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Altre Economie

Astorflex e “xigas”, il dibattito continua

Riceviamo a volentieri pubblichiamo un nuovo intervento di Ersilia Monti

A: – Gigi Perinello, Fabio Travenzoli Calzaturificio Astor Flex –    Rete GAS
p.c. : Carta, Altreconomia DA: Ersilia Monti, GAS LoLa, Milano (ersilia.monti@livecom.it)
Ogg.: replica alla lettera di Astor Flex del 27 aprile 2011

22 maggio 2011
La mia lettera ad Astor Flex ha suscitato un dibattito molto animato sul sito di Carta, che per la verità speravo avrebbe potuto svolgersi prioritariamente nella rete nazionale GAS, ma ha anche conseguito un primo, importante risultato: dalla prima settimana di maggio la sezione “Azienda” sul sito di Astor Flex è stata aggiornata e ora il buco relativo alla sua produzione estera è stato colmato. Lo considero un passo avanti, seppur tardivo (lo scorso anno vi furono esplicite richieste in questo senso nel primo dibattito sul sito di Carta), nella direzione di una maggiore trasparenza.
La prima parte della lettera di Astor Flex è occupata da una dissertazione sulla responsabilità sociale d’impresa per puntualizzare come il “prodotto” non possa essere considerato disgiunto dall’attività d’impresa. Ripeto la domanda che ho posto nella mia prima lettera, e che riprende le argomentazioni di Paolo Trezzi dell’aprile 2010: può un’azienda dirsi etica perché all’interno della sua filiera adotta criteri di sostenibilità socio-ambientale per un’unica linea o per limitate linee di prodotto?
E’ evidente che l’impresa deve rispondere della propria produzione, ma della produzione nel suo complesso, e non di una frazione di essa. Possibile che da un anno non riusciamo a intenderci su questo punto? Quando un’azienda dichiara che una parte della sua produzione è “etica”, sta implicitamente ammettendo che il resto non lo è. E’ un’affermazione di una certa importanza. Nel caso di Astor Flex, la produzione “non etica” è il carburante economico di quella “etica” e ne garantisce la sopravvivenza, pertanto il prodotto “non etico” è parte integrante di quello “etico”. In altre parole, se non ci fosse produzione rumena, destinata alla grande distribuzione (e di cui, a differenza del prodotto italiano, e benché preponderante, non sappiamo nulla), non esisterebbe neppure il progetto Astorflex per i GAS. L’auspicio di tutti, giudicando dallo scambio di opinioni in corso, è che aumenti la quota di prodotto “pulito” per far sì che si riduca progressivamente fino ad azzerarsi la quota di prodotto che lo è meno (quella ottenuta in un altro paese, con materiali potenzialmente tossici, in condizioni di lavoro non garantite, destinata alla gdo). Questo, mi pare di capire, è ciò che i più intendono per “riconversione” virtuosa di Astor Flex.
Ma così facendo non stiamo ignorando con poco senso di gratitudine il contributo che i lavoratori rumeni hanno dato e stanno ancora dando nel puntellare il sogno di una scarpa perfetta e che molto probabilmente subiranno con la rilocalizzazione la perdita del lavoro e un peggioramento delle condizioni di vita per sé e per le proprie famiglie? Sì, è bel un problema e qualcuno l’ha sottolineato (“non ci piace che Astorflex lavori in Romania e usi il cromo, ma vorremmo che trattasse bene i dipendenti e che non li licenziasse: come quadrare il cerchio?”, scrive Enrico Usvelli). Tutto dipende da che cosa intendiamo per riconversione. E’ un tema da affrontare.
