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Economia

Banca d’Italia: un regalo per le banche

Le azioni di Bankitalia spa valgono 7,5 miliardi di euro. Ma fino al 23 dicembre, quando è stato modificato lo statuto, il capitale in mano a una sessantina di soggetti era "quotato" 156mila euro. Dopo la conversione in legge del dl 133/2013, due soci dovranno dismettere quote: sono Unicredit e Intesa Sanpaolo, che dall’operazione incasseranno plusvalenze miliardarie. Mentre l’Italia fa i conti con le “sofferenze” degli istituti di credito 

Tratto da Altreconomia 156 — Gennaio 2014

Nelle trenta pagine che riassumono i contenuti dell’audizione di Ignazio Visco di fronte alla sesta Commissione (Finanze e Tesoro) del Senato, dove il 12 dicembre scorso il governatore della Banca d’Italia è andato a parlare del “capitale di Bankitalia”, manca una parola: Basilea. Eppure, è nella città svizzera che ha sede la Banca dei regolamenti internazionali (Bis, www.bis.org), nel cui board Visco rappresenta l’Italia. Ed è lì che si riunisce il Basel Committee on Banking Supervision, da cui dipende “Basilea 3”, un pacchetto di riforme che dal primo gennaio 2014 impone a tutte le banche di adeguare a standard più elevati i livelli di “qualità” del patrimonio, di copertura e di gestione dei rischi, a partire da requisiti globali e uniformi, cui tutti gli istituti di credito, da quelli dei Paesi Ue a quelli statunitensi, devono far riferimento (vedi box a pag.17).
Così, Visco avrebbe potuto spiegare ai senatori che la bontà di un disegno di legge che rivaluta di qualche miliardo di euro il valore della Banca d’Italia, e impone un tetto massimo del 5 per cento alla partecipazione di ogni singolo azionista della nostra banca centrale, serve ad alcune banche per essere più solide di fronte a Basilea. Secondo valutazioni interne, il valore delle azioni di Bankitalia -oggi fissato a 156mila euro- passerà con la rivalutazione a un totale tra i 5 e i 7,5 miliardi di euro. Ciò significa che Intesa Sanpaolo e Unicredit, che oggi sommano il 64,6% del capitale e dovranno scendere al 10 per cento, potranno incassare tra i 2,7 e i 4,1 miliardi di euro.
I due maggiori gruppi bancari italiani sono gli unici che si troveranno nella condizione di dover cedere azioni. 
Secondo Angelo Baglioni, professore della Facoltà di Scienze bancarie, finanziarie e assicurative dell’Università Cattolica di Milano, “desta qualche sospetto la fretta con cui Bankitalia ha convocato per il 23 dicembre 2013 l’assemblea per la modifica dello Statuto, anche perché tutto ciò avviene senza alcun dibattito pubblico”. Baglioni, che per lavoce.info ha curato un piccolo dossier che si chiede quale sia l’interesse principale nell’operazione, lo riassume così parlando con Ae: “La Banca d’Italia vuole evitare che le proprie azioni vengano trasferite allo Stato, perché teme di tornare nella sfera pubblica. L’interesse delle banche è dato non tanto dalla liquidità, quanto dalle plusvalenze ottenute vendendo le azioni rivalutate, che migliora il dato relativo al patrimonio di vigilanza e le rende più solide di fronte a Basilea 3. Lo Stato, che tassa queste plusvalenze, potrà incassare fino a 1,2-1,5, miliardi di euro, coprendo così l’abolizione della seconda rata dell’Imu”. 
Le due maggiori banche italiane, spiega Baglioni, “hanno già un livello generale di capitalizzazione buono, sopra i requisiti minimi”, che vengono misurati in particolare da un parametro definito Core Tier1, che rappresenta il rapporto tra gli attivi a bilancio (capitale, obbligazioni, partecipazioni) ponderati per un fattore di rischio e il patrimonio, e dev’essere superiore all’8 per cento.

