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Bologna la diseguale. I risultati dell’inchiesta sociale sui costi e sulle fratture della città

Una vista di Bologna © Sterling Lanier - Unsplash

Dalla precarietà lavorativa alla difficoltà di accesso ai servizi pubblici come sanità, trasporti, istruzione. Fino alla crisi abitativa e all’inflazione. Dominano polarizzazione e distanza di classe tra proprietari e lavoratori. Che cosa è emerso dall’indagine realizzata dalla Cgil cittadina e dall’Istituto per le ricerche economiche e sociali dell’Emilia-Romagna (Ires), insieme a Arci, Link, Udu e Piazza Grande

Bologna la dotta, la rossa, la grassa. E adesso, Bologna la diseguale. “A Bologna, se non guadagni almeno 1.500 euro netti al mese e non hai una casa di proprietà, sei povero”, dice il segretario della Cgil di Bologna Michele Bulgarelli, commentando i risultati dell’inchiesta sociale sui costi della città realizzata dal sindacato e dall’Istituto per le ricerche economiche e sociali dell’Emilia-Romagna (Ires) insieme a Arci, Link, Unione degli universitari (Udu) e Piazza Grande.

Per conoscere le trasformazioni della città da un punto di vista alternativo e indipendente, questa inchiesta sociale dal basso ha toccato molti temi: dalla precarietà nel lavoro alla difficoltà di accesso ai servizi pubblici come sanità, trasporti, istruzione, fino all’impennata del prezzo degli affitti e dell’inflazione.

L’indagine si è svolta attraverso un questionario anonimo, accessibile sia online sia in formato cartaceo, diffuso dallo scorso febbraio. La raccolta delle interviste per questa prima analisi si è fermata il 15 agosto, anche se da allora i questionari continuano ad essere compilati: in tutto sono state prese in considerazione 6.084 risposte.

Il primo risultato consiste nell’individuazione di tre strati socio-economici rappresentativi di diversi livelli di ricchezza in città. Il primo, quello più basso, ha in media redditi non superiori ai 26mila euro all’anno: si tratta di persone che di solito non hanno una casa di proprietà, e con titoli di studio e condizioni di salute mediamente al di sotto della media.

Poi c’è lo strato medio, che gode di un benessere abbastanza elevato, incentrato soprattutto sul proprio reddito da lavoro. E infine lo strato alto, che ha circa lo stesso livello di benessere, ma che si caratterizza per la proprietà.

“Dietro la dicotomia ‘città del lavoro o della rendita’ sta l’esigenza di indagare i fattori della polarizzazione tra chi per vivere conta sul proprio lavoro e chi invece gode di una posizione di maggior vantaggio economico e sociale grazie alla proprietà e ai redditi che questa genera”, spiega Gianluca De Angelis, ricercatore di Ires che si è occupato dell’indagine.

“A fronte di una crisi complessiva di quella che Robert Castel chiamava ‘la proprietà sociale’, ovvero di tutti quei presidi che hanno contribuito a ridurre la distanza tra la classe dei proprietari e quella dei lavoratori, la proprietà privata che torna ad essere un criterio distintivo nell’accesso ai servizi e, di conseguenza, nell’esigibilità dei diritti fondamentali. Rispetto a questa diseguaglianza sistemica, il lavoro gioca ormai un ruolo secondario”.

La crisi economica colpisce in primis gli acquisti: nell’ultimo anno il 44% dei rispondenti ha dovuto ridurre o rinviare le proprie spese per beni o servizi. Nello strato basso, le rinunce sono state maggiori, in particolare per quanto riguarda la salute, il cibo e le bollette. Negli strati medio ed elevato, invece, ad essere penalizzati sono stati viaggi, vacanze e uscite nei ristoranti o nei bar. Altro dato emblematico: il 14% dei rispondenti non potrebbe affrontare una spesa imprevista di 850 euro (nello strato basso la percentuale sale al 28%).

A risultare lampante è anche la crisi abitativa, che colpisce soprattutto i giovani che non hanno una casa di proprietà: le difficoltà sono legate principalmente ai costi elevati, sia per l’acquisto sia per l’affitto, e alle garanzie richieste dai proprietari e dalle banche.

Nel caso in cui le difficoltà dovessero protrarsi, i giovani sono più propensi a cercare in altre zone o all’estero, mentre i più anziani tendono piuttosto a rinunciare al nuovo progetto abitativo. “Il rischio espulsione dalla città è maggiore nello strato basso -continua De Angelis- dove sono maggiori le quote di chi cercherebbe in un’altra provincia (14%), Regione (17%) o fuori dall’Italia (17%)”.

La polarizzazione, insomma, si evidenzia in tutte le variabili considerate, dall’esposizione ai fattori di rischio marginalizzazione fino alla discriminazione subita nel contesto lavorativo. Anche la scelta della scuola è influenzata dalla condizione socio-economica di partenza: al netto di una generalizzata preferenza per il pubblico, lo strato elevato tende a optare più spesso per le scuole private. La differenza si accentua alle superiori, con lo strato basso orientato verso istituti professionali e tecnici, mentre quello elevato tende a optare per i licei, che forniscono una preparazione più adeguata per proseguire il percorso di studio.

“Questo mostra, da un lato, come le famiglie più abbienti investano maggiormente nell’istruzione dei figli -dice ancora De Angelis- dall’altro come la scuola e l’educazione definiscano un ambiente che finisce per conservare le diseguaglianze, invece che superarle”.

E poi c’è la salute: il medico di base rimane ancora la figura di riferimento per la maggioranza delle persone, mentre il ricorso a specialisti a pagamento è più frequente nello strato elevato.

Quasi la metà dei rispondenti (49%) ha rinunciato ad almeno una prestazione sanitaria nell’ultimo anno, con la percentuale che sale al 56% nello strato basso. Se nel complesso si rinuncia soprattutto per colpa di tempi di attesa troppo lunghi (66%), nello strato basso impattano in particolar modo i costi troppo elevati delle cure (26%).

“L’inchiesta sociale ha esplorato alcuni dei terreni più esposti alle fratture sociali, mostrandone le principali linee di faglia, ma altri se ne potrebbero aggiungere -conclude De Angelis-. Il benessere autoalimenta sé stesso, acuendo la diseguaglianza. Si tratta, a questo punto, di scegliere se puntare sulla riduzione di queste distanze, o se lasciarle crescere e consolidarsi”.

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