Ci muoviamo pur tuttavia nel campo delle ipotesi, perché i dati economici forniti da Astor Flex sono scarni e non univoci. Che cosa significa che è stata riportata in Italia fra il 25 e il 40% della produzione (35% nella risposta di Astor Flex aprile 2010; 40% nell’articolo a firma Gigi Perinello
sul blog del PD di Este ottobre 2010 e nella pagina pubblicitaria XIGAS su La Nuova Ecologia dicembre 2010, 25-30% nella risposta di Astor Flex aprile 2011)? Si sta dicendo che sono state tolte commesse al fornitore rumeno per il 25-40% degli ordinativi usuali? In questo caso, la riduzione di commesse in Romania ha significato perdita di posti di lavoro o il fornitore rumeno ha potuto assorbire il calo produttivo con ordinativi di altri committenti? E la grande distribuzione, ha accettato che un suo fornitore decidesse unilateralmente una riduzione tanto consistente nelle forniture? Oppure stiamo dicendo che fatta cento la produzione rumena abbiamo creato nuovo lavoro in Italia per realizzare una quota di prodotto nuovo che oscilla fra il 25 e il 40% di quello realizzato in Romania? Oppure che i lavoratori italiani stanno lavorando più ore e in cambio di maggiori incentivi? Il fornitore rumeno chi è? Lavora per altre imprese? I 20 lavoratori rumeni di cui parla Astor Flex sono la totalità della sua manodopera o sono solo quelli dedicati al prodotto dell’azienda italiana? Chi stabilisce le tariffe di commessa, le condizioni di lavoro, e quali sono nel concreto?
Queste e altre domande, queste e altre riflessioni (come quelle espresse da Marco, del GAS Pavia, da Sebastiano Moruzzi, da Luigi Botrugno, da Gabriele Caponetto, da Enrico Usvelli, per citarne alcuni) necessitano di risposte approfondite per meglio comprendere il contesto in cui l’azienda è collocata, quali sono i problemi che sta affrontando, quali gli ostacoli che non riesce a superare, come agisce e con che grado di autonomia nella filiera estera, e occorre che ci siano chiarimenti esaustivi, che scendano nel dettaglio.
Se i GAS non entrano in quest’ordine di problemi e aspirano solo, in un ambito di filiera corta, a ottenere prodotti di ottima qualità, a un buon prezzo, e con perfetta assistenza post vendita (come traspare da alcuni commenti di gasisti), si pongono loro malgrado in una condizione che è quella di chi gode di un privilegio. Se l’azienda è estremamente trasparente su tutto ciò che concerne il progetto “etico” ma è omissiva o reticente sul resto della produzione, non sta operando secondo criteri di responsabilità sociale. Come uscirne?
E’ Astor Flex stessa a suggerirci una via, laddove, in risposta alla mia sollecitazione a proposito del futuro dei lavoratori rumeni, invita tutti a una collaborazione per trovare una soluzione per tutti i lavoratori, esteri ed italiani. E’ un’occasione da non perdere per tutti i GAS e i singoli gasisti che hanno creduto e che credono nel progetto di Astor Flex per i GAS. L’occasione per coordinarsi e sedere a un tavolo con l’azienda dove esprimere dubbi, ascoltare chiarimenti, esporre proposte (e alcune in rete sono state fatte), leggere i bilanci, i conti economici, guardare nei cassetti, purché ben aperti, della sua filiera estera. Accompagnare, insomma, l’azienda verso la riconversione. E’ una sfida ambiziosa, ma alla portata di un’azienda come Astor Flex e dell’esperienza maturata dai gruppi di acquisto solidale.
Passo ora alla questione XIGAS.
Gigi Perinello e Fabio Travenzoli nella loro lettera lo negano, ma XIGAS è un marchio d’impresa, non registrato, di una società registrata alla camera di commercio, la XIGAS S.r.l. La legge consente l’uso di marchi non registrati, semplicemente non li tutela contro la registrazione da parte di altri, ovvero non ne tutela l’esclusività. XIGAS non compare su nessun prodotto perché il suo scopo è quello di identificare, fungendo da veicolo promozionale, non un prodotto ma un sistema di aziende, ognuna delle quali dotata di propria autonomia e di proprio marchio.
