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Economia / Attualità

La transizione ecologica passa dalla Banca europea degli investimenti. Ecco perché

Il 14 novembre si terrà un incontro decisivo dei direttori esecutivi della BEI, chiamati a ridefinire la strategia di sostegno e prestiti al settore energetico. Nonostante l’Accordo di Parigi, però, c’è il rischio che l’istituto continui a investire nei combustibili fossili dopo il 2020, esponendosi a rischi legali e finanziari, oltre che ambientali. Lo scontro tra Francia e Germania e la posizione subalterna dell’Italia

Il 14 novembre si terrà un incontro importante dei direttori esecutivi della Banca europea degli investimenti (Bei). I rappresentanti dei governi europei dovranno discutere e prendere una decisione sulla revisione della strategia di sostegno al settore energetico, un processo che ha impegnato la Banca e poi gli Stati membri dall’inizio dell’anno. Secondo indiscrezioni trapelate dopo la riunione del board di ottobre, sarebbe in corso una vera e propria rottura tra Germania e Francia, ferme su posizioni inamovibili che tratteggiano interessi e nuove alleanze in definizione che non hanno nulla a che fare con una una visione più o meno “green” del prossimo futuro. Al contrario, mettono in evidenza interessi finanziari e commerciali che guarda caso convergono proprio nel settore energetico.

In un contesto di crisi e di riorganizzazione di diversi settori produttivi, anche alla luce della firma e ratifica dell’Accordo di Parigi, è chiaro che la Bei diviene attore centrale proprio nel sostenere e indirizzare gli investimenti privati nell’Unione europea, e in certa misura fuori dai propri confini. Il ruolo della Bei è sempre di più quello di rendere appetibili per investitori privati progetti infrastrutturali che ad esempio non avrebbero la capacità da soli di raccogliere capitali sui mercati finanziari, o di farlo con tassi di ritorno che la presenza della Bei può garantire. Un’arma questa -tecnicamente chiamata blending, ovvero l’utilizzo di fondi pubblici per migliorare le opportunità di accesso ai mercati del settore privato- a doppio taglio, che negli anni recenti è stata utilizzata per favorire il settore del gas in maniera quasi ideologica, ovvero contro ogni regola di mercato e in contrasto con le posizioni su ambiente e clima assunte dalla stessa Commissione europea.

Questo mente una parte sempre più ampia del mondo degli investitori privati procedeva al disinvestimento da progetti nei combustibili fossili e rifiutava di investire in altri nuovi, mossi da ragionamenti etici ma anche finanziari: investimenti in nuove esplorazioni, o in infrastrutture nel settore del gas prevedono un ritorno dell’investimento tra i 20 e i 50 anni, a seconda del progetto. Da qui il rischio di ritrovarsi tra qualche anno con i bilanci gravati da investimenti in stranded asset, ovvero in partecipazioni a progetti e aziende che potrebbero perdere totalmente di valore a causa di una restrizione normativa che riguarda il settore delle energie fossili, e che potrebbe imporne ad esempio la chiusura anticipata.

Proprio ieri, il 12 novembre, gli avvocati dell’organizzazione Client Earth hanno inviato una lettera ai direttori esecutivi della Bei per ricordare gli obblighi di legge della banca rispetto all’Accordo di Parigi, e al proprio trattato fondativo. Obblighi che la banca non rispetterebbe se dovesse decidere di continuare a investire nel settore del gas dopo il 2020, esponendola quindi, secondo gli avvocati, anche a un rischio legale. Una lettera simile è stata inviata anche all’esecutivo della Germania, che in questo momento sembra vivere una vera e propria crisi interna rispetto al tema del gas e al voto di domani. Al punto che, secondo un articolo di Euractive di questa mattina (13 novembre), la Germania prevede di astenersi dal voto sulla nuova politica energetica della Bei. Una vera e propria spaccatura interna che neanche la dichiarazione uscita dall’incontro dei Ministri delle finanze europei dell’8 novembre è riuscita a sanare.

La Germania, come anche l’Italia, contrarie alla proposta dei tecnici di Lussemburgo di mettere fine ai prestiti al settore del gas come degli altri combustibili fossili, difendono interessi di società di bandiera, più che avere una propria lettura strategica della trasformazione che il settore energetico -e non solo quello- dovrà attraversare nei prossimi anni. Per la Germania il vincolo maggiore è che l’uscita dal carbone e dal nucleare che il governo Merkel sta già attuando, si fonda su una sostituzione con il gas, e in futuro su un passaggio all’idrogeno (o a forme di gas più “green” tutte da verificare). Per l’Italia, che invece è priva di una strategia di uscita dalle energie fossili, ma al contrario sostiene l’espansione del settore per mano di società partecipate (e in teoria controllate) dal governo (come Eni e Snam), la situazione sembra essere diversa. In assenza di un dibattito politico interno al governo sulla politica energetica della Bei, sembra esserci più un appiattimento del governo sull’agenda delle aziende del settore, una posizione questa poco lungimirante oltre che complessivamente dannosa per un paese che vive nel quotidiano l’impatto dei cambiamenti climatici.

Determinante domani sarà anche la posizione della Commissione europea, a cui è venuto incontro il vice presidente della Bei Andrew McDowell con una lettera inviata il 5 novembre, in cui propone di escludere i “progetti di interesse comune” europei dalla deadline per uscire dagli investimenti nei combustibili fossili, che sarebbe per questi ultimi spostata alla fine del 2021 (invece che 2020). La lettera, che proponeva una mediazione su diversi altri aspetti della policy, sembra essere un ultimo tentativo per arrivare a una decisione domani, anche se su un testo molto meno ambizioso di quello pubblicato ad agosto. Vista la prevista astensione della Germania, non è detto che basti. E a questo punto bisognerebbe chiedersi anche quanto la stessa Commissione europea, guidata da DG Energia, sia ripiegata sulle richieste delle corporations del settore e dei gruppi di lobby pro-gas che operano a Bruxelles. Fatto questo che lascia ancora più a disagio se pensiamo che la Commissione siede nel board della Bei di fatto come osservatore (ovvero senza diritto di voto) ma che può esprimersi in caso di difficoltà nella presa di decisioni, esprimendo la propria posizione e tutto il peso politico dell’istituzione e degli interessi -corporativi -che rappresenta. E che non sono quindi né “neutrali” né “tecnici”. È un momento decisivo, visto che c’è in ballo c’è la possibilità reale per l’Europa di fare quella inversione a “U” che molti chiedono, e abbandonare una volta per tutte i combustibili fossili.

Re:Common

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