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Contrastare il bullismo è possibile. Anche senza punizioni esemplari

Grazie al “Metodo della Responsabilità di Classe” condotto da un’associazione friulana, diversi casi di esclusione interni anche a gruppi online di WhatsApp hanno trovato una soluzione positiva. Coinvolgendo direttamente i ragazzi

Tratto da Altreconomia 189 — Gennaio 2017
Pugni serrati e viso basso, tra le gambe: un giovane triste. Non è semplice riconoscere un vittima di bullismo, ma le vittime possono presentare alcune caratteristiche comuni - www.istockphoto.com

A 13 anni ha avuto la sfortuna di diventare la vittima di alcuni compagni di classe. Prima l’hanno esclusa, poi l’hanno presa in giro; sia nella vita reale sia in quella mediata dalla chat on-line di WhatsApp. Lui, invece, di anni ne ha 12 e con i suoi compagni è iscritto al gruppo WhatsApp della classe, un luogo virtuale che è diventato presto una piazza per deriderlo.
Entrambi i casi sono stati risolti grazie al Metodo della Responsabilità di Classe, un protocollo di intervento derivato dal No Blame Approach (NBA): “Nel caso della studentessa -spiega Giacomo Trevisan, coordinatore regionale di Media Comunicazione Comunità, associazione pordenonese promotrice del metodo- c’è stata un’ immediata diminuzione delle prese in giro e, gradualmente, si è giunti a una sua maggiore inclusione nelle attività informali come ricreazione, sport e giochi della classe e gruppo WhatsApp. Lei stessa ha espresso un miglioramento del proprio benessere”. Anche per il ragazzo la situazione si è risolta positivamente: “Chi aveva cominciato a prenderlo di mira on-line si è reso conto di aver esagerato, arrivando a chiedere scusa pubblicamente allo studente preso di mira”. Risultati importanti che Trevisan sottolinea con orgoglio mentre illustra il successo del Metodo della Responsabilità di Classe: “In totale, nelle due scuole del Friuli-Venezia Giulia che hanno aderito alla sperimentazione nello scorso anno, sono stati risolti quattro casi. Nel 2016 sono invece cinque le scuole che hanno deciso di far parte del progetto”.

Il No Blame Approach si sviluppa negli anni 90 da una serie di studi effettuati dagli educatori inglesi Barbara Maines e George Robinson, i quali dimostrarono che il metodo più diffuso, cioè quello della punizione esemplare come deterrente per il bullismo, non funzionava: non aveva portato né a una diminuzione dei casi di bullismo né a un miglioramento delle condizioni delle vittime. “Inoltre -aggiunge Trevisan- bisogna considerare anche che chi compie atti di bullismo o cyberbullismo ha alle spalle un disagio personale. Se si prende coscienza di questa situazione, occorre chiedersi se la punizione esemplare di fronte agli altri possa realmente, da sola, migliorare questo disagio oppure, come spesso può accadere, non rischi di lasciarlo inalterato o addirittura di amplificarlo”. Secondo i sostenitori di questo metodo, per affrontare il problema occorre allargare lo sguardo e individuare nell’atto di bullismo non solo un gesto di aggressione -con un colpevole e una vittima- ma anche un episodio che si genera all’interno di una dinamica di gruppo in cui tutti i componenti hanno un ruolo: chi nel sostenere il bullo e chi nell’ignorare o nel non intervenire.

“Il presupposto -riflette Trevisan- è che se si riesce a cambiare la dinamica di gruppo nel suo complesso allora si riuscirà a migliorare sia la condizione della vittima sia il comportamento del bullo. Bisogna inoltre precisare che la punizione non viene esclusa a priori, ma rimane come soluzione estrema se prima non si riesce ad ottenere il risultato attraverso il lavoro con gli studenti. A volte è inevitabile, ma viene lasciata come ultima chance”. Per riuscire a raggiungere l’obiettivo finale le azioni previste dal metodo si focalizzano sulla responsabilizzazione degli studenti che vengono coinvolti in prima persona: dopo aver identificato il problema, un insegnate parla con la vittima illustrando il metodo che si intende seguire e chiedendo di segnalarle, in via confidenziale, sia gli studenti che sono stati protagonisti degli atti di bullismo sia i compagni di cui si fida maggiormente. In seguito prende via il cuore del metodo, cioè l’attivazione del gruppo di supporto che è composto dagli studenti indicati, fino a un massimo di otto allievi, che aiuteranno il docente nel miglioramento del clima scolastico attraverso idee concrete, positive, che comportino un impegno personale e che responsabilizzino i ragazzi: interrompere i comportamenti aggressivi di persona e on-line; aiutare lo studente escluso a fare i compiti se ne ha bisogno; coinvolgerlo maggiormente in attività informali, come uscire nel pomeriggio, fare sport o andarlo a trovare a casa se non viene a scuola. “Tutte cose semplici che possano far stare meglio lo studente bersaglio degli atti di bullismo o di cyberbullismo, ma sulle quali ciascuno studente deve prendersi un impegno personale. Lo scopo -sottolinea Trevisan- non è mettere lo studente in difficoltà al centro dell’attenzione o fingere che di colpo siano tutti amici, ma, al contrario, farlo star meglio facendolo sentire ‘normale’, accettato, incluso nel gruppo e non preso di mira attraverso i comportamenti quotidiani”. Un lavoro che può richiedere però un atteggiamento diverso anche da parte degli adulti coinvolti, come, ad esempio, i genitori: “Proprio il caso del ragazzo 12enne ci ha fatto capire l’importanza di un cambiamento culturale anche nelle persone mature: tutti i partecipanti, infatti, avevano espresso parere positivo sul processo e solo i genitori dello studente preso di mira si sono lamentati perché l’aggressore non era stato punito. Il preside però è stato molto fermo e ha spiegato il metodo e i risultati ottenuti senza cedere alla richiesta di punizione”.