Se andate sul sito di Astor Flex, nella sezione “Azienda”, e fate scorrere il testo di presentazione nella parte che tratta della rete di aziende artigiane, ad un certo punto troverete questa laconica ma
chiarificante dichiarazione, inserita dopo il rifacimento della pagina agli inizi di maggio, quindi in epoca successiva al colloquio che ho avuto con Gigi Perinello in fiera, e successiva alla mia lettera e alla risposta di Astor Flex: “Per fare questo l’unico modo fiscalmente corretto era creare una società, la XIGAS”.
Da una mia piccola ricerca risulta che la XIGAS è la denominazione di una società a responsabilità limitata, la XIGAS S.r.l., iscritta nel registro delle imprese il 6 aprile 2010, avente per titolari Gigi Perinello e Fabio Travenzoli. Con il seguente oggetto sociale: “Consulenza commerciale e organizzazione di reti di vendita, studio di materiale divulgativo e commerciale in genere, sviluppo e organizzazione di strutture di vendita rivolte a clienti privati e pubblici, formazione di reti commerciali; assunzione di mandati di rappresentanza ed agenzia per la vendita di articoli di abbigliamento, calzature e pelletterie; commercializzazione di articoli di abbigliamento, calzature, pelletterie in genere”.
Perché non mi fu detto niente a Fa’ la Cosa Giusta, quando mi recai personalmente allo stand XIGAS, lo scorso marzo, per esprimere le mie perplessità sull’uso di quello che ritenevo un logo utilizzato impropriamente come marchio commerciale? Perché non c’è una sola parola sull’esistenza di questa società nella lettera di risposta di Astor Flex ? Ha il sapore della beffa rileggere adesso in quella lettera frasi come queste: “A Milano abbiamo risposto nel modo che reputavamo il più esauriente possibile, ma evidentemente questo non è stato sufficiente […] ci era apparso evidente che lei non ci ascoltava […] ogni nostra risposta, già allora, non aveva il valore di un chiarimento”. Giudichi chi legge se possiamo definire questo comportamento, un comportamento corretto e trasparente.
I miei timori erano fondati, oggi il nome che identifica i gruppi d’acquisto solidale (per acronimo o per esteso poco importa) è stato registrato da qualcuno a fini commerciali senza che ne fossimo preventivamente informati per permetterci di esprimere il nostro parere. E’ un precedente di cui dobbiamo tenere conto per il futuro.
Gigi Perinello e Fabio Travenzoli ci informano che le aziende messe in rete da XIGAS si stanno orientando preferibilmente verso altri segmenti di mercato e che pertanto “si andrà verso un graduale superamento del concetto XIGAS” a partire dalla ristrutturazione del relativo portale. Premesso che non può esistere un cambiamento “graduale” del nome di una società, non posso che prendere atto con soddisfazione che è intenzione di Astor Flex trovare in tempi, che mi auguro ragionevolmente brevi, una soluzione a una situazione a dir poco ingarbugliata. L’urgenza è dettata dal fatto che, per come è impostata e per il nome con cui si presenta, l’operazione XIGAS è tale da trarre in inganno, in particolare i soggetti esterni al mondo GAS (“soggetti privati e pubblici, negozi del commercio equo, negozi di prodotti naturali, negozianti sensibili al lavoro territoriale di aziende attente al lavoro e all’ambiente, ecc.”) ai quali l’offerta XIGAS va progressivamente allargandosi, inducendo a credere che i gruppi di acquisto abbiano autorizzato l’uso del loro nome e che i produttori selezionati in completa autonomia dai titolari di XIGAS abbiano ottenuto la loro approvazione e che pertanto i GAS svolgano nei confronti di queste imprese un ruolo di garanzia. Ne è un esempio la campagna pubblicitaria che ha occupato per sei mesi le pagine de La Nuova Ecologia rivolgendosi appunto a un pubblico più vasto.
