Cultura e scienza / Opinioni
L’arte occidentale e la dignità dei soggiogati
Tra i Quattro Mori di Livorno c’è il primo ritratto scultoreo di schiavo identificabile: la ricerca storica gli ha restituito un nome e un briciolo di giustizia. La rubrica di Tomaso Montanari
La celebre esperienza tahitiana di Paul Gauguin è solo uno dei tanti episodi di “orientalismo” della storia della cultura occidentale in età moderna. Come quasi sempre in questi casi, anche per Gauguin il punto non era conoscere realmente una cultura diversa, mettendosi completamente in gioco, ma al contrario articolare e consolidare una diversa configurazione della propria identità occidentale: in altre parole, seguire Gauguin a Thaiti significa capire meglio la Parigi dell’ultimo decennio dell’Ottocento, non certo la cultura maori. Esattamente come, ottant’anni più tardi, seguire i Beatles nel loro viaggio in India serve a comprendere i Beatles, non l’India.
Anche se in questi casi la retorica corrente parla di “incontri”, si tratta semmai di momenti di costruzione identitaria tutti giocati all’interno di una sola cultura, quella occidentale. Come ha scritto Edward Said in Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente (1978), l’immagine dell’Oriente che ci viene restituita dalla nostra storia della cultura, e anche dalla storia dell’arte, è quasi sempre “Una costruzione ideata dall’Occidente per soggiogare l’altro”.
Una prova assai esplicita di questa analisi è la storia dell’immagine dei neri nell’arte occidentale. Sono rarissime le opere d’arte in cui persone di pelle nera vengano rappresentate con la piena dignità di esseri umani: uno di questi casi è il ritratto dello schiavo Juan de Pareja dipinto a Roma nel 1650 da Velázquez, un altro è lo struggente ritratto della schiava Katharina disegnato da Albrecht Dürer nel 1521.
Assai più spesso invece, si tratta di immagini tristemente eloquenti circa la natura dei rapporti con l’“altro”. Un caso particolarmente importante, perché riguarda un monumento pubblico ancora al suo posto, è rappresentato dai Quattro Mori di Livorno. Scolpito nel marmo di Carrara, il granduca Ferdinando I domina quattro “cattivi”, cioè quattro “infedeli” catturati dalla flotta toscana dei Cavalieri di Santo Stefano. Non era solo un’allegoria: alla fine del regno di Ferdinando (1587-1609), a Livorno gli schiavi musulmani erano 6.000, la maggioranza assoluta dei 10.000 abitanti della città.
Quando Cosimo II aveva chiesto al grande bronzista Pietro Tacca di completare il monumento rappresentando i Mori su cui far trionfare suo padre, lo scultore studiò dal vivo i suoi modelli, andando di persona a Livorno per studiare nel Bagno -l’enorme prigione che derivava forse il suo nome dalla parola turca banyol, “carcere reale”- “Uno schiavo moro turco, che chiamavasi per soprannome Morgiano, che per grandezza di persona, e per fattezze, d’ogni sua parte era bellissimo”.
Lo storico dell’arte americano Steven Ostrow ha rinvenuto un elenco -databile tra il 1608 e il 1624, proprio quando Tacca va a Livorno- di 164 “schiavi mori de’ galeoni quali sono nel Bagnio, buoni al remo”. Tra di essi troviamo “Margiano di Macamutto, di Tangiur, di anni 25, da vendersi”: un nero tangerino che probabilmente era stato già fatto schiavo dagli ottomani cui era stato sottratto dalla flotta toscana. Tra i Quattro Mori di Livorno vediamo dunque il primo ritratto scultoreo di schiavo sicuramente identificabile nella intera storia occidentale: la ricerca storica gli restituisce un nome, e un briciolo di giustizia. E Margiano, nel bronzo, è bellissimo: molto più del candido granduca. Pur nella necessaria sottomissione al potere e alla mentalità dominante, il carattere radicale e intrinsecamente rivoluzionario dell’arte poneva le basi di un futuro diverso.
Tomaso Montanari è professore ordinario presso l’Università per stranieri di Siena. Da marzo 2017 è presidente di Libertà e Giustizia.
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