che insieme all’olandese Shell, controlla il Centro Olio Val d’Agri, in provincia di Potenza, da cui è partita una spedizione di 30mila tonnellate di greggio destinata proprio ai porti israeliani. Ne dà conto la ricerca pubblicata ad agosto dall’organizzazione di advocacy sul cambiamento climatico e i combustibili fossili Oil change international e rilanciata dal Guardian.

I legami tra l’azienda fossile italiana –partecipata al 30,5% dallo Stato tramite il ministero dell’Economia e Cassa depositi e prestiti– e Israele non si limitano alla fornitura partita direttamente dal nostro Paese: Eni -insieme ad altri colossi dei combustibili fossili- gestisce il Caspian pipeline, l’oleodotto che rifornisce Tel Aviv di petrolio proveniente dal Kazakistan.

Si tratta di spedizioni problematiche. Questi idrocarburi possono venire convertiti nelle raffinerie israeliane per produrre carburante utilizzato poi dalle forze armate del Paese. Rifornimenti fondamentali in quanto Israele non possiede sufficienti risorse di combustibili fossili e deve necessariamente fare affidamento sulle importazioni. Per queste ragioni le aziende coinvolte potrebbero venire considerate responsabili di aver facilitato le violazioni dei diritti umani in atto a Gaza.

Le indagini condotte da Oil change international hanno potuto ricostruire 65 spedizioni di petrolio (46 di greggio e 19 di prodotti raffinati) verso Israele negli ultimi nove mesi. Di queste ben 35 hanno lasciato il porto di partenza dopo il 28 gennaio, quando cioè la Corte internazionale di giustizia aveva preso in carico l’accusa di genocidio contro Israele mossa dal Sud Africa e si era espressa circa la sua “plausibilità”.

Una parte significativa delle spedizioni di greggio è stata effettuata da aziende, sia private sia di proprietà degli Stati, che sarebbero responsabili del 65% di rifornimenti di questo tipo di idrocarburi verso Tel Aviv. In particolare il 36% di queste spedizioni può essere fatto risalire a multinazionali fossili europee e statunitensi, tra cui Bp (8%), Chevron (8%), appunto Eni (4%), Exxon Mobil (6%), Shell (5%) e Total Energies (5%).

“Decidendo di continuare a fornire carburante a Israele nonostante le sentenze della Corte internazionale di giustizia che dichiarano illegittima l’occupazione di Gaza e che le azioni di Israele potrebbero aver violato la Convenzione sul genocidio, le grandi compagnie petrolifere stanno dimostrando ancora una volta di dare più importanza ai profitti che ai diritti umani e a un clima stabile -ha dichiarato David Tong, Industry campaign manager di Oil change international-. Ogni giorno che Chevron, Bp, Exxon, Shell, Eni e Total energies forniscono carburante a Israele, queste compagnie si espongono a potenziali azioni legali per la loro complicità negli atti di genocidio contro i civili a Gaza”. 

I maggiori esportatori di petrolio greggio verso Israele sono stati per il 28% l’Azerbaigian (uno dei principali produttori di combustibili fossili che, paradossalmente, ospiterà la prossima Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, la Cop29 di Baku) e Kazakistan (22%), dove le operazioni di estrazione e trasporto sono gestite dalle aziende fossili già menzionate. Gli idrocarburi azeri raggiungono Israele attraverso l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (Ctb) gestito per il 30% da Bp. Mentre il Caspian pipeline, che collega il Kazakistan al Mar Caspio, è di proprietà di diverse aziende fossili, tra cui come detto anche di Eni, Shell ed Exxon. 

Il 47% delle restanti importazioni proviene da Italia, Gabon, Nigeria, Brasile e Congo Brazzaville, mentre del rimanente 3% non è stato possibile stabilire l’origine.

“In modo indipendente dalla regolamentazione statale, le aziende che vendono petrolio e carburante e altre forniture militari al governo di Israele hanno la responsabilità di rispettare i diritti umani e di attenersi al diritto umanitario internazionale e al diritto penale internazionale, come riconosciuto nei Principi guida delle Nazioni Unite -ha aggiunto Irene Pietropaoli, ricercatrice in Business and human rights presso il British institute of international and comparative law, interpellata da Oil change international-. Le aziende che forniscono carburante e petrolio a Israele possono fornire supporto materiale alle forze armate, consapevoli dei loro prevedibili effetti dannosi, e quindi rischiano di rendersi complici di crimini di guerra, genocidio e violazioni del diritto internazionale”. 

A partire dall’ottobre 2023 Israele ha visto arrivare ai propri porti anche 19 navi contenenti petrolio raffinato, per un totale di 687mila tonnellate. Il maggior esportatore (per il 36% del totale) sono gli Stati Uniti, che hanno inviato carburante militare per i jet. I restanti rifornimenti, che consistono in un misto di olio combustibile, gasolio e diesel, gasolio sottovuoto e nafta, sono di provenienza russa (per il 28%), brasiliana (16%), albanese (10%), greca (5%) e italiana (2%).

Altri Paesi come Turchia, Cipro e Grecia, anche se non sempre coinvolti direttamente nella produzione e nella raffinazione del petrolio, hanno fornito porti e navi per il trasporto. Oil change international ha individuato, tra tutte le 65 spedizioni oggetto della sua analisi, 37 navi che hanno fatto la spola tra i porti israeliani e quelli di partenza. Di queste, il 41% batteva bandiera maltese e il 22% bandiera greca.

“Alcuni Paesi hanno già preso provvedimenti sulle spedizioni di carburante a causa della crisi di Gaza -concludono i ricercatori di Oil change international-. Nel giugno 2024, ad esempio, la Colombia ha creato un precedente e ha emesso un embargo sulle esportazioni di carbone verso Israele fino a quando la Corte internazionale di giustizia non esprimerà un parere definitivo”. Fino al blocco, oltre il 50% delle importazioni israeliane di carbone provenivano dalla Colombia. Resta da vedere se altri Paesi seguiranno questo esempio. 


Il 27 agosto Eni ci ha inviato la sua posizione ufficiale sulla questione sollevata da Oil change international:“Al di là della correttezza delle informazioni riportate, che non intendiamo commentare, Eni respinge con fermezza le accuse estremamente gravi contenute nel rapporto e si riserva il diritto di intraprendere le vie legali nei confronti di chiunque, che siano media, esperti legali o avvocati, associ le attività di Eni con gli eventi bellici attualmente in corso a Gaza, in particolar modo se fatto tramite connessioni prevalentemente indirette come le partecipazioni dell’azienda in progetti upstream o midstream. Teniamo inoltre a sottolineare come, in generale, le forniture petrolifere siano innanzitutto destinate a supportare il funzionamento dei sistemi sociali, economici e industriali dei Paesi che le ricevono (trasporti, scuole, sistemi sanitari, industrie, ecc), e che avanzare accuse strumentali circa il loro impiego militare è estremamente grave e infondato”.

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