“Diverso -aggiunge Baglioni- è invece il caso di alcune banche cooperative e popolari, ma anche tra le quotate ci sono situazioni in cui sarebbero necessari degli aumenti di capitale”. Oltre alla Banca popolare dell’Emilia-Romagna (Bper) e alla Banca popolare di Milano (Bpm), i nomi sono -naturalmente- quelli degli istituti di credito che riempiono da mesi le cronache economiche dei quotidiani con le proprie vicissitudini, dal Monte dei Paschi di Siena alla Cassa di risparmio di Genova (Carige).
Secondo il professore dell’Università Cattolica, tuttavia, i bilanci delle banche italiane sconterebbero, in parte, anche un “rischio Paese”: nel corso degli ultimi anni, l’esposizione del sistema verso i titoli di Stato è aumentato, fino a circa 400 miliardi di euro, di cui 149,5 (a giugno 2013) solo per Intesa Sanpaolo e Unicredit, e ciò renderebbe difficile “raccogliere capitali sui mercati, a differenza delle banche tedesche o dei Paesi del Nord Europa, che registrano una maggiore facilità a reperire liquidità sui mercati” e -anche per questo- si stanno mostrando in grado di rimborsare molto lentamente la Banca centrale europea che a partire dal novembre 2011 ha concesso agli istituti italiani un finanziamento al tasso agevolato dell’1 per cento per 255 miliardi di euro, nell’ambito delle due operazioni Ltro, cioè “Long Terms refinancing operation”. Le banche italiane ne hanno restituiti, al novembre 2013, solo 38, pari al 15 per cento del totale aggiudicato, contro una media del 39% dell’area euro. Poiché il prestito è triennale, una fetta va in scadenza a novembre del prossimo anno, e per quanto riguarda gli istituti italiani si tratta di 110 miliardi di euro.

C’è, tuttavia, un ambito di confronto con le altre principali banche dell’Ue dai quali gli istituti di credito di casa nostra escono a testa alta. Il primo riguarda i derivati, che -secondo l’analisi di R&S Mediobanca sulle maggiori banche europee- a giugno 2013 valevano in media appena il 7,6% del bilancio di Intesa e Unicredit, contro percentuali in doppia cifra per Svizzera (37,8%), Germania (28,3%) e Regno Unito (21,8%), con punte del 43,8% per Credit Suisse e del 33,3% per Deutsche Bank. “Questa diversità -osserva Baglioni- era già marcata nel 2007-2008, quando è esplosa la crisi finanziaria, e le banche tedesche avevano acquistato derivati, in particolare sul credito, provenienti dagli Stati Uniti e dal Regno Unito”, ovvero i Paesi -per evocare alcuni nomi ormai passati alla storia- di Lehman Brothers e Northern Rock.

Diverso, almeno in parte, è invece il caso dei “crediti dubbi”, che -sempre secondo l’analisi di Mediobanca- vede le banche italiane “triplicare” la media dei principali istituti di credito europei, con una esposizione pari al 77,5% (per Intesa) e al 87,6% (per Unicredit) del patrimonio netto, contro un modesto 28,8% delle prime 25 banche dell’Ue. “In Italia la definizione dei non performing loans è abbastanza ampia -spiega Baglioni-, e tiene dentro sofferenze (nei confronti di soggetti in stato d’insolvenza), incagli (nei confronti di chi è in temporanea difficoltà), ma anche debiti “ristrutturati” (quelli, cioè, di cui sia stata posticipata la scadenza) oppure scaduti o “sconfinati” di oltre 3 mesi. Fatto sta, che dal 2008 all’estate del 2013 -secondo un’analisi di Pricewaterhouse Coopers, PwC– sono cresciuti, in media, del 31% annuo, arrivando a sfiorare i 140 miliardi di euro.
Secondo PwC, “il rapporto di copertura delle sofferenze risulta sostanzialmente invariato rispetto al 2012” e molto variabile, dato che nelle prime 20 banche italiane “si discosta significativamente da banca a banca (dal 38% al 64%)”. Significa, questo, che le banche italiane non hanno accantonato riserve adeguate per coprire questi “crediti dubbi”, perché nel farlo avrebbero dovuto ridurre il proprio patrimonio, peggiorando cioè il Core Tier1 in vista dell’entrata in vigore di “Basilea 3”.
“La vigilanza di Banca d’Italia è molto severa -afferma il professor Baglioni-: nell’ultimo anno e mezzo ha imposto alle banche italiane numerose ‘rettifiche’ su alcuni prestiti, e l’effetto è evidente a guardare i risultati operativi delle banche nel 2012”.
E ancora nei primi nove mesi del 2013, Banca d’Italia ha costretto Intesa Sanpaolo e Unicredit a “rettificare” la posizione di prestiti erogati per circa 8 miliardi di euro, e le banche minori per altri 2,5 miliardi. L’effetto sommato dell’esplosione delle sofferenze e di Basilea 3 hanno contribuito ad ingessare il mercato del credito, cioè a ridurre i finanziamenti all’economia reale, famiglie (-1,3% su base annua ad ottobre 2013) e imprese non finanziarie (meno 4,9%).