Su questa questione di senso e di metodo non leggo nella lettera di risposta di Astor Flex parole di ripensamento, solo che allo stato attuale “il nome XIGAS ha un significato riduttivo ed è effettivamente inadatto a descrivere l’ampliamento del progetto” e che ci sarebbe stata da parte mia una “maliziosa interpretazione dell’uso da parte [di Astor Flex] dell’acronimo Gas”. Si dice che “XIGAS è nato così, ingenuamente, senza secondi fini. Non lo abbiamo mai registrato e non compare su nessun prodotto” (è però una S.r.l.). Astor Flex non è un’associazione caritatevole, non
è una onlus, non è un’organizzazione del terzo settore. Non siamo neppure, per lo meno per ora, nell’ambito dell’economia solidale. E’ un’impresa e pertanto, come essa stessa dichiara, “un’organizzazione economica che, per definizione, realizza la finalità del profitto”. In affari, non ci si può permettere ingenuità, le ingenuità si pagano e, nel caso specifico, le pagano i GAS con il concretizzarsi di un precedente che può additare la strada ad altri soggetti economici, questi sì privi di scrupoli. Perché quando si profileranno all’orizzonte del mondo GAS (e i tempi sono maturi) aziende dotate più di capacità persuasiva che di buone intenzioni, il terreno sarà già spianato: i consumatori non saranno più in grado di smascherarne i propositi essendosi ormai assuefatti a strategie sbagliate di comunicazione e di marketing; i produttori corretti vedranno disperdersi il loro vero patrimonio, quello di un consumo vigile che sa riconoscere la qualità e la serietà autentiche. E’ questa preoccupazione che mi ha spinto ad avvicinare Gigi Perinello in fiera (e ad esporgli queste riflessioni così come le ho scritte) e a scrivere la mia lettera.
E’ con l’abile e spregiudicato uso della comunicazione che i marchi ci hanno legati a sé creando quella dipendenza dalla quale Gigi Perinello sente la missione di “decolonizzare le menti”. Non dobbiamo cadere nella stessa trappola.
Nemmeno nelle osservazioni postate in rete da Massimo Pinzan di Produttori Indipendenti leggo una riflessione su questo, cioè sugli strumenti comunicativi utilizzati per promuovere le aziende messe in rete da Astor Flex. Mi si rimprovera di criticare “possibili alleanze fra imprese e consumatori” e di non ammettere di “nutrire pregiudizi verso aziende private” e di mettere in pericolo posti di lavoro e percorsi innovativi di produzione. Tutto questo non è mai stato al centro delle mie osservazioni che si focalizzano sull’uso della comunicazione e della trasparenza (di Astor Flex). Esprima piuttosto il suo parere sui rilievi che lo riguardano come produttore di XIGAS: è d’accordo che per creare un veicolo promozionale per la sua come per le altre imprese (tutte sicuramente meritevoli, chi l’ha mai messo in dubbio) si sia fondata una società che incorpora il nome dei GAS senza averli prima consultati e che si usi il loro nome per campagne pubblicitarie? Condivide l’opinione che XIGAS debba cambiare nome? Ha ragione quando dice che bisogna “confrontarsi sulle spinose, a volte critiche relazioni fra impresa e mercato, anche quello critico”. La mia lettera credo abbia almeno questo merito, aver rotto il ghiaccio su un confronto necessario.
Credo che risulti abbastanza evidente che non basta offrire un prodotto ai GAS perché tale prodotto diventi automaticamente un prodotto “per i GAS”: qui sta il punto debole ed estremamente discutibile dell’operazione commerciale XIGAS. Vorrei portare l’esempio delle calzature da montagna Gronell. Gronell è un’azienda artigiana di tutto rispetto, produce decine e decine di modelli di scarpe sportive, per la montagna, l’alpinismo, il tempo libero e il lavoro, con reti distributive in Italia e all’estero. Insomma, è un’azienda che ha saputo ben collocarsi nel mercato tradizionale e non ha necessità di vendere ai GAS. Su richiesta di Astor Flex, per i gruppi d’acquisto ha adattato due suoi modelli di scarponi a concia chimica (tecnica insostituibile per esigenze di impermeabilizzazione) differenziandoli con l’uso di una fodera interna ai tannini vegetali. Un po’ poco per definire il risultato così ottenuto “un prodotto etico”. Gronell è leader nella produzione di scarpe per la caccia. Sarebbe sicuramente più etico se rinunciasse, dichiarandolo pubblicamente, a dare il proprio contributo alla pratica di un hobby tanto crudele e incivile come è quello della caccia per il quale offre una gamma di ben nove modelli diversi di calzature. Ma è anche un fornitore dell’esercito italiano, ci va bene? E’ un piccolo esempio della differenza che si ricordava all’inizio fra azienda etica e prodotto etico.
