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Diritti / Opinioni

Bosnia ed Erzegovina: il Paese-trappola dove i rifugiati non trovano protezione

Una vista aerea di Sarajevo, capitale della Bosnia ed Erzegovina © Natalya Letunova, unsplash

Il Paese balcanico continua a essere sprovvisto di un vero sistema d’asilo, ma con l’avvio dell’accordo di riammissione con il Pakistan cerca di non essere più nemmeno luogo di transito. Esponendo i richiedenti asilo alla violazione sistematica dei loro diritti. Il commento di Gianfranco Schiavone

Colpisce vedere avviato, nell’agosto 2022, seppure con numeri simbolici, l’accordo di riammissione tra Bosnia ed Erzegovina e Pakistan del luglio 2021, dal momento che nel Paese balcanico il numero di migranti e richiedenti asilo continua a essere irrilevante. Come evidenziato dai dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), a giugno 2022 sono arrivati poco più di duemila migranti. Nonostante il  95% abbia espresso intenzione di chiedere asilo e il secondo gruppo più numeroso sia costituito da cittadini afghani (la cui necessità di protezione è evidente) tale intenzione non si concretizza per quasi nessuno di loro tanto che sono pendenti 141 domande di protezione, tra cui dieci relative a cittadini pakistani. Il diritto d’asilo in Bosnia ed Erzegovina, a metà 2022, continua dunque a essere all’anno zero, ovvero allo stesso punto in cui si trovava al momento della pubblicazione, a luglio 2021 del rapporto di Rivolti ai Balcani “ Bosnia Erzegovina. La mancata accoglienza”.

A un anno di distanza ritengo importante riprendere le parole contenute in quel rapporto laddove si ricordava come esiste “un quadro ben più complesso della facile spiegazione che riconduce l’assenza dei rifugiati nei Balcani alla sola ragione legata alla loro scelta di andare altrove. Tale spinta, che senza alcun dubbio esiste, è prodotta anche dal fatto che provare a rimanere è impossibile: le condizioni di assoluto e inaccettabile degrado nei campi di ‘accoglienza’, la mancanza di ogni forma di accoglienza ordinaria alternativa alla logica dei campi, la radicale assenza di qualsiasi percorso di integrazione sociale, anche per i pochi titolari di protezione internazionale, l’applicazione di criteri rigidi e i tempi d’attesa lunghissimi per l’esame delle domande (prossimi a due anni, nonostante i pochissimi richiedenti), la mancanza, nei diversi ordinamenti, di una forma di protezione aggiuntiva a quella internazionale, compongono un paradigma espulsivo durissimo”.

Inseguendo una strategia alquanto ardita, la Bosnia ed Erzegovina, con il supporto dell’Unione europea, non solo vuole rimanere uno Stato senza un vero sistema di asilo ma, con l’avvio dell’accordo di riammissione con il Pakistan, cerca di non essere più nemmeno un Paese di transito. Sembra bensì aspirare a divenire un Paese-trappola dove i rifugiati non possono godere di alcuna protezione e nello stesso tempo sono esposti al rischio di respingimento verso lo Stato d’origine. Come fa ben notare la ricercatrice Gorana Mlinarevic la natura giuridicamente ambigua dei campi di confinamento sorti in Bosnia negli ultimi anni e del Temporary reception centre di Lipa in particolare (oggetto del rapporto di RiVolti ai Balcani “Lipa. Il campo dove fallisce l’Europa”) si presta benissimo a trasformare tali luoghi in centri di detenzione, anche de facto, da cui effettuare le espulsioni. Uno scenario che è stato ipotizzato anche in occasione del convegno internazionale “I campi di confinamento nell’Europa del XXI secolo”, organizzato da Rivolti ai Balcani e dal Centro Balducci nel maggio 2022.

La strategia criminosa del Paese-trappola è uno scenario concreto. Favorito, come di nuovo fa ben notare la Mlinarevic, dall’assenza, in Bosnia ed Erzegovina, di una rete di organizzazioni indipendenti che abbiano la capacità di monitorare il rispetto della legalità nei campi di confinamento e sul territorio. Si tratta però anche di una strategia molto difficile da realizzare, persino in Paese come la Bosnia dal momento che, pur nel quadro di sostanziale disprezzo per i diritti dei migranti -trattati come non-persone- non potrà essere impedito l’esercizio del diritto d’asilo, ai cittadini pakistani come ad afghani, iraniani e a cittadini di altre nazionalità. Un diritto che fino ad ora non veniva esercitato da chi ne aveva titolo, per usufruire di una sorta di informale “diritto di transito”. Scenario che potrebbe cambiare bruscamente trasformando questo piccolo Paese in una destinazione, almeno temporanea, di rifugiati.

Rimangono quindi inalterate nella loro validità le raccomandazioni di RiVolti ai Balcani contenute nel rapporto “Rotta balcanica. Migranti senza diritti nel cuore dell’Europa” dove si sottolineava la assoluta necessità di “supportare la Bosnia ed Erzegovina e gli altri Paesi non-Ue dell’area balcanica nella progressiva costruzione di sistemi di asilo realmente sostenibili alle loro possibilità e condizioni evitando in ogni caso la realizzazione di campi di confinamento” e, in parallelo, si chiedeva l’istituzione di “un sistema di relocation europeo dai Paesi non appartenenti all’Unione dell’area balcanica”.

Gianfranco Schiavone è studioso di migrazioni. Già componente del direttivo dell’Asgi, è presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati onlus di Trieste

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