Questo dato, però, può essere letto in modo disaggregato, e ciò aiuta a capire che non tutti i cittadini e non tutti gli imprenditori sono uguali davanti alle banche: secondo un’elaborazione del Centro studi di Unimpresa, coloro che hanno accesso a prestiti che valgono oltre 2,5 milioni di euro l’uno, meno di 9mila soggetti (lo 0,7% del totale) sono responsabili di oltre il 40% delle sofferenze, per più di 55 miliardi di euro. Questo dato va letto insieme a quello diffuso dal Centro studi della Fiba (il sindacato dei bancari della Cisl), secondo cui 17.475 soggetti (appena lo 0,05% degli “affidatari”) hanno a disposizione 722,9 miliardi di euro, pari al 56% del totale dei crediti erogati dal sistema bancario italiano. “E questo dato è cresciuto dal 2010, quando era pari al 51%” spiega un rapporto del Centro studi Fiba. Commentando i dati al telefono con Ae, il sindacato spiega che chi ha accesso a questi prestiti non va in filiale, perché sono erogazioni decise dai consigli d’amministrazione. —

È iniziata la terza fase
“Basilea 3” è la terza fase di riforme promosse dal Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria. Il suo obiettivo è un rafforzamento della regolamentazione e della vigilanza sui bilanci di tutti gli istituti di credito, e dal gennaio 2014 a tutto il 2019 introdurrà in modo progressivo vincoli più stringenti per gli istituti di credito dei Paesi che hanno adottato Basilea 3, da quelli europei agli Usa, dalla Cina al Giappone.
La regolamentazione poggia su tre pilastri: il primo riguarda il capitale, la copertura dei rischi e il contenimento della leva finanziaria; il secondo la gestione dei rischi, il terzo la disciplina di mercato. Tra le novità introdotte per il monitoraggio della liquidità, un indicatore denominato Lcr (Liquidity Coverage Ratio) in base al quale le banche dovranno detenere attività liquide di elevata qualità in grado di fronteggiare uno scenario di 30 giorni di stress nella raccolta. 
Per le banche europee, a Basilea 3 si accompagna il processo per l’istituzione di un’Autorità di vigilanza unica europea, che farà capo alla Banca centrale europea, che nel primo semestre del 2013 sottoporrà a “stress test” i bilanci di 130 istituti, tra cui 15 italiani. 

Banca Etica passa la prova
Anche Banca Etica fa i conti con “Basilea 3”, e con le ispezioni di Banca d’Italia, che a fine luglio ha passato in rassegna i conti ma “non ci ha cambiato il bilancio, non ci ha chiesto di effettuare nessuna rettifica, ma solo di passare alcuni crediti a sofferenze, circa 2 milioni di euro su un livello di impieghi intorno ai 650 milioni” come racconta ad Ae il presidente, Ugo Biggeri. Se Banca Etica è tranquilla di fronte a Basilea 3 è anche perché -spiega Biggeri- “non abbiamo mai voluto realizzare bilanci strabilianti, in quanto ad utili, e abbiamo sempre realizzato correttamente gli accantonamenti, che dovrebbero riguardare tutti i crediti, e non solo quelli dubbi”. In ogni caso, i crediti deteriorati per Banca Etica rappresentano meno del 9 per cento del totale, al di sotto della media nazionale (sopra il 13%). Unico neo, secondo Biggeri, è che nell’ultimo anno il coefficente Core Tier1, quello che misura la qualità del capitale, è migliorato -fin sopra il 9 per cento- non tanto perché sia aumentata la capitalizzazione, che è cresciuta solo di 3,5 milioni di euro (a 45,8 milioni, con oltre 37mila soci), ma perché sono diminuiti gli impieghi.

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