Personalmente penso che i produttori dedicati ai GAS dovrebbero abbandonare termini come “eticità”, “etico”, nel definire le caratteristiche della propria produzione, in favore di espressioni più articolate e più rispondenti al percorso concreto che hanno intrapreso, come per esempio “rispettoso dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente”, “sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale”, “in transizione verso una maggiore sostenibilità ambientale”, e altri simili. Per un pacifista, per
esempio, una scarpa Gronell non può definirsi “etica”, per un vegetariano o per un vegano, nessuna calzatura in pelle può essere né mai potrà diventare etica.
Parliamo di informazione ai consumatori
Uno dei motivi di insoddisfazione per le imprese artigiane messe in rete da Astor Flex nei loro rapporti con la grande committenza è “la mancanza di visibilità in un mercato dove appare solo il marchio del committente e non del vero produttore” (dal sito XIGAS). A quanto pare con il progetto XIGAS, da questo punto di vista, non si sono fatti molti progressi. Relegare il nome di un produttore di abbigliamento che ha ben operato alla busta che contiene il capo e che è destinata al bidone della spazzatura, benché la legge lo consenta, non è rendere un buon servizio né a chi produce né a chi acquista. Mortifica il produttore nel suo diritto ad essere riconosciuto come l’artefice del prodotto realizzato e l’acquirente nel suo diritto ad essere informato nel modo più completo e meno provvisorio possibile. Non mi sto ovviamente riferendo al marchio apposto all’esterno del capo, che associa un prodotto a un’impresa e le fa pubblicità ogni volta che viene indossato (ovviamente da bandire), ma del nome dell’azienda produttrice completo del suo indirizzo, che può essere facilmente stampato sulle etichette di origine o di manutenzione cucite all’interno del capo. Solo le scarpe e l’abbigliamento intimo, per via delle loro ridotte dimensioni, possono rappresentare un’eccezione. Possiedo un campione interessante di etichetta completa della quale posso fornire una scansione a chi me la richieda. In fiera, a Fa’ la Cosa Giusta, ho visto un maglione di Confezioni Margaret etichettato in questo modo: nella parte interna dello scollo posteriore dove normalmente è cucito il nome del produttore o il suo marchio compariva un’etichetta con la dicitura “made in Italy” (marchio d’impresa o marchio d’origine, alla fine sempre marchi sono…); nella parte superiore dell’etichetta di manutenzione, se non ricordo male, era stampigliato o ricamato non il nome completo dell’azienda, ma solo una sua parte,“Margaret”. Per come la vedo io, un gran pasticcio. Cerchiamo di essere innovativi anche nell’uso delle etichette affinché comincino a svolgere la funzione che gli è propria, quella di carta di identità del prodotto.
Per quanto riguarda la dicitura “made in Italy” apposta sui prodotti Astor Flex destinati alla grande distribuzione, prendo atto che la lavorazione effettuata in Italia costituisce il 60% della lavorazione complessiva, pertanto in base alla legge molto permissiva attualmente vigente, la dicitura così formulata può considerarsi legittima, pur essendo incompleta e non idonea a informare sull’esatta provenienza del prodotto. Resta da chiedersi quali azioni possano efficacemente essere messe in campo nei confronti della grande distribuzione dai gasisti che credono nel progetto Astorflex per denunciare il pericolo che la perdita di ordinativi che l’azienda segnala nella sua lettera come un rischio imminente e concreto possa mettere a repentaglio la produzione per i gruppi d’acquisto che dalle vendite nella gdo ancora dipende. E’ un argomento che potrebbe trovare un luogo di discussione nel tavolo di coordinamento fra i GAS e Astor Flex che suggerivo all’inizio della mia lettera come una possibile ipotesi di lavoro.