In Italia, il 22,2% dei ragazzi tra gli 11 e i 17 anni ha subito una qualche prepotenza tramite l’uso delle nuove tecnologie come telefoni cellulari, Internet e e-mail (dati Istat)

Media Educazione Comunità, l’associazione di promozione sociale formata da educatori, formatori ed esperti di media che ha portato in Italia il No Blame Approach, ha potuto constatare direttamente i risultati del metodo ottenuti in Germania, dove le sperimentazioni sono iniziate nel 2003 a livello locale: nel periodo 2006-2008 il test si è allargato a livello nazionale e la valutazione dei risultati ha dimostrato l’alta efficacia del processo, con oltre l’80% dei casi di bullismo risolti senza ricorrere a punizioni esemplari. “In Germania, nel 2015, ho frequentato con altri colleghi un corso intensivo di formazione sul metodo suddiviso in tre parti e tenuto da esperte in mediazione e certificate in ambito NBA: durante il corso -dice Trevisan- abbiamo studiato e sperimentato direttamente le tecniche tramite lezioni frontali, simulazioni e attività di gruppo. Abbiamo inoltre approfondito le modalità di implementazione nelle scuole confrontandoci con le formatrici che ci hanno fatto da tutor discutendo i progressi e le azioni svolte tra un training e l’altro”. Forte di tale formazione l’associazione è entrata a far parte del progetto europeo Joining Forces to Combat Cyber Bullying in Schools, finanziato attraverso Daphne, un programma europeo pluriennale con chiamate periodiche che permettono di presentare richieste di finanziamenti per progetti: “Il nostro in particolare prevedeva uno sviluppo di due anni, da gennaio 2015 a dicembre 2016, con la partecipazione di cinque Paesi europei: Germania, Italia, Slovenia, Ungheria, Polonia”.

Alla base del progetto attuato dall’associazione Media Educazione Comunità ci sono i risultati del rapporto Istat “Aspetti della vita quotidiana” pubblicato nel 2015: poco più del 50% degli 11-17enni ha subito qualche episodio offensivo, non rispettoso o violento da parte di altri ragazzi o ragazze: il 19,8% è stato vittima di questi comportamenti più volte al mese, mentre per il 9,1% gli atti di prepotenza hanno avuto una cadenza settimanale. Insulti, offese, diffamazioni ed esclusioni, ma anche spintoni, botte, calci e pugni. Ad allarmare è poi il ruolo assunto dai social network: dai dati dell’indagine dalla società inglese YouGov nel 2015, che ha coinvolto 4.720 ragazzi tra i 13 e i 18 anni provenienti da Regno Unito, Germania, Spagna, Italia, Olanda, Nuova Zelanda, Grecia, Sud Africa, Stati Uniti, Irlanda e Repubblica Ceca, il 18% degli adolescenti è stato vittima di cyberbullismo, il 18% di questi ha pensato al suicidio mentre il 21% delle vittime non si è più recato a scuola.
Secondo l’Istat, in Italia, il 22,2% dei ragazzi tra gli 11 e i 17 anni ha subìto una qualche prepotenza tramite l’uso delle nuove tecnologie come telefoni cellulari, Internet ed e-mail. Quasi uno su quattro. I dati disponibili sulla sperimentazione del Metodo della Responsabilità di Classe sono al momento esigui, ma i quattro casi di bullismo risolti senza punizione lo scorso anno possono essere l’inizio di una sua maggiore diffusione. “Il nostro obiettivo -conclude Trevisan- e far sì che questo sistema possa servire non solo nei casi più gravi, ma soprattutto come prevenzione, e che si possa utilizzare cioè anche quando si inizia a intravedere o intuire casi di esclusione o di studenti presi di mira. Dobbiamo lavorare sulla cultura scolastica e sul coinvolgimento diretto dei ragazzi, affinché comprendano, si rendano conto e sappiano gestire anche autonomamente i conflitti prima che sia troppo tardi”.

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