Trasparenza e tracciabilità
Diverse persone, immaginando di poter allargare l’offerta di prodotti alternativi per i propri gruppi d’acquisto, mi hanno chiesto di fornire i nomi dei grandi marchi che io giudico più avanzati rispetto ad Astor Flex lungo il percorso della responsabilità sociale. Mi dispiace deludervi, non ho consigli da darvi. Un prodotto “che ci vergogneremmo ad indossare” resta un prodotto da non comprare. Tuttavia i grandi marchi dello sport, per esempio Adidas o Nike, i simboli negativi della globalizzazione, dopo tanti anni di campagne di pressione pubblica, hanno fatto dei passi avanti in termini di trasparenza dai quali prendere esempio. E mi sto riferendo alla quota di produzione Astor Flex realizzata all’estero, non a quella realizzata in Italia per i GAS. Per prima cosa queste imprese sono uscite dalla segretezza, da diversi anni i loro siti pubblicano l’elenco completo e gli indirizzi
dei loro fornitori unitamente ai rapporti periodici relativi alle indagini svolte nelle loro filiere produttive, si confrontano con ong e sindacati, non si trincerano più dietro il paravento dell’autocertificazione o delle dichiarazioni unilaterali, e negli ultimi anni hanno stabilito un precedente cominciando a risarcire i lavoratori di fornitori inadempienti.
E’ sufficiente? Sono aziende etiche? Neanche per sogno. Hanno 800 mila lavoratori ciascuna in decine di paesi nel mondo e oltre 700 fornitori operanti in un sistema industriale globale fondato sulla subfornitura e la ricerca del minor costo, un sistema spietato e difficile da monitorare. Restano imprese, come ricordava qualcuno, “a cui periodicamente tocca scrivere per segnalare qualche problema con qualche loro fornitore dell’estremo oriente”. E siamo noi della Campagna Abiti Puliti a chiedervi di scrivere…
Quando accogliamo fra i nostri produttori aziende in riconversione che hanno ancora produzione delocalizzata, dobbiamo pretendere che si relazionino con noi lungo la “scala verso l’alto” a partire dai gradini che sono già stati saliti dalle imprese convenzionali in seguito a tanti anni di sollecitazioni, e che dobbiamo dare per acquisiti.
Un sito come quello di Astor Flex, che fino a pochi giorni fa negava per omissione tutta la sua catena estera, ci fa fare un salto indietro di 15 anni. Va riconosciuto che Astor Flex non nasconde la verità negli incontri pubblici, ma questo non basta; nell’epoca delle reti il luogo principale della trasparenza per un’azienda è il suo sito internet e ovviamente i mezzi di informazione. Immaginate un negozio di abbigliamento ecologico, tanto per fare un esempio, che colpito favorevolmente dalla pubblicità su La Nuova Ecologia e, dopo aver letto l’articolo apparso al termine della campagna pubblicitaria nel dicembre 2010, dove ancora una volta si dice che l’azienda ha “riportato a casa la produzione prima delocalizzata” e “ha resistito alla sirena della cattiva delocalizzazione”, va a leggersi la storia dell’azienda sul sito e ci trova solo l’informazione che dopo aver servito per anni la grande distribuzione, Astor Flex ha deciso di fare un salto di qualità offrendo una scarpa realizzata in Italia con materiali a basso impatto ambientale, nel rispetto delle leggi del lavoro, e trasparente nei suoi costi. Pensate che questo ipotetico, potenziale cliente, abbia capito che si tratta di un’azienda che ha il 70% della sua produzione realizzata in Romania?
Nel 1998 un certo Marc Kasky, attivista di San Francisco, intentò causa a Nike per pubblicità ingannevole e false informazioni ai consumatori, sulla base di una legge dello stato della California che consentiva ai singoli cittadini di costituirsi in giudizio per tutelare gli interessi della comunità. Nike era accusata di mentire in interviste e comunicati stampa sulle reali condizioni di lavoro nei suoi stabilimenti asiatici. La Corte Suprema, alla quale si appellò Nike, dichiarò nel 2003 il ricorso ammissibile, e la multinazionale americana preferì venirne fuori con un accordo extragiudiziale in base al quale versò 1,5 milioni di dollari alla Fair Labor Association, organizzazione multistakeholder alla quale Nike aderisce, da investire in programmi di monitoraggio e di miglioramento delle condizioni di lavoro.
E’ anche in seguito a episodi di questo tipo se le aziende che godono di una certa notorietà stanno piuttosto attente a come comunicano con il pubblico su argomenti sensibili. Non credo di sbagliarmi se dico che in un altro contesto, in un altro paese, e per un’azienda di dimensioni e importanza diverse, un sito come quello di Astor Flex prima del 5 maggio scorso non sarebbe passato indenne al vaglio di un qualsiasi Marc Kasky.
Ma questo ce lo siamo messo felicemente alle spalle, ora occorre che Astor Flex faccia uno sforzo ulteriore. E’ sicuramente apprezzabile che un’azienda dia grande risalto ai suoi fornitori e alle loro modalità di produzione, credo ci sia poco di simile nel panorama italiano. Ma anche il produttore rumeno delle tomaie per la grande distribuzione è un fornitore di Astor Flex e il luogo della trasparenza è nella sezione “Materiali e partners” del sito insieme ai fornitori dei materiali per la costruzione delle scarpe destinate ai gruppi d’acquisto.
Se Astor Flex riuscisse a salire quest’ulteriore gradino avrebbe stabilito un esempio al quale tutte le aziende italiane in riconversione, e non solo, desiderose di intraprendere un percorso di
responsabilità sociale, dovrebbero da ora in poi rifarsi. Un’ultima osservazione: nella scheda della scarpa Pedula Ecoflex Pelle Mood, la frase “come del resto tutta la nostra produzione” che segue a “realizzata in Italia” va eliminata in quanto non corrisponde al vero in relazione all’insieme della produzione Astor Flex.
Per finire vorrei spendere due parole sulle informazioni di stampa. E’ vero che Carta (articolo nel numero del 20-26 febbraio 2009) e Altreconomia (articolo del 30 ottobre 2009) hanno informato correttamente rispetto alla quota di produzione rumena. Nessuno l’ha mai negato, ma non basta per dire che in virtù di questo la questione “è ben nota a tutti”. Tutti gli articoli di stampa a mia conoscenza, oltre al servizio di Report, che abbiano trattato del caso Astor Flex, dimenticano di riferire della parte ancora preponderante della produzione dell’azienda, quella delocalizzata: Il Sole 24 Ore (5 gennaio 2009), Il Manifesto (5 agosto 2009), Il Giornale (9 dicembre 2009), Novambiente News (giugno 2010, qui addirittura si sostiene che Fabio Travenzoli abbandona la fabbrica in Romania per tornare a produrre in Italia), La Nuova Ecologia (dicembre 2010), Il Giornale (27 gennaio 2011). E’ mai possibile una tale incidenza di malintesi? Alcuni di questi articoli, insieme al video di Report, si trovano nella sezione “Rassegna stampa” sul sito di Astor Flex, segno che l’azienda ne reputa adeguato il contenuto.
Termino questa mia lettera scusandomi per la lunghezza e augurandomi di aver portato al dibattito utili riflessioni e di aver dato un contributo nella ricerca di relazioni sempre migliori, nel reciproco interesse, fra i gruppi d’acquisto e i loro produttori.

Cordiali saluti.
Ersilia Monti, GAS LoLa, Milano

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